Ed eccomi qui, di nuovo in Cina per l’ennesima volta. Vengo in questo paese quasi ogni anno da trent’anni. Ho potuto perciò vedere con i miei occhi la stupefacente rinascita di questo Stato-civiltà che ammalia chiunque lo incontri, da amico o da nemico, da alleato a invasore, prima e dopo Marco Polo. Ma è giunto il tempo di fare un inventario dei miei pensieri e dei miei sentimenti verso la Cina, e nelle scorse settimane ho avuto l’occasione di metterli alla prova in una serie di dibattiti ad alta intensità in alcune delle maggiori università del paese. Offro ai lettori un resoconto molto parziale dei temi sui quali mi sono misurato con studenti, professori, dirigenti di partito, giornalisti. Grandi temi, certo, perché tutto è grande nella Cina di questi tempi. E occorrono chiavi di lettura adeguate se non si vuole cadere in balia dei luoghi comuni, delle mezze verità e degli stereotipi. Non c’è un flusso di notizie affidabile su ciò che succede davvero in Cina, su come essa si comporti nella scena internazionale. Credo che la nozione più dura da afferrare per media e governi occidentali è che la potenza cinese attuale poggi su solide basi non-capitalistiche. Il più diffuso luogo comune è quello che pretende di spiegare il miracolo economico della Cina con la scelta di volare sulle ali del capitalismo occidentale per fuggire dall’inferno della povertà estrema in cui essa era piombata dopo la caduta del Celeste Impero. Mao Tse Tung e la rivoluzione comunista del 1949 non sarebbero stati altro che un costoso, eccentrico biglietto di ingresso nella modernità occidentale, perseguita poi fino in fondo secondo una formula autoritaria e nazionalista. La Cina di Xi Jinping, secondo le vittime del suddetto pregiudizio, è una replica tardiva e pericolosa della modernizzazione tedesca, giapponese e italiana del secolo passato destinata a terminare come sappiamo. Salvo una sua conversione dell’ultimo minuto alla democrazia liberale e allo Stato di diritto. Conversione di giorno in giorno più improbabile data la saldezza crescente di un dominio comunista diventato, con le nuove tecnologie, compiutamente orwelliano. La forza di questo stereotipo non è intrinseca, ma è dovuta all’assenza di una concezione antagonista munita degli adeguati strumenti di contrasto.
L’eresia dei
successori di Mao non è stata la conversione alla società del mercato,
bensì la scelta di usare il capitalismo invece di distruggerlo,
forzandolo a comportarsi come una risorsa al servizio del bene di tutti.
Ma la potenza delle idee sbagliate può essere suprema. Lo deduco dal
tempo che ha impiegato uno studioso di orientamento socialista come chi
scrive per sentirsi in grado di attaccare il mito della Cina
capitalista, e dalla timidezza con cui lo stesso governo di Pechino
rivendica l’alterità del suo sistema rispetto a un Occidente
capitalistico pervenuto alla fase terminale del suo declino.
Durante un dibattito in università, un alto dirigente del Partito
comunista ha così motivato la riluttanza del PCC a marcare le basi
non-capitalistiche di una Cina aperta al confronto con mercati e Stati
esteri: “Primo, il concetto è difficile da spiegare, soprattutto a una
audience straniera scettica verso di noi, pronta a considerare
propaganda qualsiasi nostra dichiarazione di contenuto fortemente
politico. Secondo, non intendiamo dare l’impressione di proporre un
modello da imporre agli altri tipo l’esportazione della democrazia
promossa dai neocon americani. Terzo, l’idea può essere facilmente
distorta e messa in contrasto con la nostra advocacy dei principi di non interferenza e di rispetto della sovranità”.
In effetti, la narrativa di un sistema cinese composto da un’economia
largamente capitalistica e di mercato e da uno Stato che non la
riflette – perché socialista e orientato a dominarla invece del
contrario – non è facile da spiegare neanche agli economisti. Credo che
solo i keynesiani più fedeli alle idee originarie del loro maestro siano
in grado di comprendere bene questo concetto. Ora non prendetemi per un
attempato comunista se vi dico che il potere euristico di questa chiave
di lettura è grandioso. Essa vi consente non solo di risolvere l’enigma
del miracolo economico della Cina post-Mao, ma vi permette di stare
seduti in prima fila davanti al tramonto di un capitalismo occidentale
dove la finanza si ciba dell’industria e del commercio.
Mentre le industrie euroatlantiche soffrono di una
cronica caduta dei profitti e sono costrette per sopravvivere a
trasformarsi in imprese finanziarie, quelle cinesi realizzano introiti
dal 50 al 200% superiori a quelli delle loro controparti occidentali
grazie alla riduzione dei costi e dei rischi apportata dalla
pianificazione socialista e grazie all’assenza del vampirismo
finanziario. Questo elemento è davvero fondamentale. Una delle maggiori
risorse del “socialismo di mercato” cinese è un sistema bancario
interamente pubblico, che consente di trasformare i risparmi dei
cittadini in investimenti produttivi invece che in fiche del
casinò finanziario mondiale. Il sistema cinese attuale è andato oltre
Marx e molto oltre Keynes. Esso non cerca né di distruggere né di
“riparare” il capitalismo, ma di usarne l’immensa forza e dinamicità a
scopi di benessere collettivo. Superandolo anche nel campo dello
sviluppo delle forze produttive. Come? Per mezzo di un possesso pubblico
diretto di tutti mezzi di produzione strategici: il capitale-denaro, la
terra, le grandi imprese dei settori strategici e, oggi, anche il mezzo
di produzione più cruciale che è l’Intelligenza artificiale. Tutti
questi beni, i centri di comando della produzione e della distribuzione,
sono di proprietà statale. Il cuore, il cervello e il sistema nervoso
dell’economia cinese, perciò, non obbediscono al capitale ma allo Stato.
Sono essi stessi lo Stato. Il “corpaccione” materiale dell’economia
cinese è invece largamente privato, composto da investitori
capitalistici alla ricerca del profitto, del tutto simili ai loro
omologhi occidentali. Parlo di milioni di imprese e imprenditori che
sono la parte più visibile dell’economia reale più imponente del
pianeta, che genera ormai il 40% della produzione industriale globale.
Il software di tutta la baracca è una pianificazione altamente
sofisticata, algoritmica, tentativa, collocata agli antipodi della
rigida pianificazione sovietica che ha scavato la fossa del socialismo
russo. E agli antipodi anche della formula primitiva del capitalismo di
Stato adottata in viarie parti del Grande Sud. Il piano quinquennale
cinese raramente ha mancato l’obiettivo grazie al suo comando immediato
di risorse pubbliche gigantesche, ai suoi megaprogetti infrastrutturali
da 6 trilioni di dollari, e al suo potere di indirizzare le strategie
delle grandi imprese private.
Questo potere è cresciuto invece di indebolirsi con la crescita del Pil, anche perché l’Intelligenza artificiale ha amplificato di molto la capacità predittiva dei movimenti della domanda. La competizione interna tra imprese cinesi pubbliche e private persiste ed è ancora vigorosa, ma l’intera economia della Cina funziona sempre più come una gigantesca singola corporation in grado di battere qualunque rivale estera grazie… al suo non essere ontologicamente capitalista.
Fonte articolo: https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2025/05/30/il-falso-mito-della-cina-capitalista-e-gli-occhi-strabici-delloccidente/8008070/
Fonte foto: Il Fatto Quotidiano (da Google)