Circa la tecnica: per una fenomenologia politica della relazione


Quattro tesi

Partirò con una tesi, enunciata in modo secco: l’essere umano non ha fondamento: si costituisce nella relazione. Ma la possibilità della relazione, in senso autentico ovvero non determinato interamente da istinti naturali, è pienamente sociale sin dalla sua radice. E’ questo il senso in cui “non ha fondamento”. La specie umana condivide, certamente, alcune caratteristiche abilitanti rese disponibili dalla sua conformazione biologica e genetica di base, – postura, il dimorfismo sessuale, encefalizzazione, lunga infanzia, cure parentali collettive, capacità vocale e grammaticale -, ma tutto ciò predispone e non limita. L’uomo ha una struttura istintuale molto meno stringente delle altre specie superiori (inclusi gli altri primati) l’uomo deve sempre farsi. Sia socialmente sia individualmente. E questo farsi si determina, con il decisivo contributo del linguaggio, nel lungo processo storico di apprendimento socio-culturale e dialogo sul quale non è questo il luogo per dilungarsi.

Per Marx l’uomo è “essere generico”, gattungswesen, e ha potenzialità universali, nel senso che è capace di scambiare con la natura, lavorando, socializzando e riconoscendosi nei frutti del proprio lavoro. Ad esempio, nella sezione sull’alienazione dei Manoscritti economico-filosofici[1], viene articolato un concetto dell’umano come intrinsecamente sociale e libero che si oggettiva nel mondo. Questo concetto, appena abbozzato nei manoscritti marxiani, è ripreso e sviluppato da Lukacs in Ontologia dell’essere sociale[2], quando inquadra la genericità come criterio ontologico determinante nel processo evolutivo della umanità (e fonte della sua universalità). Genericità, si noti, intesa non come astrazione logica, o del pensiero, quanto come farsi materiale nello scambio ‘organico’ con la natura. Un farsi mosso dalle posizioni teleologiche del lavoro (che si formano nella mente prima che nella materia), per poi oggettivarsi socialmente. Per Lukacs le potenzialità causali, rinvianti a concatenazioni di sistemi (che chiama complessi di complessi della realtà[3]), sono sempre attivate e concretate dal lavoro.

Lavoro che è progetto e quindi teleologico nel senso di consapevolmente orientato a una prassi. Quindi è in tal senso che il rapporto tra soggetto e oggetto viene a formarsi in una totalità sociale e concreta.

Come scrive:

“Il cambiamento strutturale provocato dalle posizioni teleologiche che si hanno nel lavoro, dal rapporto soggetto-oggetto ontologicamente del tutto nuovo che in esse si forma, dalle loro conseguenze indirette, fra cui anche il linguaggio come organo di comunicazione, questo cambiamento proprio in tale totalità, nel suo oggettivo abbracciare le forme e i contenuti di tutti i destini singoli, nelle interrelazioni fra i processi riproduttivi dei singoli e il loro insieme, acquisisce la sua costituzione di totalità sociale, di fondamento oggettivo di ogni genericità al livello d’essere della socialità”[4].

In definitiva il Gattungwesen marxiano indica un’essenza umana non fissa, né direttamente biologicamente determinata (se pure la base biologica abilita e inibisce delle possibilità causali), ma potenzialmente illimitata, in quanto sia storica sia relazionale. Poi, come noto, sia in Marx sia in Lukacs è il lavoro a essere l’attività nella quale avviene lo scambio con la natura e l’oggettivazione dell’umano, la creazione dell’uomo in quanto uomo. L’unica alienazione è quindi quando viene meno il rapporto dell’uomo con sé stesso in quanto essere sociale[5]. Quando, come scrive Marx[6], il processo sociale di produzione e riproduzione del mondo fa dell’essere dell’uomo come “appartenente a una specie” un essere a sé estraneo, “un [mero] mezzo della sua esistenza individuale”. In questa oggettivazione, o riduzione a merce, si perde il carattere stesso dell’uomo come concreto insieme dei rapporti sociali che, soli, lo costituiscono[7].

È dunque, per dire diversamente, nel suo continuo darsi-in-relazione nella concretezza delle condizioni materiali storicamente date che l’uomo si forma, si trasforma, si istituisce.

Introdurrò, ora una seconda tesi: la tecnica è la forma storica di tale darsi dell’uomo nel mondo. Tramite essa, che compare all’alba della specie, l’uomo (essere debole e non specializzato) crea il proprio ‘mondo’ e insieme definisce sé stesso. Ciò implica, tra l’altro, che la tecnica è sia socialmente sia culturalmente determinata; in un senso molto profondo questa è una delle istituzioni fondamentali della società ed ha decisivi effetti sulla sua riproduzione. Al contempo, ha effetti costitutivi del sociale e perciò della circolazione del potere, della possibilità del controllo sulla natura (alla quale la specie appartiene), e, in definitiva, del divenire umano. La tecnica, infatti, non è mai solo mezzo ma anche espressione e articolazione di un rapporto cosmologico. In ogni società, essa stabilisce una forma di composizione tra l’umano e il non umano, tra l’ordine e il caos, tra il tempo e lo spazio. Prendiamo il caso cinese, tra i molti possibili: se anche l’ampia esplorazione di Needham[8], o il più recente lavoro di Pomeranz[9], illustrano la profondità, ricchezza e sagacia del pensiero e delle realizzazioni tecniche cinesi, tanto a lungo superiori a quelle occidentali[10], tuttavia il pensiero della tecnica è legato a una cosmologia morale, o metafisica morale, che si esprime presumendo una unificazione tra il Cielo e l’umano. Nel contesto della tecnica, come propone Yuk Hui[11], si tratta dell’unificazione di Qi e Dao[12], 道. L’evoluzione di questa nozione presume, quindi, di inquadrare quella tra Qi e Dao, ovvero se Qi (gli strumenti, le tecniche, i riti e i processi tecnici) illumini i Dao (la via); ovvero, se lo supporta; o, al contrario il Dao sia a servizio del Qi. O se, secondo un’impostazione materialista copiata dall’Occidente, tra il Qi ed il Dao non ci sia relazione. Ovvero la tecnica sia feticizzata, come, ad un livello apparente accade in Occidente, dove la tecnica viene progressivamente separata da ogni orizzonte cosmico (ma silenziosamente lo assorbe, mettendosi al posto), simbolico e rituale. E si costituisce, tramite questo nascondimento in piena luce, come dominio, funzionalità strumentale che rivendica la sua autonomia, obliando la relazione nella quale si istituisce. Dunque, nel momento in cui la cosmotecnica occidentale mostra la propria crisi – nel suo esito disgregante e nella sua autoreferenzialità cieca – si impone il compito di una nuova comprensione tecnica: non rifiutare la tecnica, ma riorientarla. Articolare un’etica del Qi che non neghi il Dao. O, in altre parole, raggiungere una comprensione storica e dell’orizzonte cosmologico e di senso della sempre rinnovata relazione tra tecnica e mondi.

Qui viene una terza tesi: anche in questi termini deriva, nel contesto attuale caratterizzato dalla crisi terminale dell’egemonia occidentale, la necessità di superare la riduzione all’Uno. L’affermazione di una sola cosmologia ‘vera’, una sola razionalità legittima e una relazione con la natura sua propria. Superare quella particolare separazione tra natura e cultura, soggetto e oggetto, propria della cosmologia occidentale comporta l’apertura alle cosmologie che possono sostenere la liberazione dei diversi e plurali modi di essere della capacità relazionale umana[13]. Quindi della capacità umana di avere uno scambio con la natura fondato su basi diverse, non solo in termini di ecologia quanto di potere (tra uomini, classi, popoli, regioni). La questione è qui di porre le condizioni, intanto intellettuali, per pensare la possibilità di modelli alternativi di liberazione, ancorati a diverse cosmologie (e cosmotecniche, come vedremo), che non sono e non vogliono essere reciprocamente schermate.

La quarta tesi lavora, infine, con le emergenze del nostro tempo: bisogna uscire dalla logica della guerra, senza disarmarsi: questo è oggi il compito teorico e politico più urgente. La logica della guerra è infatti, la forma suprema del pensiero binario occidentale. Al contempo l’ultimo frutto della centralità militare, tecnologica e della formazione di capitale[14] che nell’Occidente collettivo ha avuto un inizio con l’aggiramento spagnolo del blocco turco e la distruzione delle americhe e sta giungendo dopo cinque secoli a fine. Di quella dipendenza e assorbimento dei capitali periferici, e dell’intero sistema morale, ideologico e sociale che vi è stato costruito sopra (la stessa coppia Occidente/Oriente che lo organizza) che è sempre più presentata davanti agli occhi del mondo e rigettata. Della vergogna di quel Re ormai nudo che per questo ruggisce di rabbia a Kiev come a Gaza. Dunque bisogna uscire dalla forma di pensiero che informa il modo in cui l’Occidente si è rapportato al mondo, alla natura, agli altri popoli, alle tecniche, a sé stesso.

Ma senza abbandonare il conflitto come dimensione necessaria della realtà, piuttosto radicalizzarlo. Abitare la creazione del nuovo, la composizione delle forze e delle soggettività, la confluenza, tramite strumenti simbolici, pratici, teorie e prassi, in grado di evitare la logica del nemico. Disattivare le metafisiche della separazione; l’oggettivazione per la messa a disposizione come fondo, riserva, merce. Coltivare l’arte della coesistenza nel dissenso, della complementarietà tra diversi, di cosmotecniche[15] plurali. Prestare attenzione ai pensieri marginali, ai marxismi eterodossi[16], alle parti migliori del pensiero decoloniale, indigeno, orientale, allo sforzo cinese di articolare una fusione paziente di marxismo sinizzato e grande tradizione, all’energia della vita.

La questione della tecnica in Heidegger

Per iniziare ad articolare queste quattro tesi, si può traguardare l’eredità di Heidegger e della sua diagnosi del moderno come epoca del Gestell, in cui l’essere si disvela unicamente come risorsa disponibile (Bestand); un’eredità che ha profondamente segnato tanto la filosofia occidentale quanto i tentativi di pensiero critico nel mondo globale[17]. Si tratta di un monumento della nostra civiltà, tuttavia la struttura stessa di questo pensiero mantiene una tensione irrisolta: denuncia opportunamente la reificazione del mondo[18], ma lo fa da una posizione che resta ancorata a un mito dell’origine e a un messianismo ontologico[19]. È, inoltre, in modo sottile, ancora un pensiero dell’Uno e della Origine. Bisognerebbe quindi oltrepassarlo, spostando il focus dall’essere come fondamento al movimento come condizione relazionale e costitutiva dell’umano; ridefinendo dunque la tecnica non come destino, ma come forma situata della relazione storica, senza alcuna trascendenza se pure rovesciata. La “tecnica” è, infatti, o rischia di essere anche nel pensiero di Heidegger e nella ricezione implicita di questo, una sorta di alias del capitalismo e del potere che questo contiene e veicola. Il discorso di Hedegger critica la manipolazione della tecnica come destino della modernità, ma non distingue abbastanza tra forma sociale del capitalismo e sviluppo dell’occidentalismo, da una parte, e tecnica come impresa comune dell’umano, dall’altro[20]. In conseguenza il discorso sulla tecnica oscilla tra il disperato urlo di Mark Fisher in Realismo capitalista[21], che si ritrova come consumatore-spettatore ad arrancare tra ruderi e rovine, e il cinico che finisce per leggere tutto come Occidente, al più rifugiandosi nel cenacolo o nel consumo[22].

Bisogna, in altre parole, superare l’idea che la tecnica, come insieme di apparati e logiche operative, disveli il mondo nel senso di costruirlo come tale, e anche quella che questo tale mondo sia al termine Uno. In altre parole, che l’Europa sia l’origine e il destino della tecnica.

Il nulla e il potenziale

Per superarlo bisogna contemplare la possibilità che non esista una libertà originaria, un Eden al quale tornare, ma all’origine ci sia solo il ‘nulla’[23]. Il nulla che non va inteso come negazione, ma come condizione dell’apertura, come possibilità, come potenziale della relazione. Aprendosi alla relazione, che non è possibile in senso proprio quando c’è solo causalità (come mostra bene Lukacs), il ‘nulla’ si disvela come essere. Ovvero, cancellando la parola, troppo densamente onto-teologica, si disvela come potenziale. In tal senso la tecnica è anche aletheia[24] dell’apprestare ontologico, ma per poter immaginare l’abbandono della volontà di dominio, anziché risalire a un momento originario bisogna perderlo. Riconoscere che l’umano è nel nulla (in un certo senso secondo l’antica tradizione del śūnyatā[25]).

Cosmologie e universalismi

Anche se è stato letto secondo i riverberi di questa tradizione nella Scuola di Kyoto, il nesso logico stringente nel quale Heidegger cattura la sua critica resta strettamente occidentalocentrico; immagina che non ci sia altro che l’Occidente e la sua tradizione, che smarrisce sé stessa. L’Altro è, invece, sempre l’impensato e forse l’impensabile dentro lo steccato di una cosmologia che si pensi universo[26]. Qui si potrebbe ricordare Dussel[27], e sicuramente anche Wang Hui[28] e Yuk Hui[29]. Opponendo quindi la logica ‘orizzontale’ e relazionale della Tianxia che contraddistingue l’universalismo sui generis cinese alla universalità che riconduce necessariamente la molteplicità al dominio dell’Uno: sia nella forma cristiana della “via di salvezza” per l’intera umanità, alla quale ogni soggettività è chiamata a conformarsi, sia nella sua secolarizzazione moderna, incarnata nella “ricetta” liberale e progressiva del mondo unico del mercato (o dell’impero delle merci). L’orizzonte del tianxia riconosce la legittimità di una pluralità non riducibile di tempi incarnati e trasformazioni, soggettività relazionali, dialogo tra mondi, pratiche e civiltà, forme di verità inscritte nei viventi concreti e spinta all’armonia. Non si tratta, quindi, di imporre (o riconoscere) un telos al mondo, quanto far risuonare tra di loro i molteplici ordini fattualmente esistenti e aprire lo spazio per la loro co-esistenza creativa. Non si tratta di un universalismo nel nostro senso, nella lingua italiana si dovrebbe piuttosto parlare di cosmo, o di spazio della compresenza nella differenza. L’universo comanda dall’alto[30]; il cosmo risuona dall’interno. Se vogliamo provare a esplorare i limiti del linguaggio si potrebbe confrontare, non già opporre, a un universalismo dell’Uno, occidentale, un cosmocentrismo plurale della relazione e risonanza, orientale (ma anche proprio dei tanti sud del mondo). Due ordini diversi della normatività e della gerarchia, modi diversi di pensare l’unità nella molteplicità, uno che rinvia a una trascendenza ordinatrice e l’altro a una relazione immanente e aperta alla trasformazione.

Ma bisogna fare subito una precisazione; l’affermazione “il nulla è essere” può facilmente generare un corto circuito linguistico-metafisico. Meglio allora dire: la relazione è tutto ciò che può darsi. Non si tratta di derivare l’essere dal nulla, ma più modestamente di riconoscere che il darsi è sempre situato, storicizzato, incarnato. Con ciò ci si riferisce ancora a che l’umano, nella sua specificità antropologica, è essere “vuoto” in quanto scarsamente determinato da istinti fissi[31]; in quanto poco determinato è essere sociale. In conseguenza è aperto a farsi nella relazione, nella formazione, nella costruzione del senso. In questo senso, non c’è alcuna originarietà alla quale tornare: non un Eden perduto, non un essere più autentico, ma solo un processo continuo di co-determinazione, in cui l’uomo si fa attraverso il rapporto col mondo, che è sempre anche rapporto con l’altro[32].

In altre parole, si propone di considerare che il proprio dell’uomo, la sua consistenza e conformazione antropologica, origini e consista nel suo essere vuoto. Ma, al contempo, che ogni costruzione umana, anche individuale, sia sempre all’origine e come destino sociale. Che, ovvero, l’uomo nel suo formarsi come uomo, e nel determinare il suo rapporto con il “mondo”, rinvii sempre all’altro da sé, ovvero al sociale che è oltre sé, pur essendo anche in sé. Ancora, in questo senso non c’è nessun originario al quale tornare; pensarlo, immaginando che il dio che salva sia un altro inizio, è un residuo teologico in Heidegger, e nella sua tradizione, una sorta di rovesciamento messianico fortemente occidentale[33].

Viceversa, il nulla è insieme pieno, perché nessuno può realmente essere solo. La pienezza risuona di potenziale nel vuoto. Quindi questo è il senso in cui il nulla è l’essere, un essere che è sempre apertura perché si deve necessariamente completare, non può riposare in sé stesso e si deve definire nella relazione sociale con l’altro-da-sé, un “altro” che è, contemporaneamente, il sé-come-altro e il sé-come-movimento. L’essere è, insomma, questo movimento. L’essere è il movimento e il rimandare-ad-altro.

Ora, secondo questa lettura non è tanto la tecnica a essere aletheia dell’apprestare, quanto l’uomo che per divenire uomo deve farsi nel ricambio organico con la natura e con il mondo (dove la natura è anche il sociale e il politico[34]). La tecnica è quindi una forma di questo darsi che ci costituisce come uomini e, al tempo stesso come sociale; è una manifestazione di questo aprirsi. Ma questo movimento, di aprirsi-definendosi è sempre storico, non può essere altro. La storia dell’uomo è l’irreversibilità di questo movimento dal nulla. Questo movimento ininterrotto e aperto che emerge dal nulla e si costruisce nella relazione.

Il tragico e la lotta per il comune

In conseguenza, non è realmente possibile un punto di vista universale ed esterno, dal quale dare una critica esterna; quindi, non è possibile la riduzione all’Uno e all’Universale, ma è necessario che questa (la critica) debba essere sempre interna, locale, specifica, situata. Questo è il senso in cui la volontà di dominio è anche volontà di farsi, di definirsi oltre il nulla, e in questo la critica è anche tragica[35]: non può mai essere fondata, ma, al contempo non è evitabile. Ovviamente sono possibili molti modi di essere in questo circolo, di definirsi in questa cosmologia senza volerla universale[36]. L’Altro, se pure in Dussel forse c’è questo rischio o questi toni, non è né impensabile, né sublime negativo, non è sacro. E’ solo inevitabilmente parte dell’essere, che è relazione, trasformazione e movimento. Certo, storica, contestuale, materiale (molto materiale, qui si potrebbe collocare anche il Marx giovane[37] e autori come Labriola[38]), e ha dimensioni di tradizione e innovazione. Ha potenza e atto.

La formula secondo la quale il “nulla è essere” flirta dunque con un linguaggio onto-teologico[39] che rischia di alludere alla giustificazione del disperato nichilismo che traveste la perdita del reale con parole oscure, nulla di ciò è nella nostra intenzione. Si potrebbe dire che, nello sviluppo dell’uomo “la relazione è tutto ciò che può darsi”; il movimento dalla mera datità della natura, la sua appropriazione riflessiva e ri-creazione sociale è la casa dell’uomo, ciò che lo fa. Chiaramente il tragico, la volontà di dominio che cerca il farsi per muovere dal nulla è l’umano stesso. Tuttavia, può sia usare la violenza che crea il mondo come oggetto riducendolo a collezione di merci/strumenti[40], sia sapersi-con-l’altro e produrre-il-comune[41]. Quindi divenire-insieme, riconoscendosi. Determinandosi anche nel conflitto con ciò che crea-come-oggetto il mondo, e nella lotta per il riconoscimento dell’apertura relazionale come condizione della storicità dell’umano[42]. Questa lotta ha una dimensione cosmotecnica, una dimensione decoloniale, una dimensione politica (nel senso della lotta per la polis).

Provando a dirlo diversamente, la tecnica, lungi dall’essere un apparato neutro o un destino fatale, è una modalità attraverso cui l’umano si relaziona al mondo, al contempo facendolo. In questa chiave, non è tanto la tecnica a essere aletheia dell’apprestare, quanto è l’uomo che, nel suo farsi storico, si definisce anche tecnicamente. La tecnica non precede, né fonda, ma accompagna ogni processo di costruzione del senso. Essa può, in tal senso, essere strumento di alienazione, di dominio, di riduzione del mondo a oggetto, ma può anche essere luogo di mediazione, di co-creazione, di divenire comune. Il tragico non è dunque il dominio in sé, ma l’incapacità di uscirne: la riduzione della relazione costitutiva a strumento, del movimento a finzione e paralisi. La lotta per il riconoscimento dell’apertura relazionale come condizione storica dell’umano diventa allora il luogo in cui si decide il senso stesso del mondo[43].

Le dimensioni della lotta

Questa lotta ha diverse dimensioni. In primo luogo, è cosmotecnica: come ha mostrato Yuk Hui, ogni cultura sviluppa una propria articolazione tra tecnica e cosmologia[44]. Non esiste un modello unico, ma una pluralità di mondi possibili. Ad esempio, la cosmotecnica occidentale prevalente vede un’antitesi tra natura e cultura per la quale il cosmo finisce per essere considerato una riserva fruibile, dalla quale l’uomo è in via di principio separato e in posizione dominante. Questa cosmologia può essere decostruita utilmente dall’interno[45] e confrontata dall’esterno[46]. In secondo luogo, è decoloniale: anche in tal senso si tratta di riconoscere l’altro non come oggetto di sapere o di salvezza, ma come co-produttore di mondo. Pensatori come Dussel e Wang Hui hanno mostrato che ogni progetto emancipativo deve partire da una storicizzazione radicale del presente, da un recupero critico delle tradizioni negate[47]. Infine, è politica: la relazione è sempre mediata da istituzioni, conflitti, rapporti di forza entro i quali bisogna prendere posizione. Il mondo della vita non è uno spazio idillico, ma campo di prassi di lotta triplice: per l’orizzonte del senso, l’azione e la liberazione.

Detto in altro modo, non possiamo sfuggire alla storicità. Il darsi dell’umano è sempre situato, aperto, in tensione. La relazione è, in effetti, la sola “casa” possibile dell’essere, ma questa casa deve essere ed è costruita, decostruita, reinventata nella prassi. Criticare la tecnica non significa, allora, sognare un ritorno all’origine, ma riconoscere le modalità storiche e culturali attraverso cui il mondo viene reso abitabile o inabitabile. La posta in gioco non è una verità eterna (né ‘eterna’, né ‘una’), ma la possibilità di costruire un comune nella pluralità che riconosca la relazione come principio politico, antropologico e cosmologico. In questo senso, la filosofia non è contemplazione dell’essere, ma lotta per la forma del mondo.

Dunque, quel che serve è una dialettica del potere e della liberazione, che riconosca nella relazione il cuore dell’esperienza umana. O, in altri termini, una fenomenologia politica della soggettività relazionale, una teoria della libertà sociale[48] che non si fondi su una cosmologia capace solo di pensarsi come ‘universo’, ma su forme di coappartenenza storicamente e istituzionalmente situate. Forme che riconoscano il vuoto non come mancanza, ma come possibilità originaria dell’apertura. Che inquadrino cosmotecniche plurali come istituzioni contingenti e mobili, capaci di ospitare il pluralismo.

Comprendere allora l’essere come relazione, il nulla come fonte di una paradossale origine che non fonda ma apre, e la tecnica come storicità, significa rompere con la critica della tecnica dominante nel Novecento europeo. Una critica tragica, apocalittica, nostalgica (sia nella tradizione heideggeriana sia in quella francofortese). Rileggendola piuttosto come genealogia del farsi-uomo e immersione nella storia, come lavoro comune, anche di diverse tradizioni e “civiltà” (che sono sempre state in relazione).


Note
[1] – Karl Marx, Manoscritti economico-filosofici del 1844, Einaudi, 1968, pp. 67 e seg,
[2] – Gyorgy Lukacs, Ontologia dell’essere sociale, Meltemi 2023, vol I,
[3] – Che sono unità della realtà oggettiva, esprimibili tramite un’analisi ontologica (complessi naturali, sociali, storico-culturali, …) ma non sono sistemi chiusi e autopoietici (come nella coeva lettura di Luhmann), bensì totalità aperte articolate e processuali, messe in movimento dal lavoro. Si veda ad esempio su questo la lettura di Carlo Formenti, “Ne La filosofia imperfetta (14) Costanzo Preve scrive che il percorso evolutivo del pensiero di Lukács da Storia e coscienza di classe alla Ontologia può essere descritto come conversione a uno dei tre “regimi narrativi” utilizzati da Marx, scartando gli altri due. Secondo Preve il corpus teorico marxiano è infatti caratterizzato dai discorsi grande-narrativo, deterministico-naturalistico e ontologico-sociale. Nel primo la categoria di soggetto è titolare di un’essenza che contiene in sé, in modo immanente, una teleologia necessaria, per cui il proletariato sarebbe “per sua stessa natura” votato a svolgere il ruolo di affossatore del modo di produzione capitalistico. Il secondo coincide con una sorta di antropomorfizzazione della storia, nella misura in cui, alla narrazione dell’esistenza di un soggetto collettivo capace di imprimere una direzione al processo storico, associa l’ipotesi che tale processo sia animato da una necessità immanente. Viceversa, l’ultimo Lukács approda a quel filone ontologico-sociale del pensiero di Marx che esclude qualsiasi automatismo teleologico inscritto nella storia: in quest’ultimo regime narrativo teleologia e causalità sono infatti compresenti solo ed esclusivamente nella categoria del lavoro, la quale fornisce il modello di ogni agire finalistico dell’uomo e costituisce nel contempo quella prassi fondativa che innesca i processi causali che trasformano natura e società”, Carlo Formenti, “La storia umana è storia del lavoro. Luckacs come antidoto al liberal-fascismo europeo”, in Per un socialismo del secolo XXI, blog,17 marzo 2025.
[4] – Gyorgy Lukacs, Op.cit., p. 119.
[5] – Lukacs, op.cit.
[6] – Karl Marx, Manoscritti economico-filosofici del 1844, op.cit., p.79
[7] – Karl Marx, Ideologia tedesca, “Feuerbach”, Editori Riuniti 2018.
[8] – Joseph Needham, Scienza e civiltà in Cina, 4 vol, Einaudi 1981.
[9] – Kenneth Pomeranz, La grande divergenza, Il Mulino, 200 4 (ed. or. 2000).
[10] – La superiorità tecnica occidentale si manifesta nel modo più vistoso durante le guerre dell’oppio, quando i vascelli inglesi e i fanti di marina riescono a debellare, non solo per ragioni tecnologiche ma certo anche per queste, la resistenza Qing. Dunque, si può sicuramente concludere che nel 1850 l’occidente nei punti più sviluppati, l’Inghilterra, ha una netta superiorità tecnologica. Ma un secolo prima non era così, sotto molti profili le regioni più sviluppate della Cina imperiale erano allo stesso livello o superiore. Anche sul decisivo settore energetico, ad esempio per lo sfruttamento del carbone su larga scala si deve vedere come esso era stato sviluppato già intorno all’anno mille nel nord della Cina. A tal punto che, secondo le stime di Harwell, la produzione di ferro cinese nel XI secolo era superiore a quella europea del XVIII.
[11] – Yuk Hui, Cosmotecnica, op.cit., p. 36
[12] – Come scrive Chow yin-Ching in La filosofia cinese, (Ghibli 2015) il Tao (o Dao, secondo il sistema di trascrizione) è un principio immanente che non agisce dall’esterno, anima e trasforma gli esseri senza sforzo o scosse. Granet, in Il pensiero cinese (Adelphi 1971) fa notare che sia concepibile più come forza che come essere, la ricerca di una forza latente nei mutamenti delle cose.
[13] – Si veda su questo tema, “Alcune questioni circa la Cina, confronto tra universalismi”, Parte III, Tempofertile, maggio 2025.
[14] – Per prevenire un’obiezione, non si intende qui che la forma di organizzazione sociale e funzionamento economico che prende il nome di ‘capitalismo’ (o, marxianamente, ‘modo di produzione capitalista’) sia nato come Minerva già armato di elmo, corazza e lancia dalla testa di Giove direttamente quando Colombo, Amerigo Vespucci e i capitani conquistatori hanno sottomesso i grandi imperi atzeco e inca. Quel che si genera nel torno di anni tra la ‘scoperta’ dell’America e l’istituirsi di una economia atlantica coloniale è, piuttosto, una accumulazione originaria per “spoliazione” e una potente economia di sfruttamento che drena verso l’Occidente, facendolo tale, le risorse di una parte del mondo che nutriva all’epoca quasi un quinto dell’umanità. E’ la partenza della modernità.
[15] – Sul termine torneremo, cfr. Yuk Hui Cosmotecnica, Nero 2021 (2016).
[16] – Su questo punto si veda il lavoro di esplorazione di Carlo Formenti in Per un socialismo del secolo XXI e nei suoi ultimi libri, a partire dal concetto di “socialismi imperfetti”. Ad esempio, “I popoli africani contro l’imperialismo 1. Said Boumamama”, 6 novembre 2024; “I popoli africani contro l’imperialismo 2. Kevin Ochieng Okot”, 11 novembre 2024; “I popoli africani contro l’imperialismo 3. Amilcare Cabral”, 18 novembre 2024; “Ancora sull’Africa. Walter Rodney”, 19 gennaio 2025; “Panafricanismo, marxismo, comunismo, 1. I ‘classici’: Du Bois, Padmore, Williams, James, Césaire”, 25 febbraio 2025; “Panafricanismo, marxismo, comunismo II. Cedric Robinson”, 1° marzo 2025; “Ancora sul marxismo nero. Angela Davis”, 7 marzo 2025. Carlo Formenti, Guerra e rivoluzione. Elogio dei socialismi imperfetti, Meltemi 2023, in particolare cap 1, Cina; Cp 3, America Latina;.
[17] – Martin Heidegger, La questione della tecnica, Mursia, 1976 (1954). Una conferenza del 18 novembre 1953 a Monaco interpreta la tecnica non come insieme di strumenti, bensì come svelamento dell’essere, o come forma della vita che riduce tutto a fondo disponibile (Bestand), ovvero risorsa calcolabile e quindi manipolabile. Molto semplicemente, e banalmente, la tecnica è una delle vie di rivelamento dell’essere che orienta il modo di rapportarsi con gli altri, ma anche al mondo stesso. In un certo modo è un compimento della metafisica occidentale (e qui, in questa formula è presente l’eurocentrismo anche di Heidegger), in quanto la tecnica è un’opera non occidentale, ma del sistema mondo e policentrica. Esprime una verità del mondo e fa sì che l’uomo stesso diventi risorsa da organizzare, quindi anche consumare (e in questo riverbera anche la critica dell’alienazione nel primo Marx). Altra fonte primaria, oltre allo stesso Marx, è Dialettica dell’illuminismo di Max Horkheimer e Theodor Adorno, edito nel 1947. In questo influente testo i due francofortesi individuano nella tecnica la razionalità strumentale e in essa una forma di pensiero orientata al dominio, per cui individuano nell’illuminismo (occidentale) la via per creare una nuova forma di soggezione che riduce il mondo ad oggetto di controllo. In questa accezione, e questo è particolarmente importante, la tecnica è inseparabile dallo sviluppo del capitalismo e conduce necessariamente alla reificazione dei rapporti sociali. Le vie di fuga sono in Heidegger un altro svelamento dell’essere (esempio quello artistico) e in Adorno il pensiero negativo e non conciliato e nuovamente l’arte.
[18] – Ovvero la riduzione del mondo ad oggetto, quando esso è aperto dall’uomo e quindi dai rapporti sociali nelle determinazioni causali in relazione con gli impulsi teleologici attivabili dentro la storicità.
[19] – Reiner Schürmann, Heidegger. Dall’essere all’anarchia, Bollati Boringhieri, 1992 (1987); Jean-Luc Nancy, L’esperienza della libertà, Cronopio, 2000 (1988).
[20] – Con riferimento al confronto con il vistoso caso Cinese, un paese che si dice ‘socialista’, ma è da tempo e sempre più alla frontiera della tecnica e della modernità, bisogna capire che la tecnica non è un’impresa occidentale, la quale arriva quindi dall’esterno alla società e cultura cinese. Non lo è neppure la forma di produzione industriale (che è stata potenziata dentro un ecosistema di enorme potenza in occidente a partire dall’Ottocento, ma aveva antesignani nel mondo orientale e arabo, e nel Rinascimento si è sviluppata da Sud a Nord). La tecnica, inoltre, non è neppure specificamente connessa con il capitalismo, perché se lo fosse se ne dovrebbe concludere che questo è ubicuo e coincidente con l’intera storia dell’umanità, la parola perderebbe senso. Ne consegue che il solo fatto di usare delle tecniche, e ormai si dovrebbe dire essersi portati al confine della maggior parte delle tecniche, non rende di per sé la Cina occidentale e capitalista; né le tecniche sono necessariamente incompatibili con le diverse forme dell’umano, rappresentando unica fuga il vernacolo o l’arte o la depense.
[21] – Mark Fisher, Realismo capitalista, Nero 2018 (ed. or. 2015).
[22] – George Bataille, in due saggi del 1933 (La nozione di dépense) e del 1949 (La parte maledetta), ha introdotto l’idea, abbastanza aristocratica, che se l’essere umano e la intera società sono strutturati secondo l’utilità perdono qualcosa di essenziale. Piuttosto la mera vita trova senso fuori di questo, nella dépense (il dispendio), necessariamente improduttiva ed anche distruttiva di valori materiali (il sacrificio sacro, le feste, la stessa guerra, l’erotismo e l’arte). Ciò che è da mettere al centro è l’eccedenza da ogni funzione, l’inutile, l’esuberante.
[23] – Si veda in questa direzione il pensiero di Nishitani Keiji, La religione e il nulla, SE, 1997 (1961),
[24] – Aletheia (ἀλήθεια) è un concetto centrale della filosofia di Heidegger, ereditato dalla tradizione greca ma profondamente reinterpretato. Spesso tradotta con “verità”, Heidegger ne riscopre il significato etimologico di “dis-velamento” (dal prefisso a- privativo e lethe, “oblio”, “nascosto”), opponendolo alla nozione moderna di verità come corrispondenza (adaequatio intellectus et rei). L’aletheia è il processo di apertura del mondo, dove le cose possono farsi vedere così come sono nella loro essenza (Wesen).
[25] – śūnyatā (शून्यता in sanscrito), spesso reso in giapponese come (), è un concetto fondamentale nel pensiero buddhista. Viene normalmente tradotto come “vacuità” o “vuoto”, come assenza di esistenza intrinseca o autonoma. Secondo questo concetto indiano, tradotto nelle culture cinese e giapponese, nulla esiste “da sé”, ma ogni cosa emerge in relazione condizionata (in indiano pratītyasamutpāda) e come nodo di una rete di interdipendenze. Le fonti di questa idea sono Nāgārjuna (filosofo indiano del II–III secolo) che fonda la scuola Madhyamaka, le cui opere fondamentali sono “Stanze fondamentali della via di mezzo, Mūlamadhyamakakārikā. Nel III secolo questa scuola arriva in Cina, contaminandosi con la scuola Taoista e influenza le scuole filosofiche: Tiantai (天台宗), Huayan (華厳宗), Chan/Zen (禅). In Giappone si riverbera nelle scuole, Tendai (天台宗), che media con il pensiero confuciano, Zen (soprattutto Rinzai e Sōtō), Kegon (derivata da Huayan). Più di recente Nishitani, e la Scuola di Kyoto, lo rielabora in La religione e il nulla, fondendolo con il pensiero di Heidegger. In tal senso è messa a tema la co-originarietà tra io e mondo.
[26] – Mi riferisco alla Cosmologia dell’Occidente, che si immagina come universale, in alternativa alla Cosmologia del tianxia cinese.
[27] – Enrique Dussel è un filosofo e teologo della Teologia della Liberazione, con rilevanti influenze marxiste. Si veda, ad esempio, Enrique Dussel, Filosofia della liberazione, Queriniana, Brescia 1992 (ed. or. 1977); oppure Enrique Dussel, , L’occultamento dell’”altro”. All’origine del mito della modernità, La piccola editrice, Celleno 1993.
[28] – Wang Hui, Il ventesimo secolo della Cina. Rivoluzione, ritirata e ritorno del presente, DeriveApprodi, 2020 (2016)
[29] – Yuk Hui Cosmotecnica, op.cit..
[30] – L’universalismo dell’Occidente è gerarchico ed escludente, ma in modo molto particolare. Il movimento è quello della madre possessiva, che dichiara il Bene per tutti e lamenta che il suo amore non è compreso e mette in essere un dispositivo che funziona sulla colpa e la vergogna, sul controllo interiore. Il super-io Occidentale è tutt’altro che ‘patriarcale’. Al suo fondo si trova il ricatto colpevolizzante, il rimprovero di non essere abbastanza ‘moderni’ ed ‘aperti’, l’accusa e la lamentela. Il non-Occidente, qui diciamo l’Oriente, deve cedere al desiderio della buona madre, in quanto universale e pieno di amore per l’Umanità. Aderire con tutto sé stesso, e farsi simile al modello. Ricambiare i sacrifici fatti per scoprire il Vero e portare l’Umanità sulla strada del Progresso. Questo dominio, non diretto e visibile, è molto più potente e pervasivo, chi ne subisce l’incantesimo deve rivolgere l’insuccesso verso sé stesso, è stato incapace di diventare moderno, e pensarsi come ingrato e indegno moralmente. Questa volontà di potenza si percepisce, dal lato di chi la emette, come forma di esemplare amore universale, e di abnegazione, mentre dal lato di chi ne subisce l’effetto, come indegnità. Si veda, ad esempio, Jean-Claude Michéa, L’impero del male minore. Saggio sulla civiltà liberale, 24 Ore Motta Cultura, Milano 2008 (ed.or. 2007), p. 167.
[31] – Nel senso che, la scimmia umana, è scarsamente sovradeterminata da un insieme istintuale dato e rigido, e fondamentalmente plasmabile. Costruisce tracciati culturali e si proietta nel camminare (Ingold), struttura la sua memoria e quindi identità secondo i contesti sociali (Bloch), non ha determinazioni rigide (Mead), evolve cerebralmente per simboli e mediazioni (Deacon), è sempre in mediazione con se stesso (Plessner) ed è carente, privo di un apparato istintuale stabile e (Gehlen). Si veda, Arnold Gehlen, L’uomo. La sua natura e il suo posto nel mondo, SugarCo, 1983 (1940); Helmuth Plessner, I limiti della comunità. Una critica al radicalismo sociale, Il Mulino, 1995 (1924); Terrence W. Deacon, La specie simbolica. L’evoluzione del linguaggio e del pensiero umano, Codice Edizioni, 2004 (1997); Margaret Mead, Sesso e temperamento in tre società primitive, Il Saggiatore, 1962 (1935); Maurice Bloch, Antropologia e memoria, Meltemi, 2002 (1998); Tim Ingold, Linee. Un’esplorazione antropologica, Cortina, 2017 (2007). Particolarmente rilevante per questo modo di impostare le cose è la cosiddetta “svolta ontologica” in antropologia, che cerca di superare il multiculturalismo in quanto viene denunciato partire dall’assunto classico-occidentale (Cartesio) di un solo mondo naturale osservabile da molte culture. Per essa si tratta di invertire la prospettiva, leggendo i molti mondi e concezioni del reale come consistenti, coerenti e non riducibili. Gli autori sono Eduardo Viveiros de Castro, Philippe Descola, Marylin Strathern, Tim Ingold.
[32] – Non mancano in questo i rapporti con la grande tradizione idealista, in particolare con Hegel.
[33] – Rovesciamento del tempo messianico, o svuotamento, che in Benjamin è politicizzato mentre qui è ontologizzato. Ma non c’è salvezza in altri inizi, occorre assumere pienamente il nulla come apertura, come sua necessità, e condizione strutturale della relazione.
[34] – Qui si può fare riferimento al capolavoro di Luckacs, Ontologia dell’essere sociale, op.cit.
[35] – Si veda la posizione di Walter Benjamin sulla storia e sul messianesimo come evento, come porticina dal quale può entrare (o non entrare).
[36] – O a partire da questa cosmologia che deve sempre, per sua natura, essere storica e condivisa in una comunità di senso, in un “mondo della vita”.
[37] – Ad esempio il Marx dei Manoscritti storico-filosofici del 1844.
[38] – Si veda Alessandro Visalli, Classe e Partito, Meltemi 2023.
[39] – Si veda la critica di Lukacs a Heidegger in Ontologia dell’essere sociale, vol II, pp. 128 e seg.
[40] – Si veda, tra molti, Frantz Fanon, Pelle nera, maschere bianche, Marco Tropea Editore, 1996 (1952)
[41] – Axel Honneth e la sua rilettura di Hegel e della dialettica del riconoscimento in un contesto post-metafisico e inter-soggettivo. Axel Honneth, La lotta per il riconoscimento, Il Saggiatore, 2002 (1992)
[42] – Si veda Enrique Dussel, Filosofia della liberazione, Jaca Book, 1974 (1973)
[43] – Wang Hui, Il ventesimo secolo della Cina. Rivoluzione, ritirata e ritorno del presente, op.cit.
[44] – Yuk Hui Cosmotecnica, op.cit. Per l’autore cinese, se pure il termine ‘tecnica’ non è presente nel pensiero filosofico tradizionale cinese, questa è sempre stata connessa in modo originale ad un ordine morale e cosmico proprio della sua apertura al mondo. Il testo apre un dialogo proficuo e denso con il pensiero di Martin Hedegger, a partire dalla conferenza del 1953 e del suo riverbero sulla Scuola di Kyoto e la critica daoista alla razionalità tecnica. Questo discorso, nel contesto dell’immediato dopoguerra, risuonava le devastazioni e, in Cina, le ansie suscitate dalla modernizzazione forzata in stile sovietico. Il difetto che Hui vede, includendo anche nella critica le teorie post-coloniali, è che presume la scienza e tecnica come internazionali (ed occidentali), in qualche modo staccate dal “pensiero”. Anche se, come ovvio, la tecnologia in Cina è sempre stata presente (e per millenni anche più avanzata dell’occidente, in sostanza fino al ‘decollo’ inglese del 1800, cfr. Kenneth Pomeranz, La grande divergenza, Il Mulino 2004) il pensiero cinese non si ancora ad un mito come quello di Prometeo – nel quale la ribellione dei titani agli dei porta la tecnologia agli uomini – ma ad un dono che in qualche modo ‘naturalizza il divino’ (Vernant). Questa relazione tra i sistemi tecnici, e le loro applicazioni, e le culture ancorate a visioni del cosmo diverse è ciò che Hui chiama “cosmotecnica”. Secondo una definizione sintetica, “la cosmotecnica esprime l’unificazione tra ordine cosmico e ordine morale attraverso le attività tecniche” (ivi, p.29).
[45] – Ad esempio da Jacques Derrida, per il quale la tecnica occidentale è fondata su un’opposizione originaria (tra physys e thecne) instabile ed arbitraria, una ontoteologia della presenza (cfr. La scrittura e la differenza, Einaudi 1971). Ovvero Jacques Ellul che sottolinea come la tecnica moderna si emancipi dalla dimensione simbolica o cosmologica, diventando sistema autoreferenziale che riduce il mondo a oggetto funzionale (cfr., Jacques Ellul, Il sistema tecnico, Jaca Book, 2009). Possono essere confrontati anche molti autori della Teologia della liberazione, come Enrique Dussel, Leonardo Boff, Gustavo Gutierrez che evidenziano la relazione tra umano e cosmo come intessuta nella cura, la reciprocità e la non-proprietà. La società conviviale di Ivan Illich, o autori fondamentali come Gilbert Simondon che propone un’analisi ontogenetica e non strumentale della tecnica,
[46] – Si veda Eduardo Vibeiros de Castro, che in Metafisiche cannibali, valorizza le cosmologie indigene amazzoniche. In questo testo propone l’adozione del prospettivismo amerindio come strumento per criticare le assunzioni inconsapevoli universalistiche e naturalistiche della antropologia occidentale. Mentre il naturalismo occidentale presume un mondo comune (natura) e molteplici visioni (culture), il prospettivismo amerindio afferma l’opposto: esiste un’unica soggettività (umana) e molteplici mondi. Ne deriva sia una posizione etica, che dichiara la insostenibilità della riduzione del mondo a risorsa, sia, nel momento in cui ogni ente ha una interiorità, volontà ed intenzionalità, le possibilità di pensare ad una cosmotecnica alternativa, radicata in una metafisica della relazione, della reciprocità e della soggettività diffusa.
[47] – Enrique Dussel, Etica della liberazione nella età della globalizzazione e della esclusione, Città Aperta, 2004 (1998)
[48] – “Libertà sociale” è termine hegeliano, qui si fa riferimento alla rilettura di Axel Honneth in Il diritto della libertà. In Lineamenti di filosofia del diritto, Hegel ricorda come “Qui non si è unilateralmente in se stessi, ma ci si limita volentieri in relazione a un altro, e nondimeno in questa limitazione ci si sa come se stessi. Nella determinatezza l’uomo non deve sentirsi determinato, perché solo nel considerare l’altro come altro si ottiene il proprio sentimento di sé” (p.57). Dunque, la cooperazione sociale è la condizione ed il modello della libertà (come vedeva anche il primo Marx i cui attraverso il lavoro tutti diventano legati reciprocamente da rapporti di riconoscimento attraverso i quali confermano a vicenda la propria reciproca dipendenza). Solo nella modalità della rispettiva autorealizzazione i soggetti si completano reciprocamente. Invece, e qui c’è un piano critica della reificazione, attraverso il medium del denaro, al contrario, ognuno si ritrova solo. L’intermediario esterno (Marx, “Appunti su James Mill”) fa perdere di vista anche le relazioni di reciproco riconoscimento e alla fine “ognuno si ritrova solo con sé stesso, come un essere proteso soltanto al proprio arricchimento e al proprio utile” (Marx). Dunque, il capitalismo in cui l’elemento mediatore è la circolazione del denaro, invece della cooperazione, produce l’effetto di relazioni sociali in cui “la nostra reciproca integrazione è soltanto una pura e semplice apparenza, che serve da base al reciproco spogliamento”. Questa critica di fondo permane fino a “Il Capitale” in cui la società capitalista è criticata perché, di fondo, essa “produce l’apparenza materiale di relazioni sociali mediate solo di fatto, che impediscono di scorgere la struttura intersoggettiva della libertà”. Cfr. Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto, Laterza 1999 (ed. or. 1821); Axel Honneth, Il diritto della libertà, Codice 2015 (ed. or. 2011).

Fonte articolo: https://tempofertile.blogspot.com/2025/05/circa-la-tecnica-per-una-fenomenologia.html

1 commento per “Circa la tecnica: per una fenomenologia politica della relazione

  1. Filippo
    2 Giugno 2025 at 18:43

    Non c’entra niente con l’articolo, ma com’è bello vedere qualcuno che lavora con Latex

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