Quali istanze vengono dal referendum dell’8 e 9 giugno?


Qualche giorno prima della tornata elettorale scrissi un articolo nel quale dicevo che il referendum poteva essere il segnale per un possibile cambiamento. Questo per dire che la speranza è l’ultima a morire. Sia durante la campagna elettorale che subito dopo lo scrutinio e il risultato referendario, salvo poche eccezioni – tra queste annovero l’editoriale di Andrea Fabozzi direttore de il Manifesto il quale invita, realisticamente, a prendere atto della sconfitta – è stato tutto un esaltarsi per il risultato raggiunto. Per dirla con Fabozzi, solo il riconoscimento della sconfitta consentirebbe di cogliere il senso del voto referendario. Invece stiamo assistendo al solito racconto che alimenta la bolla mediatica costruita dagli stessi referendari. Bisogna dare atto a Landini il quale, intervistato a caldo, ha dichiarato la cosa più ovvia di questo mondo: “I referendum si fanno per vincerli, non avendo superato il quorum abbiamo perso”. 

Dichiarazione limpidissima, altra cosa rispetto a quella ad esempio del capogruppo al senato del PD,  Boccia, il quale dichiara in sostanza di aver vinto perché sono stati presi più voti di quanti ne ha presi la Meloni alle elezioni politiche. Le dichiarazioni in linea con questa posizione si sprecano. Esponenti politici  e intellettuali di rango, molti dei quali sono gli stessi che, a partire dagli anni ’90 del secolo scorso, hanno favorito riforme istituzionali e politiche economiche che oggi contestano. Sarà il rimorso di coscienza che li spinge a tanto? Non penso che persone come queste che hanno costruito carriere e fortune, persone di potere, possano avere rimorsi e crisi di coscienza. Tutto comunque è possibile.

Come ho avuto modo di sottolineare in altre occasioni questo referendum, ammesso che avesse superato il quorum, avrebbe inciso poco o nulla sulle condizioni materiali dei lavoratori. Sui primi tre quesiti si sono pronunciate in più di un’occasione sia la Corte Costituzionale che la Corte di giustizia Europea su richiesta del Tribunale del lavoro riducendone e di molto la portata. Per quanto riguarda il quarto quesito se l’obiettivo fosse stato davvero quello di tutelare i lavoratori bisognava chiedere l’abrogazione degli articoli del D.Lgs. 36/23 che prevedono il subappalto a cascata con il ritorno il più possibile al D.Lgs. 50/16. Se davvero il fine fosse stato quello di tutelare i lavoratori di norme da sottoporre a referendum abrogativo ce ne sono tante e riguardano il “ Codice degli Appalti”, il processo del lavoro, il diritto  del lavoro ed altro ancora. Ad esempio è impensabile che al singolo lavoratore non sia consentito prendere visione del Documento Valutazione Rischio dell’azienda della quale si è dipendenti perché tale documento è coperto da segreto industriale. Lavoratori che hanno subito un incidente sul lavoro per poter prendere visione del DVR hanno dovuto fare ricorso al TAR impugnando l’atto di diniego dell’azienda. Sulla materia c’è una ricca giurisprudenza amministrativa. Di norme da abrogare o rispetto alle quali condurre una battaglia politico – parlamentare, dicevo, ce ne sono e tante.  Rispetto ai primi tre quesiti che riguardano il Jobs Act è del tutto evidente che un referendum che propone l’abrogazione di una parte di esso a dieci anni di distanza è poco credibile.

In merito alla riduzione dei tempi per la richiesta della cittadinanza, tema serio, per tutte le implicazioni che esso ha è stato ridotto ad una pura e semplice “marchetta” a favore di + Europa. Forza politica questa liberal – liberista, erede del Partito Radicale, che ha sempre rivendicato con forza le liberalizzazioni, politiche mercatiste ed altro ancora. Il fatto che su questo quesito si sia pronunciato per il no all’abrogazione oltre un terzo di coloro che sono andati a votare la dice lunga. Far passare, come si è tentato durante la campagna referendaria, per razzisti  coloro che avrebbero votato no ponendo in modo critico la questione la dice lunga sull’intolleranza dei tolleranti.  Sul tema sono girati sondaggi farlocchi che attestavano i si al 70% omettendo di dire che il dato era riferito a coloro che sarebbero andati a votare e non all’intero corpo elettorale. Il non avere compreso sul tema della cittadinanza i timori e le preoccupazioni di larga parte della società italiana è l’indizio della mancanza di sintonia, una volta si diceva, tra “ paese reale e paese legale”.

Ciò premesso il risultato elettorale qualcosa lo dice. La prima cosa che comunica è il consolidarsi degli elettorati di M5S, AVS e parte del PD. Al netto delle differenze, ad esempio gli elettori del M5S sono stati lasciati liberi di votare secondo coscienza sul quesito relativo alla cittadinanza e di quella parte degli elettori del PD vicini ad Area Riformista, c’è una parte consistente di elettori, sostanzialmente gli stessi, se sommati,  delle ultime elezioni politiche che hanno risposto al richiamo di Schlein, Conte, Bonelli e Fratoianni tramite il referendum promosso dalla CGIL e anche dalla UIL. Il sostegno dato dalla UIL  va analizzato molto attentamente perché potrebbe nascondere una sorpresa soprattutto per tutti coloro che ragionano come Boccia.

Altra cosa che il risultato referendario comunica è il peso che l’area riformista del Pd con Azione e Italia Viva ha rispetto allo spazio politico che dovrebbe essere occupato dal campo largo. 

Terzo dato  che il risultato referendario comunica, comparando il dato con quello delle elezioni politiche ed europee, è il sostanziale equilibrio nei rapporti di forza sia tra i partiti che dei rispettivi blocchi di appartenenza, come ho evidenziato da subito. Da qui ad esaltarsi come fanno Boccia ed altri per una vittoria inesistente vuol dire non riuscire ad andare oltre l’elettorato di riferimento incapaci di cogliere le istanze che vengono dalla Società. Il PD a quanto pare  non ha appreso nulla da quel 41% conquistato da Renzi segretario, su un numero di votanti pari al 50% degli aventi diritto al voto. Dal quale risultato dovrebbero ricordarsi che è iniziato il declino  del PD. 

Il dato positivo sul quale ragionare è il ritorno  della centralità del lavoro nell’azione politica. I quesiti referendari sono stati un segnale che per adesso ha solo consolidato il consenso, per fare il salto di qualità bisogna prendere posizione più radicali sul tema lavoro. Il 35% e passa di no al quesito sulla cittadinanza pone con forza la questione della sicurezza. Tema che non può essere lasciato alla destra. Se riflettiamo attentamente il tema del lavoro e quello dell’ordine pubblico attengono entrambi la sicurezza e la protezione e sono queste le istanze reali che vengono da coloro che sono andati a votare.

Sono queste domande che vanno oltre gli elettori di PD, M5S e AVS e gli stessi iscritti al sindacato.  O lo si capisce o tutto apparirà come la solita manfrina autoreferenziale tipica di un ceto politico che ha come unico obiettivo la propria sopravvivenza. Avendoli osservati la cosa non mi meraviglierebbe più di tanto.  

 

  

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