Andare a votare si può ma solo per il valore simbolico
che il referendum ha assunto nella narrazione pelosa dei protagonisti, tenendo
conto che il quorum non raggiunto decreterà la parola FINE per i residuali
diritti dei lavoratori nel nostro paese.
Oggi affrontiamo un argomento spinoso quale
sicuramente è la consultazione referendaria in materia di “lavoro” per la quale
si dovrebbe andare a votare nei giorni 8 e 9 giugno 2025. Diciamo subito che si
tratta largamente di referendum truffaldini e che anche se si raggiungesse il
quorum (cosa alquanto improbabile), e vincessero i Sì, gli effetti sulla
condizione dei lavoratori italiani sarebbero molto limitati e per certi versi
controproducenti.
Intanto bisogna chiarire una questione “grossa come
una casa” che ruota intorno ad un interrogativo fondamentale: perchè si sono
attesi dieci anni prima di raccogliere le firme con l’intento di modificare le
conseguenze del Jobs Act 2015 del famigerato Renzi (PD)? E’ chiaro che esiste
una sola risposta e riguarda la scelta di non turbare i sonni di governi osceni
seguiti al renzismo ma comunque ruotanti su maggioranze di cosiddetto
“centrosinistra.
Ora si va al referendum nel tentativo di ostacolare il
governo Meloni che certo andrebbe “abbattuto” per tanti motivi: riarmo, guerra,
crisi industriali e bassi salari tutte questioni per le quali i quesiti
referendari sono come “acqua fresca”.
Per non tacere del ruolo dell’organizzazione
proponente che lascia molto dubbiosi perchè l’iniziativa non è altro che la
disperata ricerca di avere un certificato di “Esistenza in Vita” quando ormai
le confederazioni, con le loro politiche concertative, sono da tempo,
moribonde. Di seguito, alcune considerazioni di merito.
Presentata dalla Cgil come una battaglia contro il
Jobs Act, bisogna sapere che in realtà il vecchio contratto a tutele crescenti
non esiste più e se dovesse vincere il sì non si tornerebbe comunque
all’articolo 18. Domenica 8 e lunedì 9 giugno si vota per cinque referendum
abrogativi, quelli che permettono ai cittadini di eliminare del tutto o in
parte una norma. Oltre al quesito che chiede di modificare la legge per
ottenere la cittadinanza italiana, gli altri quattro, proposti dalla Cgil,
riguardano invece il lavoro. E sono presentati spesso, in maniera frettolosa,
come una soluzione per ripristinare l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori
e «cancellare il Jobs Act», la riforma del lavoro del 2015 approvata durante il
governo Renzi. I quattro quesiti sul lavoro sono in realtà più complessi. E,
soprattutto alcuni, potrebbero avere effetti concreti molto più limitati di
quelli annunciati. La riforma del lavoro voluta dal Pd guidato da Renzi ha
previsto che le persone assunte dopo il 7 marzo 2015 nelle imprese con più di
quindici dipendenti non devono essere reintegrate sul posto di lavoro dopo un
licenziamento illegittimo. La legge ha introdotto il cosiddetto contratto a
tutele crescenti, un contratto a tempo indeterminato in cui in caso di
licenziamento il reintegro viene sostituito da un indennizzo crescente con
l’anzianità di servizio. Dal 2015, in realtà, la legge è stata rimaneggiata più
volte. Il governo gialloverde Conte Uno ha aumentato l’indennizzo massimo in
caso di licenziamento da 24 a 36 mesi della retribuzione. E la Corte
Costituzionale è intervenuta più volte sia sulle possibilità di reintegro, sia
eliminando la parte della legge secondo cui l’indennizzo cresce con l’anzianità
di servizio. In pratica, il contratto a tutele crescenti a cui si fa
riferimento nel quesito referendario non esiste più. Abolire la disciplina dei
licenziamenti illegittimi del Jobs Act, tra l’altro, non significa tornare alle
regole dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, ma alla modifica
precedente, cioè alla riforma Fornero che nel 2012 aveva già limitato molto il
diritto al reintegro in caso di licenziamento illegittimo, prevedendo nella
maggior parte dei casi solo un risarcimento. Se vincesse il sì, solo per alcuni
licenziamenti, come quelli nulli o discriminatori, sarebbe di nuovo possibile
il reintegro oltre al risarcimento. E l’indennizzo massimo previsto sarebbe di
ventiquattro mensilità, come previsto dalla riforma Fornero, quindi più basso
di quello previsto dalle norme attuali che il referendum vuole abolire.
Inoltre, l’articolo 18 riformato si applicherebbe comunque solo ai dipendenti
delle aziende di medio-grandi dimensioni, mentre i lavoratori delle piccole
imprese continuerebbero a essere tutelati soltanto con un indennizzo.
Il secondo quesito chiede di eliminare il tetto
massimo di sei mesi di indennità che può essere riconosciuta ai lavoratori
licenziati in modo ingiustificato nelle piccole aziende. L’obiettivo è quello
di aumentare le tutele per chi lavora in aziende con meno di quindici
dipendenti. I lavoratori delle piccole imprese sono infatti meno tutelati in
caso di licenziamento illegittimo rispetto ai dipendenti delle aziende
medio-grandi. In generale, chi lavora per un’azienda piccola può ottenere un
risarcimento di massimo sei mensilità della retribuzione e, soltanto in casi
particolari legati all’anzianità di servizio o alle dimensioni dell’azienda,
può arrivare fino a 10 o 14 mensilità dello stipendio. Il referendum vuole
eliminare il tetto massimo per consentire al giudice di stabilire l’indennizzo
senza vincoli economici, valutando di volta in volta tutte le circostanze del
licenziamento in base a criteri come la capacità economica dell’azienda, la
gravità della violazione o l’età del lavoratore. Non viene quindi eliminata la
differenza di trattamento con i dipendenti delle grandi aziende (i dipendenti
delle piccole imprese continueranno a restare esclusi dall’applicazione
dell’articolo 18), ma aumenta la discrezionalità della magistratura in caso di
contenzioso.
Il terzo quesito propone di abrogare alcune delle
regole sull’utilizzo dei contratti a termine, limitandoli solo a casi
specifici. Il quesito chiede che i contratti di lavoro a tempo determinato
siano stipulati solo in caso di esigenze specifiche o per sostituire lavoratori
assenti, come la classica sostituzione per maternità. Nel quesito si fa
riferimento alle regole sui contratti a termine contenute in uno dei decreti
legislativi del Jobs Act (81 del 2015), ma in realtà la disciplina è stata
cambiata e rimaneggiata più volte nel corso degli anni. Prima il governo Monti
e poi il governo Letta hanno iniziato ad allentare le maglie dei contratti a
termine, ma negli ultimi anni ogni governo li ha riformati. Siamo così passati
dal governo Renzi, che ha ampliato la possibilità di utilizzare i contratti a
tempo determinato, fino al cosiddetto “decreto dignità” del primo governo Conte
che invece ha reinserito dei rigidi paletti per le aziende, poi parzialmente
rimossi prima dal governo Draghi e poi dal governo Meloni. Oggi è possibile
stipulare contratti a tempo determinato con una durata massima di dodici mesi
senza dover specificare il motivo (la causale). Se il contratto dura tra dodici
e ventiquattro mesi, è necessario indicare nel contratto la causa per la quale
si è deciso di sottoscrivere un contratto a tempo determinato e non uno a tempo
indeterminato. Si possono stipulare contratti a termine oltre i ventiquattro
mesi soltanto con una formalizzazione davanti alla sede competente
dell’Ispettorato territoriale del lavoro. L’obiettivo del referendum è limitare
il ricorso a questo tipo di contratti e ridurre la precarietà, reintroducendo
l’obbligo per i datori di lavoro di indicare una “causale”, anche per i contratti
di durata inferiore ai dodici mesi. I rapporti di lavoro a termine avrebbero
quindi una durata massima di 24 mesi e, se stipulati in assenza delle esigenze
specifiche previste dalla legge e dalla contrattazione collettiva, si
trasformerebbero in rapporti di lavoro subordinato a tempo indeterminato. In
sostanza, si tornerebbe a una disciplina molto simile a quella vigente in
Italia dal 2001 al 2012, con il rischio però di un incremento dei contenziosi
davanti ai tribunali come accadeva in passato.
Il quarto quesito riguarda la salute e la sicurezza nei luoghi di lavoro, diventata una questione urgente di fronte ai numeri dei morti sul lavoro. L’obiettivo è aumentare la responsabilità dell’azienda committente in caso di infortuni o malattie professionali dei dipendenti in appalto che eseguono le opere richieste. Oggi la norma stabilisce che negli infortuni l’azienda che ha commissionato dei lavori è responsabile in solido con l’appaltatore e i subappaltatori per i danni subiti dai lavoratori, escludendo questa responsabilità se i danni sono causati però da rischi specifici dell’attività dell’appaltatore o subappaltatore. Con l’abrogazione della norma, la responsabilità degli infortuni verrebbe invece estesa anche al committente, che dovrebbe quindi risarcire i danni subiti dai lavoratori anche se derivanti da rischi specifici dell’attività produttiva delle imprese appaltanti o dei subappaltatori, inclusi tutti i casi di infortunio che coinvolgono i lavoratori che non hanno la copertura assicurativa Inail (Istituto nazionale per l’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro) o Ipsema (Istituto di previdenza per il settore marittimo). Si tratta della cosiddetta “responsabilità solidale”, da cui deriva il diritto del dipendente a essere risarcito anche dall’impresa committente, soprattutto nel caso in cui il suo datore di lavoro non offra garanzie adeguate. La Corte Costituzionale, tra l’altro, ha già specificato che questo meccanismo deve ritenersi applicabile non soltanto al contratto di appalto ma anche nei casi di decentramento produttivo, come i rapporti di subfornitura. In caso di successo del referendum, quindi, le imprese committenti si troverebbero davanti una disciplina molto severa che stimolerebbe anche a scegliere con molta attenzione le imprese appaltatrici a cui affidarsi. Per eseguire un lavoro sarà necessario fare affidamento su aziende in grado di fornire ampie garanzie sul rispetto della normativa sulla salute e sulla sicurezza nei luoghi di lavoro. Un circolo virtuoso che potrebbe avere effetti positivi.
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