La
politica parla di occupazione, ma dimentica il senso del lavoro come fondamento
di libertà e uguaglianza. Rileggere oggi l’articolo 3 significa tornare al
cuore della Costituzione.
Un dibattito tutto politico, ma povero di sostanza Negli ultimi mesi, il tema del lavoro è tornato al centro del dibattito politico. Ma a ben guardare, questo ritorno sembra più strumentale che sostanziale.
Il governo rivendica l’aumento degli occupati; l’opposizione risponde che si tratta per lo più di lavori mal pagati, concentrati nelle fasce d’età più anziane e segnati da una crescita quantitativa, non qualitativa.
A sostenere questa lettura è anche lo studio n. 962 della Banca d’Italia, L’occupazione in Italia dopo la pandemia (settembre 2025).
Secondo i ricercatori, la crescita dell’occupazione — circa il 5%, in linea con quella europea — non riflette un cambiamento strutturale, ma è il risultato di due fattori congiunturali:
- l’aumento del costo del capitale e dei beni intermedi, che ha spinto le imprese a impiegare più lavoro e meno macchinari;
- la moderazione salariale, che ha reso più conveniente assumere.
Una sintesi efficace dello studio, curata da Carlo Canepa, è disponibile su Pagella Politica (17 settembre).
Ma il punto non è tanto l’analisi dei dati. Il vero nodo è culturale e costituzionale: quale idea di lavoro guida oggi la politica italiana?
E, soprattutto, che ne è della visione del lavoro come fondamento di dignità e uguaglianza che la nostra Costituzione aveva posto al centro?
L’articolo 3 e l’uguaglianza dimenticata Quando si parla di uguaglianza, il riferimento inevitabile è l’articolo 3 della Costituzione.
Eppure, di quell’articolo si cita spesso solo la prima parte, quella che proclama la pari dignità dei cittadini.
La seconda parte — quella che affida alla Repubblica il compito di rimuovere gli ostacoli economici e sociali che limitano libertà e uguaglianza — è quasi scomparsa dal dibattito pubblico.
Eppure è proprio lì che si condensa il nucleo politico e morale della Carta.
La Costituzione non si limita a dichiarare l’uguaglianza: la costruisce, affidando allo Stato il dovere di renderla reale.
Una visione coerente con gli articoli 1, 4 e 36, che fanno del lavoro non solo una fonte di reddito, ma il fondamento della dignità e della partecipazione democratica.
Le
radici morali del lavoro
La cultura del lavoro che la Costituzione incarna nasce dall’incontro di tre tradizioni: cattolica, socialista e comunista.
Il pensiero cattolico, da Sant’Agostino a San Benedetto fino alla Rerum Novarum di Leone XIII, trasforma il lavoro da pena biblica a vocazione morale: via di salvezza, mezzo di comunione con Dio, strumento di dignità.
La tradizione socialista e comunista, invece, fa del lavoro coscienza di classe e strumento di cittadinanza.
Nelle fabbriche e nei campi, la fatica condivisa genera solidarietà, uguaglianza e diritti: il voto, la parola, la partecipazione.
È il lavoro a trasformare il produttore in cittadino e a rendere possibile la democrazia sociale.
L’uguaglianza svuotata dal neoliberismo
Il liberalismo classico ha sempre posto libertà individuale e proprietà privata al di sopra dell’uguaglianza sostanziale.
Il neoliberismo, nato dall’incontro tra monetarismo e marginalismo, ha spinto questa logica alle estreme conseguenze: tutti uguali davanti alla legge, certo, ma ciascuno solo di fronte al mercato.
Lo Stato, in questa visione, non deve più rimuovere gli ostacoli, ma semplicemente non interferire.
Così, l’uguaglianza si è frammentata in una miriade di identità individuali, rivendicazioni legittime ma spesso incapaci di costruire una coesione collettiva.
Viviamo, direbbe Bauman, in una società “liquida”, dove il lavoro ha perso centralità e la dignità è diventata un’appendice del mercato.
Il
paradosso contemporaneo
Mai come oggi si parla di “fine del lavoro” e mai come oggi si vive immersi in una cultura della performance.
La reperibilità continua, la connessione permanente e l’identificazione tra persona e produttività sono il segno di un’epoca in cui il lavoro non scompare, ma invade la vita.
Nascono così paradossi inquietanti: aziende che offrono come benefit la possibilità di congelare gli ovuli, o che considerano la maternità surrogata un servizio contrattuale.
O teorie, come quella di Donna Haraway nel Manifesto Cyborg, che immaginano di superare le disuguaglianze di genere fondendo uomo e macchina.
Sono simboli di una frattura profonda tra lavoro e umanità, tra produzione e dignità.
Riscoprire
il senso del lavoro
Nel dibattito politico attuale, il lavoro continua a essere trattato come una merce da contrattare al minor costo possibile.
Il confronto tra governo e opposizione resta confinato dentro l’alveo del neoliberalismo, dove il mercato stabilisce non solo i prezzi, ma i valori.
Rileggere oggi l’articolo 3 significa, invece, riscoprire la parte viva della Costituzione:
la convinzione che libertà e uguaglianza non siano conquiste acquisite, ma obiettivi da costruire ogni giorno, attraverso il lavoro, la solidarietà e la partecipazione democratica.
Perché una Repubblica “fondata sul lavoro” non è soltanto quella che garantisce un salario, ma quella che riconosce nel lavoro di ciascuno la dignità di tutti.