La proposta di riforma (e le reazioni delle curve nord e sud)
Il ministro Valditara è nuovamente intervenuto in tema di educazione
sessuale, stavolta con un disegno di legge ove si prevede che per
qualsiasi attività didattica inerente la sessualità (sia essa attività
extracurricolare o di ampliamento dell’offerta formativa) le scuole
siano obbligate ad acquisire il “consenso informato” preventivo dei
genitori. Perché «non si può obbligare uno studente a seguire corsi che
possono presentare il rischio di una caratterizzazione ideologica».
Ciò implica che siano forniti con congruo anticipo alle famiglie tutti i
dettagli circa il materiale didattico, il personale interno o esterno
incaricato, le finalità e le modalità di svolgimento dei relativi
progetti. Per gli alunni privi del consenso scritto dei genitori, la
scuola è tenuta a predisporre attività alternative, su modello di ciò
che già avviene per chi non si avvalga dell’insegnamento della
religione.
Il testo stabilisce inoltre che i soggetti esterni autorizzati a
intervenire su argomenti sensibili, come appunto la sessualità, debbano
essere muniti di idonei requisiti di professionalità scientifica e
accademica. E che nelle scuole dell’infanzia e primarie si svolgano solo
i programmi delle indicazioni nazionali: ovvero che la sessualità sia
affrontata esclusivamente dal punto di vista biologico.
Al solito, le opposte tifoserie si sono scatenate fin dal primo annuncio dell’iniziativa, quando i particolari erano ancora in mente Dei:
da una parte chi già cantava una vittoria che non c’era, intestandosene
pure il merito; dall’altra chi, sempre in via preventiva, è partito a
frignare. Ex multis, ecco uno scambio di battute che rende
ragione della profondità logica e speculativa del dibattito (ogni
commento è superfluo): https://www.la7.it/in-altre-parole/video/consenso-dei-genitori-per-leducazione-sessuale-nelle-scuole-vecchioni-i-genitori-devono-starsene-03-05-2025-594452.
Ebbene, noi pensiamo che esultanze e proteste suonino non soltanto
parimenti premature, ma anche parimenti ingiustificate, se si tien conto
da un lato della sostanza della riforma proposta, dall’altro del
contesto in cui viene calata. E proviamo a spiegarne il perché, a
partire dalla considerazione preliminare che un disegno di legge, per
diventare legge dello Stato, deve prendersi la briga di attraversare
l’iter parlamentare. E bisogna vedere come ne esce.
L’impressione generale, tanto per cominciare, è che gli abitatori dei
palazzi romani armeggino dentro il gran calderone scolastico
immaginandone (più che conoscendone) il contenuto: probabilmente
attingono in parte all’album dei ricordi, in parte al sentito dire in
arrivo da una specie di telefono senza fili. E non abbiano reale
contezza né del radicamento effettivo né della effettiva entità di
fenomeni che sono lievitati nel tempo fino ad assumere connotati
demenziali, e che oggi si agitano scompostamente in un ecosistema in
avanzato stato di decomposizione – qual è, purtroppo, diventata la
scuola.
Breve storia dell’educazione sessuale: i suoi parenti stretti e la sua sfolgorante carriera
La cosiddetta educazione sessuale – cui è stato appiccicato lungo la
via l’additivo cosmetico di “affettiva” per farla diventare più carina e
più presentabile alla varia umanità – appartiene alla storia antica. È
programmaticamente connessa alla penetrazione del gender, cui ha fatto e
fa da apripista: ipersessualizzando precocemente i bambini, essa ha
infatti la funzione prodromica di disinibirli, di spingerli ad abbattere
la soglia del pudore e a vincere ogni remora morale, di predisporli ad
assecondare ogni istinto e condizionamento indotto.
Apparecchiata nelle officine sovranazionali, penetrata nelle nostre
scuole in groppa al mito del progresso pedagogico, l’educazione sessuale
gira ovunque da parecchi lustri, esprimendosi in tutte le gradazioni di
uno spettro che spazia dalla pornografia conclamata, al perbenismo
ebete del va’ dove ti porta il cuore, fino alla melassa dell’amore
cristiano messo in offerta speciale. In una prima fase, i progetti
dedicati alla “materia” si sono diffusi a macchia d’olio in forma
estemporanea e in veste “sperimentale”, grazie all’impegno di manipoli
di volonterosi cresciuti a pane e ideologia; si sono poi imposti in via
ufficiale e sistematica a partire dalla entrata in vigore della legge
107 cosiddetta “la buona scuola”, che nel suo comma 16 ha offerto una
subdola (perché criptata in una serie di rinvii recettizi che portano,
su su per li rami, fino alla Convenzione di Istanbul e alla cosiddetta
legge sul femminicidio), ma solida, base normativa.
Così, in tanti anni di lavorìo assiduo, paziente, organizzato con
cura meticolosa, si sono moltiplicati gli enti, le associazioni e le
conventicole felicemente accreditati – in base a “titoli” auto-prodotti
ed etero-riconosciuti – a entrare nelle scuole di ogni ordine e grado
per insegnare il sesso e le sue iridate articolazioni. Si sono stese
reti operative, incistati interessi, create mangiatoie. Si è, insomma,
cristallizzato un floridissimo sistema che prolifera sulla pelle degli
scolari e passa sopra la testa delle famiglie.
Questo sistema ha trovato tanti e diversi rivoli per attecchire e
consolidarsi in modo capillare, sfruttando una retorica martellante
fatta di parole magiche e slogan ammaliatori, sempre sostenuta da
ossessivi proclami istituzionali ormai interiorizzati e diventati
insindacabili in ogni ambiente che si rispetti: e i diritti sessuali e
riproduttivi, e le pari opportunità, e la non discriminazione, e gli
stereotipi sessuali e sociali, e la violenza contro le donne, e
l’omotransfobia, e chi più ne ha più ne metta. Tutte formulette che, ad
alzare la mano e provare a spiegare che sotto il trucco onomastico corre
un’ideologia implacabile e autoritaria, si diventa ipso facto dei mostri omotransfobici, violenti, integralisti, medievali, patriarcali, e naturalmente fascisti.
Insomma, tutto questo per dire come gli affluenti che portano acqua
al mulino della educazione sessuale siano innumeri, alimentati da
sorgenti inesauribili (di idee e di denaro) situate per lo più
oltreconfine, infine vidimati col bollino di qualità nelle centrali di
smistamento nostrane poste nei gangli chiave della burocrazia
(presidenza del consiglio dei ministri, ministeri vari con e senza
portafoglio).
A puntellare il palco, la solita trappola scientista: la famiglia,
declassata a “fonte informale” di educazione, deve cedere il passo alla
scuola, eretta a “fonte formale” di insegnamenti che, grazie agli
“esperti”, si devono considerare per definizione neutrali e veritativi.
Le linee guida per l’educazione sessuale e la sua articolata rete logistica: Agenda 2030 e nuova educazione civica
Al proposito, vale la pena di ricordare come il libretto di
istruzioni predisposto per l’insegnamento della educazione sessuale dei
bambini a partire dagli zero anni, «per i governi, per le scuole, per
gli specialisti sanitari» (cioè per gli esperti di cui sopra), siano le
edificanti linee guida denominate “Standards per l’educazione sessuale
in Europa” elaborate nel 2010 dall’ufficio europeo dell’OMS sotto
l’egida dell’ONU. Esse illustrano nel dettaglio le informazioni da
impartire ai piccoli in base alla fascia di età (per esempio, solo per
citare a campione, nella griglia da 0/4 anni si legge: «informazioni
aventi a oggetto gioia o piacere nel toccare il proprio corpo,
masturbazione infantile precoce e scoperta del proprio corpo e dei
genitali; diversi tipi di relazione e diverse relazioni famigliari;
diritto a esplorare la propria identità di genere, ruoli di genere». A 4/6 anni: «informazioni
aventi a oggetto amicizia e amore verso persone dello stesso sesso;
relazioni con persone dello stesso sesso; sensazioni legate alla
sessualità, ecc. ecc.»`. Il documento si trova facilmente in rete (in particolare, si vedano le pagg. 38 e ss.): https://www.fissonline.it/pdf/STANDARDOMS.pdf.
Nel 2018 anche l’Unesco – sempre in collaborazione con l’OMS oltre
che a varie altre sigle – ci ha messo del suo, pubblicando la “Guida
tecnica per l’educazione sessuale” (International Technical Guidance on
Sexuality Education), organica all’Agenda 2030 sullo sviluppo
sostenibile dove si canta di un «legame inscindibile tra qualità dell’educazione, salute e benessere, uguaglianza di genere e diritti umani».
Come sappiamo, l’Agenda 2030 rappresenta il piatto forte
della “nuova educazione civica”, materia curricolare obbligatoria a
insegnamento trasversale, introdotta dalla legge 92/2019 nonché
ingrediente onnipervasivo dei libri di testo di tutte le discipline di
studio, dalla storia fino alla matematica, visto che – per utilizzare le parole di Enrico Giovannini, direttore scientifico di Asvis (alleanza italiana per lo sviluppo sostenibile) – l’agenda non è altro che un «sistema di navigazione satellitare» capace di fornire
un quadro di riferimento articolato e coerente entro cui orientarsi in
ogni ambito di azione e di pensiero. Praticamente, un testo sacro. Bene.
Vale la pena di ribadire come il cosiddetto “diritto all’educazione
sessuale e affettiva” sia considerato parte integrante del “diritto alla
salute” e rientri «tra gli obiettivi Onu per lo sviluppo sostenibile
stabiliti dall’Agenda 2030 come presupposto imprescindibile per la
realizzazione di un pieno rispetto dei diritti umani e per l’uguaglianza
di genere».
Ed ecco che, girando e girando storditi dai ritornelli, ci ritroviamo
al via. Forse ora comincia a essere più chiaro il groviglio
inestricabile di pseudo-fonti e fonti vere che assicura ai contenuti in
questione – sesso, gender e dintorni – la salda permanenza tra i banchi
di scuola, consenso o non consenso che sia.
La sorella per bene dell’educazione sessuale: l’educazione alle relazioni
Ma oltre alla storia antica c’è anche la storia moderna, e quella
contemporanea. Già un annetto e mezzo fa, sull’onda del fatto di cronaca
nera politicamente più strumentalizzato del secolo, il ministro aveva
lanciato il nuovo brand “educazione alle relazioni” con il signor Gino
Cecchettin in veste di testimonial, e alla regia un creativo triumvirato
formato da una suora, una lesbica e un’altra signora (se ne può leggere
qui: https://www.renovatio21.com/il-ministro-la-concia-la-suora-il-circo-della-scuola-tradita/).
Poi la cosa era talmente ridicola che, sommerso dai fischi, il progetto
ha dovuto battere in ritirata. Ma, com’era prevedibile, solo per
prendere tempo e riorganizzarsi meglio. Nel mentre infatti il signor
Cecchettin si è fatto fondazione, e ha siglato un protocollo di intesa
con il ministero dell’istruzione e del merito. E in questi giorni
apprendiamo dall’Ansa che dal prossimo anno in tutte le scuole italiane
partiranno i corsi della Fondazione Cecchettin, il cui fondatore ci
informa che «serve un nuovo modello maschile, più femminista e meno
alfa» sicché, dall’alto dei suoi titoli e delle sue nuove cariche, detta
l’agenda: «Vorremmo iniziare in età prescolare e con le prime
elementari per insegnare alle bambine e ai bambini ad evitare gli
stereotipi e a dire fine alla violenza contro le donne». Tradotto:
vorremmo iniziare in età prescolare a inculcare alle bambine la
diffidenza e il disprezzo per i maschi, a meno che questi non siano
adeguatamente svirilizzati; a inculcare nei maschietti il senso di colpa
per il peccato originale della propria stessa natura. In modo che le
prime si sentano legittimate a tramutarsi in virago inquisitrici; che i
secondi abbraccino lo status di eunuco, o in alternativa
reprimano ermeticamente la propria indole (col rischio concreto a un
certo punto di esplodere e combinare guai).
Quindi, se da una parte il ministro ci dice di voler ridimensionare
l’orgia incontrollata della educazione al sesso e al gender
subordinandola all’autorizzazione dei genitori, dall’altra parte
spalanca le porte delle scuole di ogni ordine e grado all’educazione al
pensiero di Gino Cecchettin nobilitandolo sotto l’etichetta di «educazione al rispetto per la donna e
a relazioni corrette» che viene così inserita «per la prima volta come
vero e proprio obiettivo di apprendimento, obbligatorio per tutti, nelle
nuove linee guida sulla educazione civica», visto che «non ha nulla a
che vedere con le teorie sulla sessualità». Sic.
Tra l’altro, mentre il ministro ci dice anche che i soggetti esterni
autorizzati a intervenire su argomenti sensibili come la sessualità
devono obbligatoriamente essere muniti «di idonei requisiti di
professionalità scientifica e accademica», nello stesso tempo un signore
il cui unico titolo è quello di essere diventato un influencer a causa
di un lutto personale, e di averci eretto sopra una fondazione, viene
investito dal nulla del potere di rieducare i figli degli altri su
argomenti altrettanto sensibili (cui però è stato dato un altro nome),
secondo il suo personale verbo. E fin dall’asilo. Giusto? Abbiamo capito
bene?
Grazie del pensiero, ministro, ma noi rivogliamo la scuola
Allora, per tirare le somme, e concludere. L’educazione sessuale
forma un tutt’uno col cosiddetto gender e si afferma per molte vie,
anche cavalcando il tormentone femminista della donna oppressa, schiava
della riproduzione e del maschio prevaricatore. Ha radici storiche e
politiche profonde in seno ad organismi sovranazionali che, coperti da
subdoli intenti umanitari, hanno fornito mezzi smisurati per
equipaggiare un vero e proprio esercito capace di imporre il programma
su scala planetaria. Si è propagata nel tempo attraverso una fitta
ragnatela di atti, di progetti, di iniziative più o meno estemporanee,
ma sempre supportate da risorse economiche imponenti e da un poderoso
apparato mediatico. Ha attecchito nelle scuole di ogni ordine e grado
assecondando l’estro di maestranze politicizzate, talvolta più caute,
talaltra senza freni.
Ora, condizionare l’adesione alle attività didattiche il cui
perimetro è circoscritto da quel nome al consenso scritto dei genitori
riconosce una legittima e sacrosanta scappatoia alle famiglie che non
gradiscano che, a scuola, dei tizi a caso lavino il cervello dei loro
figli su argomenti che appartengono alla loro sfera intima e
privatissima, violando la sensibilità individuale.
Ma abbiamo visto sopra che ciò che è fatto uscire (e solo per chi lo
voglia) dalla finestra rientra in pompa magna dalla porta, basta
cambiargli il nome e rifargli un po’ il trucco. E comunque, molto di
questi contenuti passa indisturbato dentro le aule, e i libri di testo, e
i programmi, percorrendo altre vie che eludono ogni consenso.
Dunque, cambierà ben poco con la riforma in cantiere finché la scuola
resta il colabrodo che è, dove entra di tutto fuorché ciò che vi
dovrebbe stare ma non ci sta più perché non c’è più spazio. Il problema
non è come viene fatta l’educazione sessuale e se a farla sia una butch
coi muscoli e i capelli pittati, o una suora à la page, o uno che sta a
capo di una fondazione privata. L’educazione sessuale, come quella
militare, come quella sanitaria o quella emozionale, o stradale o
alimentare o digitale, semplicemente devono uscire dalla scuola. E
devono uscirci accompagnate dalla porta principale e non di soppiatto
dalla finestra sul retrobottega. La scuola non va riempita di ogni
genere di mercanzia a vantaggio dei piazzisti che si accalcano al suo
ingresso per rincorrere il proprio tornaconto personale per poi, quando
vengano superati – moralmente e giuridicamente – i limiti della
tollerabilità, concedere alle famiglie (le poche che ci stanno dietro)
di esonerare i figli. Che alla fine, in quante famiglie se ne
interesseranno? E se un genitore è a favore e l’altro contro, chi vince?
E chi gestirà il traffico dei frequentanti e dei non frequentanti? E i
non frequentanti saranno contrassegnati dalla lettera scarlatta perché
retrogradi e sessuofobi? E ci saranno due squadre, quella dei libertini e
quella dei bigotti?
No, non è questo il criterio per fare ordine in una baraonda senza
più punti di riferimento, dove ognuno si inventa il copione che
preferisce e lo testa senza scrupoli sul materiale umano che gli passa
tra le mani. Il fatto è che scuola si deve fare tutt’altro, e non lo si
fa più. Altrimenti si abbia almeno il coraggio di cambiare nome anche a
lei, e buonanotte.
Perché, intanto che passano le giornate a farsi risciacquare la testa
con le millemila “educazioni” il cui fine è quello di impartire
lezioncine morali e di imporre modi di pensare e comportamenti conformi
(ovvero di indottrinare), gli scolari non imparano più a scrivere, a
leggere, a parlare, a far di conto, ad astrarre. Si dà il caso che
l’analfabetismo dilaghi e che le abilità cognitive, in tutte le
discipline, siano degradate a livelli imparagonabili a quelli di un
passato anche molto recente. Si dà il caso che assistiamo impotenti a un
tracollo culturale inarrestabile, che investe risorse espressive,
consapevolezza storica, capacità mnemonica, attitudine teoretica, logica
e sistematica, abilità di scrittura, comprensione, ragionamento e
calcolo.
Allora, di fronte a questo sfacelo, che è incontrovertibile e sotto gli occhi di tutti, invece di pensare a modi obliqui e personalizzati per raggirare idiozie “didattiche” utili soltanto a terzi che con la scuola non hanno nulla a che fare, non sarebbe meglio cominciare a spazzare via il ciarpame che strabocca e si autoriproduce, e tornare finalmente a fare scuola? Ciò richiederebbe in primo luogo riqualificare la figura professionale del docente, promotore del sapere, mediatore insostituibile tra il patrimonio di conoscenze, di senso e di bellezza di cui siamo indegni eredi, e le nuove generazioni. E, con lui, recuperare la centralità delle discipline fondamentali, il cui studio e il cui apprendimento rilascia semi che, maturando nel tempo lungo della vita, educano molto più di mille “educazioni” perché – invece dei desolanti pacchetti prepensati uguali per tutti e, oltretutto, sinistramente precettivi – assicurano gli strumenti necessari per interpretare in autonomia la complessità del reale. In altre parole, assicurano a chi li coltivi il dono della libertà.
Fonte foto: lafionda.org