Se
avessimo voglia di leggere gli atti di convegni dei giovani imprenditori
leggeremmo alla fine quasi sempre le solite critiche ossia la richiesta di
favorire la imprenditoria, di abbattere le tasse, di favorire il rinnovamento
anagrafico del paese.
E valga un principio, ossia che prima di predicare cambiamenti bisognerebbe avere il buon senso di praticarli a casa propria e questo discorso vale erga omnes e non solo per i padroni. Ad esempio, se la Cgil vuole ristabilire il conflitto nei luoghi di lavoro e la priorità dei diritti dei salariati, dovrebbe spiegarci come sia possibile mantenere intatta l’alleanza con la Cisl. Se la Cgil vuole difendere il welfare universale ci dica come sia possibile farlo in presenza del conflitto di interesse con la sanità e la previdenza integrative.
La posizione assunta dai Giovani industriali segue un copione stantio, il Governo deve spendere di più e meglio i suoi soldi, salvaguardare meno lo status quo e guardare al futuro accrescendo le spese per istruzione, ricerca e sviluppo che sono sotto la soglia europea in un paese nel quale in 10 anni sono partiti circa 365 mila giovani verso nazioni estere, 100 mila dei quali sono laureati e classificati come cervelli in fuga. E sempre in Italia si scoprono due milioni di giovani che non studiano e non lavorano, senza formazione e specializzazioni, che stentano a trovare spazio in un mercato del lavoro asfittico.
Sono trascorsi anni prima che si prendesse atto del fallimento del numero chiuso per l’accesso ad alcune facoltà universitarie, passerà intanto molto tempo prima di capire la follia dei meccanismi selettivi post iscrizione recentemente adottati dal Governo, davanti a logiche di potere baronali sopravvissute nel tempo e oggi forse più forti di prima anche per l’insorgere di nuovi Ordini, di sindacati di mestiere; gli spazi per una iniziativa sarebbero grandissimi.
Siamo un paese nel quale i morti superano le nascite, i vecchi sono più numerosi dei giovani, chiedere allora di limitare le misure di welfare per la terza età è una follia, semmai servirebbero maggiori risorse parte delle quali da destinare ai giovani.
Ma chi sosterrà la necessità di pagare più tasse se perfino i sindacati ne chiedono la riduzione?
Per mettere su famiglia e fare dei figli devono esserci delle condizioni minime di tranquillità come la presenza di un lavoro stabile, un affitto a basso costo dentro un piano casa che manca da oltre 60 anni, posti nido certi nei nidi dentro la Pubblica Istruzione e non relegati alla veste di servizi a domanda individuale, orari di lavoro agevolati per la cura dei figli.
Ma queste misure presuppongono la presenza di uno Stato molto più attivo, un welfare funzionante, risorse maggiori di quelle attuali, altro che Ires premiale, si rende necessario pagare maggiori tasse in misura progressiva rispetto al reddito.
Alla luce di queste osservazioni l’ottimismo Meloniano stride con le preoccupazioni delle associazioni datoriali, e un ulteriore tassello andrebbe aggiunto, da parte nostra, sul lavoro, sulla presunta facilità di trovare una nuova occupazione dopo un licenziamento. Le statistiche dicono invece che solo quanti risultano in possesso di specializzazioni e competenze possono aspirare a un nuovo impiego nell’arco di pochi mesi, per tutti gli altri lo spettro della disoccupazione si fa sempre più forte.
E poi chi perde il lavoro e ne ritrova un altro di solito percepisce salari inferiori, non siamo noi a sostenerlo ma degli economisti liberal.
I
nostri dati non includono il salario mensile, ma solo la retribuzione del primo
mese del nuovo contratto e come tale va considerato quando parliamo di salario.
Consideriamo l’evoluzione nel tempo – misurato in mesi dall’evento della
perdita del lavoro – del salario, della probabilità di occupazione e della
probabilità di occupazione con contratto a tempo indeterminato.
Ecco
i risultati principali dell’analisi. A dodici mesi dalla perdita del lavoro, i
lavoratori che hanno perso l’impiego dopo la riforma guadagnano in media 222
euro in meno rispetto al lavoro precedente. Per chi ha perso il lavoro prima
della riforma, la perdita salariale è di 78 euro. La riforma ha dunque
aumentato il costo di circa il 15 per cento del salario precedente,
accompagnato da una riduzione di 7 punti percentuali nella probabilità di
reimpiego (41 per cento per i lavoratori post-riforma contro 48 per cento per
quelli pre-riforma). Non si osservano effetti statisticamente significativi
sulla probabilità di reimpiego con un contratto a tempo indeterminato. Dopo 33
mesi, la perdita salariale è pari al 4 per cento, ovvero 137 euro nel gruppo
post-riforma contro 99 euro per il gruppo di controllo. La probabilità di
essere occupati è più bassa di un punto percentuale per i lavoratori del gruppo
trattato (37 contro 38 per cento).
Perdere il lavoro costa di più dopo la riforma Fornero –
Lavoce.info
Se Sindacati e Confindustria parlano lo stesso linguaggio vuol dire che l’egemonia è dei padroni e i salariati sono sempre più subalterni. Le politiche di precarizzazione hanno colpito duramente le fasce sociali più fragili e le giovani generazioni, sono cresciute le disuguaglianze e risultano deteriorate le condizioni dei lavoratori cosiddetti “protetti”. La facilità di licenziamento, il jobs act, la precarizzazione, lo stravolgimento delle norme contrattuali sono le cause dell’attuale situazione e quindi se si critica la scarsa propensione verso i giovani non è possibile avallare e invocare politiche di precarietà e di abbattimento delle tasse.
Fonte foto: X (da Google)