Lo scontro tra Donald Trump e Elon Musk,
tra il presidente degli Stati Uniti e l’uomo più ricco del mondo, che è
stato il suo principale finanziatore in campagna elettorale, è iniziato
in sordina ed è esploso in modo roboante, con le peggiori accuse
reciproche. Musk è arrivato a chiamare in causa il coinvolgimento di
Trump nello scabrosissimo “affaire Epstein” e a ipotizzare di dar vita ad un nuovo partito per battere l’attuale presidente.
Il ruolo dei tre più grandi fondi d’investimento americani
Le ragioni di questa deflagrazione sono molteplici e non facilmente
sintetizzabili. Provo ad elencarne alcune. La prima, a mio parere
decisamente rilevante, è costituita dal segnale che Trump ha voluto dare
alle Big Three (i tre fondi d’investimento americani più grandi), a BlackRock, Vanguard e State Street, e in generale a quel tipo di finanza, di certo non in buoni rapporti con Musk.
I tre fondi sono stati, e sono tuttora, grandi azionisti di Tesla
ma hanno sempre manifestato una certa ostilità verso Musk che volevano
sostituire alla guida dell’azienda, nonostante il suo 13%, già nel 2018.
E a cui hanno rimproverato la pessima operazione di acquisto di Twitter,
causa di importanti perdite di valore per la società. Gli stessi grandi
fondi, poi, non hanno certo apprezzato il deciso posizionamento di Musk
a sostegno di Trump e, paradossalmente, dopo l’elezione dello stesso
tycoon, quando i titoli Tesla si sono impennati, arrivando ad una
capitalizzazione di mille miliardi di dollari, hanno cominciato a ridurre la loro presenza azionaria nella società.
Trump, infatti, era agli occhi di BlackRock & co. un grande rischio di instabilità dei
listini quotati, come dimostravano i dati dei primi mesi dopo
l’insediamento e contro cui bisognava combattere, colpendo ovviamente
anche il suo principale sostenitore. Peraltro, l’instabilità generata da
Trump e l’ipervalutazione raggiunta da Tesla sulla scia del legame con
il presidente degli Stati Uniti hanno spaventato alcuni grandi clienti di BlackRock (come il fondo pensione degli insegnanti americani), che hanno chiesto al numero uno Larry Fink una maggiore cautela nell’esposizione su tale titolo.
Quindi, nel cuore dello scontro tra l’alta finanza dei grandi gestori
e delle grandi banche, a partire dal colosso JP Morgan di Jamie Dimon, e
Trump, culminata con la partita cruciale dell’acquisto dei titoli del
sempre più pericolante debito federale americano (di cui gli stessi
fondi hanno minacciato la possibile vendita, con effetti devastanti sul
costo degli interessi) la figura di Musk è diventata sempre più ingombrante.
Per essere ancora più chiari, nel conflitto interno al capitalismo
finanziario degli Usa, le Big Three hanno capito di poter chiedere la
testa di Musk ad un Trump sotto attacco anche dalla Federal Reserve.
Sullo sfondo, la battaglia nel settore dell’intelligenza artificiale
In questo senso ha pesato però un secondo elemento, parzialmente
legato al primo. La cacciata di Musk, dopo le sue dimissioni dal Doge,
significa il suo drastico ridimensionamento nel fondamentale campo dell’intelligenza artificiale,
dove premono per avere un ruolo cruciale altre figure vicine a Trump e
con cui Musk ha visto deteriorare i propri rapporti. Si tratta, tra gli
altri, di Peter Thiel e Larry Ellision che ambiscono ad un peso decisivo nella prospettiva di ampi finanziamenti federali verso questo settore.
L’ostilità di Thiel a Musk si inserisce poi – ed è questo un terzo
fattore – nell’avversione da sempre maturata verso il sudafricano dalla
destra americana, decisamente filo-trumpiana; una destra radicale, guidata da Steve Bannon che
ha sempre condannato la natura “tecno feudale” del capitalismo di Musk e
le sue origini “immigrate”. A questa fattispecie di dure riserve verso
il miliardario sono riconducibili anche gli attacchi dei ministri chiave
dell’amministrazione Trump, a cominciare da Bessent e Lutnick,
e dai vertici dei comunque influentissimi dipartimenti federali,
colpiti dall’opera brutale del Doge. A partire da quello della Difesa,
sicuramente ostile all’idea muskiana di accelerare il processo, già in
atto da tempo, della sua privatizzazione.
Musk troppo ingombrante per la visione messianica dell’ideologia Maga
Bisogna considerare, infine, i tratti del potere personale di Trump che non ha gradito le eccessive esposizioni di Musk,
le sue critiche, spesso non troppo mediate, nei confronti di vari atti
presidenziali ed in particolare quelle al “Big, Beutiful Bill”; Trump
non vuole, in alcun modo, essere considerato il capo di una squadra e ha
costruito la sua fortuna elettorale sulla capacità di presentarsi come
l’unico, vero interprete dello “spirito americano”, senza mediazioni di sorta. In tal senso, l’adesione alla visione Maga ha, per Trump, tratti fideistici, i soli in grado di rendere meno evidente il distacco con la realtà in caso di fallimento.
Musk era insomma troppo ingombrante persino nella
figura del gran sacerdote del culto trumpiano e, inoltre, la solidità
del suo rapporto con Trump avrebbe compromesso l’altro grande elemento
della strategia trumpiana costituito dalla assoluta imprevedibilità:
solo attraverso la possibilità di cambiare tutto in qualsiasi momento il
tycoon pensa di potere essere interpretato come il facitore delle sorti
collettive, politiche e in primis finanziarie.
Un’ultima considerazione coinvolge il futuro di Musk, assai nebuloso data proprio la marcata dipendenza dalla presidenza Trump. Con la vittoria trumpiana, Tesla è esplosa e ora sta precipitando, mantenendo però ancora indicatori sopravvalutatissimi come un rapporto prezzo/utili del 161%, che dovranno scontare la fine dei sussidi annunciata nel già ricordato “Big, Beautiful Art”, non a caso oggetto delle critiche di Musk, e l’aggressione delle agenzie di rating. L’uomo più ricco del mondo rischia seriamente il tracollo rapido ed anche questa è una testimonianza evidente della crisi abissale del capitalismo.
Fonte articolo: https://valori.it/scontro-trump-musk-guerra-finanza/
Fonte foto: La Repubblica (da Google)