Dalla crisi dei consensi al Sud alla chiusura oligarchica: il Movimento 5 Stelle di fronte al proprio modello organizzativo
Un movimento nato dal marketing politico
Una riflessione sul voto delle regionali in Calabria non può prescindere da un’analisi del Movimento 5 Stelle. Il movimento fondato come una pura e semplice operazione di marketing dal duo Grillo-Casaleggio nasce da una costola di Italia dei Valori e, come ha spiegato Antonio Di Pietro in un’intervista rilasciata a l’Espresso, è destinato — salvo sterzate dell’ultimo momento — a fare la stessa fine.
Il M5S, stando ai dati elettorali,
si presenta come un movimento politico meridionale, il che non equivale a dire
“meridionalista”. È passato dal 25,55% delle politiche del 2013 al 15,43% del
2022, perdendo in nove anni circa la metà degli elettori: da 8,7 a 4,3 milioni
di voti.
Dalla crescita al Mezzogiorno al crollo nazionale
Nel 2013 il M5S registrava una
percentuale omogenea in tutte le circoscrizioni, raramente al di sotto del 20%,
con una media intorno al 25%. Il quadro cambia radicalmente nel 2018: al Nord
il movimento conferma i dati del 2013, mentre nel Mezzogiorno supera il 40%,
con punte prossime al 50%.
Il M5S appare così come un soggetto
politico fortemente radicato nel Sud, ma incapace di trasformare il consenso
nazionale in risultati amministrativi. Alle elezioni locali ed europee il
movimento si scioglie “come neve al sole”, segno di una proposta politica
debole e di una chiusura del gruppo dirigente verso gli strati sociali che ne
avevano alimentato la forza originaria.
La paura del declino e il voto del 2022
Negli anni successivi si è
manifestato un timore diffuso, più o meno esplicito, dei dirigenti del M5S di
perdere la propria posizione. Alle politiche del 2022 il movimento ha mantenuto
un’impronta essenzialmente meridionale: sotto il 10% al Nord, tra il 10 e il
12% al Centro, tra il 25 e il 30% al Sud.
Rispetto al 2018 è passato da 10,9
milioni di voti (32,68%) a 4,3 milioni (15,43%). È difficile rintracciare nella
storia repubblicana una caduta di tale entità in un arco temporale così breve.
I dati locali: un radicamento
mancato
Le elezioni locali confermano la
fragilità del M5S. Nelle Marche il movimento è sceso dal 35,5% del 2018 al
13,6% del 2022; in Calabria dal 43,4% al 29,4%. Alle regionali, il tracollo è
ancora più netto: nelle Marche il 21,8% del 2015 è diventato l’8,6% nel 2020 e
il 5,1% nel 2025; in Calabria il 6,3% del 2020 si è sostanzialmente ripetuto
nel 2025, dopo l’assenza del simbolo nel 2021.
L’unica novità significativa è stata
la candidatura di Pasquale Tridico, figura con un profilo politico chiaro, ma
le scelte compiute al Parlamento europeo hanno reso esplicita la confusione
strategica che domina il movimento.
Il modello organizzativo: dalla
democrazia diretta alla fedeltà al capo
L’incapacità di costruire consenso
territoriale dipende in larga misura dal modello organizzativo. La democrazia diretta
su cui il M5S era nato — simboleggiata dalla piattaforma Rousseau — è stata
sostituita dal principio della “fedeltà al capo”.
Gli iscritti sono ora chiamati a
eleggere il Presidente, cioè il capo politico del movimento. A fronte delle
autocandidature, nessuna è riuscita a raccogliere le 500 firme necessarie,
tranne Giuseppe Conte. Di conseguenza, la nomina dei coordinatori regionali e
locali avviene per cooptazione, in base al grado di lealtà personale.
Un sistema simile non favorisce
l’apertura verso la società e spiega in larga parte il calo del consenso
registrato tra elezioni politiche, europee e amministrative.
Un partito senza dibattito
Nei partiti tradizionali, di fronte a
sconfitte di questa portata, si sarebbe aperto un dibattito interno. Nel M5S,
invece, il confronto tra centro e periferia è di fatto impedito. Intorno al
leader si è alzato un muro che isola i territori e cristallizza le posizioni di
potere.
Il movimento ha assunto la forma di
un sistema oligarchico guidato da un sovrano legibus
solutus, fonte unica del diritto e dotato di carisma: una
dimensione quasi religiosa.
Il caso Basilicata: la protesta
degli iscritti
In Basilicata, regione dove il M5S
aveva ottenuto risultati da fare invidia alla Democrazia Cristiana degli anni
d’oro, un gruppo di iscritti ha denunciato pubblicamente lo stato comatoso del
movimento, ridotto — a loro dire — a una sorta di feudo personale.
Nel comunicato diffuso alla stampa
locale si legge:
«Negli ultimi anni, più volte
attivisti e militanti hanno denunciato la deriva autoreferenziale e
antidemocratica che ha caratterizzato la guida regionale del M5S lucano.
Nonostante i risultati elettorali deludenti — con il movimento che alle ultime
regionali ha perso due terzi dei consensi, un consigliere e non ha confermato
nessun sindaco uscente — non si è aperta alcuna riflessione politica.
L’attuale dirigenza si è trasformata in una casta, concentrando cariche e
incarichi sempre nelle stesse mani, senza alcun rispetto delle regole interne e
impedendo ogni reale confronto. […]
Crediamo che il Movimento 5 Stelle possa ritrovare la propria forza solo
tornando a essere comunità, luogo di idee e di partecipazione, non un semplice
simbolo da gestire.»
Un segnale dal basso?
Dalle parole dei sottoscrittori
emerge chiaramente che la questione non riguarda Conte — che continua a godere
di un ampio consenso interno — ma il sistema organizzativo nel suo complesso,
ormai logorato. I risultati delle ultime elezioni europee e regionali, tanto
nelle Marche quanto in Calabria, lo dimostrano.
In Campania, è opinione diffusa che
il risultato dipenderà più da De Luca che da Fico. Resta ora da capire se la
presa di posizione dei militanti lucani resterà un episodio locale o aprirà la
strada a iniziative simili in altre regioni.
Il M5S è nato con la rete, e la rete rimane il suo spazio naturale di confronto. Per comprendere se il malessere interno si trasformerà in un vero dibattito politico, sarà necessario prestare attenzione ai segnali che arriveranno dalla piazza virtuale.