Come la “sinistra” ha sposato la logica e i fondamenti del sistema capitalista


Questa che pubblichiamo di seguito è la relazione di Armando Ermini al convegno svoltosi lo scorso 15 marzo a Roma promosso da L’interferenza dal titolo “Una lettura alternativa della questione di genere. Per una critica di classe del femminismo”.

In questo mio  intervento cercherò di mostrare come l’abbandono da parte della, fra virgolette, sinistra, di ogni critica del capitalismo dal punto di vista delle classi sociali  e l’assunzione esplicita degli argomenti del femminismo contro gli uomini in quanto tali, e dunque lo spostamento del nucleo argomentativo dalle questioni sociali a quelle della dialettica fra i due, sottolineo due, sessi, nonché la sistematica svalutazione  sul piano teorico e pratico, di tutto ciò che tradizionalmente erano attributi e funzioni paterne, coincidano  con la piena accettazione dello spirito del Capitalismo, col suo “begriff” o dirsivoglia  “concetto”, idea fondante,  scopo supremo.

Credo basti ripercorrere brevemente la storia del capitalismo per rendersi conto dei cambiamenti, talvolta eclatanti, che lo hanno attraversato, ma senza che quei cambiamenti intaccassero minimamente il suo nucleo fondante che è nient’altro che la propria “Riproduzione Allargata”, alla quale tutto il resto viene subordinato, piegato ed anche, perché no, utilizzato quando serva allo scopo.

Occorre con ciò riconoscere che il capitalismo è un sistema estremamente duttile. Non avendo principi suoi propri di ordine filosofico e/o religioso a cui attenersi con coerenza, non avendo una propria etica o se si preferisce morale, esso può, di volta in volta e sempre e solo secondo convenienza, assumere le vesti e predicare le idee più contraddittorie. Patriarcale o matriarcale, maschilista o femminista, borghese o antiborghese e così via.

Sono convinto che se non si afferra questa verità si correrà sempre il rischio che la critica al capitalismo sia in perenne ritardo, riguardi le fasi che il capitalismo stesso ha superato sbarazzandosi di tutto ciò che nel tempo è  divenuto non più funzionale, e quindi non centri mai il suo nucleo fondante.

Credo che Luc Boltanski e Ève Chiapello.[1] in Le nouvel ésprit du capitalisme, abbiano ragione quando suddividono la storia del capitalismo in tre fasi principali.  Ogni stadio, affermano i due autori riprendendo una espressione classica della sociologia, è segnato da un corrispondente «spirito del capitalismo». Con questa locuzione i due sociologi intendono avanzare una ipotesi intrigante: il capitalismo sarebbe un sistema a “sovrastruttura variabile”, che si accompagna cioè nella storia a diverse forme di legittimazione ideologica.

Ciascuna fase, tuttavia, si contraddistingue anche per una particolare critica anticapitalistica sprigionatasi in reazione alle asimmetrie politico-economiche del sistema.[2] Nella loro prospettiva  le critiche rappresentano per il capitalismo il principale motore del cambiamento normativo e dello sviluppo, perchè esercitano una funzione di stimolazione in un sistema dinamico come quello capitalistico. In un certo qual modo le critiche sono la  causa efficiente in grado di sollecitare la trasformazione dello spirito del capitalismo permettendogli così di riconfigurarsi mobilitando risorse ed energie rinnovate. Misurarsi con l’ostacolo della critica – che gli consente di sviluppare anticorpi – finisce per rivelarsi un’attività tonificante per il regime capitalistico.

Nel corso del suo sviluppo storico il sistema capitalistico necessita di un ethos, deve munirsi di una giustificazione morale dotata di coerenza per integrare al proprio interno gli individui. Ciascuna fase, tuttavia, si contraddistingue anche per una particolare critica anticapitalistica sprigionatasi in reazione alle asimmetrie politico-economiche del sistema.[3]

Sta di fatto che nella ricerca di nuove fonti di accumulazione il capitalismo dà vita a nuove sintesi attraverso le quali giunge ad appropriarsi del patrimonio di valori in nome del quale era stato criticato nella precedente fase storica, testimonianza del suo polimorfismo e della grande capacità di adattamento .

Le tre fasi del Capitalismo

Tornando a Boltanski e Chiapello, dicevo appunto che  individuano tre fasi dello sviluppo capitalistico, dotata ciascuna di un proprio “Spirito”.

Il primo spirito del capitalismo

Questa  prima fase capitalistica, si conclude  nei primi decenni del Novecento. Il primo spirito del capitalismo, consacrato dal celebre studio di Max Weber, si incentra sulla figura patriarcale del borghese imprenditore. È ispirato da un concetto di vocazione (Beruf) radicato nell’etica del lavoro e del risparmio. Le esigenze di disciplinamento della borghesia richiedono, in questo stadio capitalistico, virtù improntate a uno spirito di sacrificio (ascetismo, parsimonia, moderazione e temperanza, trattenimento dei desideri) che in questo senso appaiono perlomeno “compatibili” con la morale naturale e religiosa. Prende così forma la fase che Augusto Del Noce ha denominato del «cristianesimo borghese», e che in Italia ha avuto in Benedetto Croce il suo pontifex maximus.[4] Si trattava, nondimeno, di un’alleanza non priva di ambiguità, come testimonia l’aspra polemica di Charles Péguy contro la riduzione del cristianesimo a «religione dei borghesi».[5]

Critica sociale e nascita del secondo spirito del capitalismo

Il primo spirito del capitalismo finisce però per suscitare la “critica sociale” di ispirazione sia socialista che marxista. La critica sociale si scaglia contro l’egoismo particolaristico dei ceti borghesi denunciando al contempo lo sfruttamento e la miseria crescenti delle classi popolari.

Il secondo spirito del capitalismo, che conosce la sua fase di pieno sviluppo nel periodo compreso tra il 1930 e il 1960, recepisce le istanze di giustizia sociale e sicurezza avanzate dalla critica sociale.

Nella sua esplorazione in cerca di nuove opportunità di guadagno il capitalismo va incontro a una trasformazione: ora l’accento cade più sull’organizzazione collettiva (la grande impresa centralizzata, razionalizzata e burocratizzata) che sull’imprenditore individuale. Questo secondo modello capitalistico si caratterizza per la razionalità tecnicistico-amministrativa e per la produzione di massa fortemente standardizzata. Acquista importanza la figura del direttore aziendale mosso dalla volontà di perseguire la crescita illimitata dell’impresa.

Nel secondo dopoguerra il capitalismo si modula ulteriormente per adattarsi al compromesso con le richieste provenienti dal movimento socialista e dal mondo operaio. Prende così forma il sistema di garanzie del welfare dove anche all’impresa è richiesto  di collaborare con lo Stato nello sviluppo di un sistema protettivo della vita quotidiana dei lavoratori.

 

Critica artistica e crisi del secondo spirito

 

Questo modello entra in crisi negli anni Sessanta e Settanta scontrandosi con l’individualismo della cosìdetta “critica artistica”, sostengono Boltanski e Chiapello.  La critica artistica , fra i precursori della quale cito, siamo ancora nel XIX secolo,  Charles Baudelaire,  ricusa la subordinazione dell’individuo al collettivo. I temi tipici della critica artistica traggono linfa dalla retorica romantica dell’unicità e dell’autocreazione. A questa si associa una vocazione demistificatrice che spinge ad additare la volontà di dominio celata con ipocrisia dietro il velo della morale borghese. Dell’invettiva si fanno portavoce gli intellettuali “critici”, le avanguardie letterarie e artistiche, in particolare il surrealismo. In stato d’accusa cade l’indole capitalistica alla spersonalizzazione. Sotto lo scacco della critica si trovano perciò l’anonimato, la massificazione e l’inautenticità indotti dal modo di produzione capitalistico.

Con questa seconda forma di critica l’accento della denuncia si sposta. La critica artistica, una manifestazione del rigetto nei confronti della dispersione collettivistica, si concentra sulla conculcazione dell’autonomia individuale, insiste sulla limitazione delle libertà dei singoli, spossessati della propria creatività per essere sottomessi al giogo delle forze impersonali del mercato.

Nella fase finale del secondo stadio – assumendo il 1968 come data emblematica – comincia a consumarsi il divorzio tra spirito religioso e spirito borghese. È ormai propizio il tempo per l’avvento del terzo spirito del capitalismo. Assumono visibilità le prime vestigia di un sistema economico imperniato sull’incremento dei consumi, dove decade la necessità di disciplinare e contenere il desiderio.[6] Il terreno è maturo per la “rottamazione” delle virtù tradizionali. È una metamorfosi descritta con particolare efficacia dalla sintesi di Rodolfo Quadrelli: «Mentre il capitalismo primitivo, fondato sull’ascesi razionalizzata dei vizi spirituali, non poteva permettere lo scatenamento degli istinti sessuali, il nuovo capitalismo, largamente spersonalizzato, può permetterlo; o addirittura, nella sua più recente versione, può raccomandarlo, inteso com’è a liberarsi dalla famiglia e dal risparmio, entrambi potenti remore ai consumi».[7] Si giunge così al terzo stadio o terzo spirito del capitalismo, la mercificazione dell’individualismo.

Il terzo spirito del capitalismo: la mercificazione dell’individualismo

 

Il terzo spirito del capitalismo ingloba e metabolizza le pulsioni libertarie, le spinte trasgressive, antitradizionali e antireligiose del ’68-pensiero; amalgama al proprio interno, neutralizzandole, la critica sociale e quella artistica. Il capitalismo si rivela capace di estrema duttilità riuscendo ad utilizzare la spinta delle due critiche come forza propulsiva. E’ così che lo spirito del capitalismo penetra in settori  precedentemente estranei al grande circuito commerciale (turismo, attività culturali, servizi, tempo libero, cura del corpo, sessualità eccetera) e nella diversificazione dei prodotti, ora sempre più personalizzati. Una volta rielaborate, anche le istanze di autenticità e autonomia individuale vengono mercificate e subordinate alla logica del profitto.[8]

Può essere preso ad esempio di questa nuova fase il gruppo Benetton, che fa della mercificazione e della trasgressione individualistica i propri simboli.  Fin dagli anni Sessanta, infatti, il marchio «tendeva all’anticonformismo (fotomontaggi di Jimi Hendrix, Andy Warhol con addosso la nuova linea Jean’s West, una Laura Antonelli seminuda e un Salvador Dalì che attacca un manifesto in favore dell’aborto)».[9]

Mutano dunque anche i valori della nuova borghesia, ora insofferente a divieti e vincoli morali (va da sé che sarebbe indispensabile, ma non c’è il tempo materiale, discutere su come le tradizionali classi sociali si riconfigurano, al loro interno e nei rapporti con le altre).

Credo sia importante sottolineare e tenere bene in mente il fatto che tanto la morale operaia quanto quella comunista (diciamo meglio dei partiti e movimenti politici che si dichiaravano tali ed avevano come riferimenti politico/ideologici l’Unione Sovietica o la Cina di Mao ) erano, fino ad allora, inconciliabili con l’individualismo e il libertarismo elitario degli intellettuali o sedicenti tali. Tanto meno erano propense alla trasgressione sessuale. Piaccia o meno, erano vicini, in fatto di etica o morale, più alla tradizione  religiosa che ai nuovi valori o disvalori fatti propri dalla nuova borghesia “libertaria”.  Lo erano perché, in certo senso, potevano essere definiti come una sorta di “religione” laica al cui centro c’era la necessità di coesione sociale, ed avevano capito  che tale coesione si poteva ottenere solo con un richiamo di natura, fra virgolette,  “religiosa”, ossia ancorata ad una concezione non individualistica dell’esistenza. Non fu per caso che nientemeno  lo stesso Stalin, durante la seconda guerra mondiale, per tenere unito il popolo russo di fronte all’invasione nazista, fini per utilizzare proprio la fede religiosa ortodossa.

Io sono convinto che, se vogliamo uscire dall’impasse originata dall’uso di categorie politico/ideologiche come destra e sinistra che negli anni hanno mutato di senso, dobbiamo, per così dire, resettarci e iniziare a vedere gli accadimenti del mondo moderno con altri occhi. Porto ad esempio quello che scrisse  il filosofo marxista, e padre di quella corrente politico/ideologica che fu definita “operaismo”,  Mario Tronti, nel suo libro “Dello spirito libero”.   Tronti individua una analogia significativa fra le rivoluzioni conservatrici e quelle operaie (l’Ottobre sovietico). Entrambe, sostiene,  hanno svolto una funzione di Katechon, di freno al dilagare della modernizzazione politica, istituzionale, sociale, tecnologica, ossia,  scrive, All’invasione del Moderno da parte dei barbarici spiriti animali del capitalismo e non perchè la Rivoluzione conservatrice e quella operaia  fossero in sé antimoderne, ma perché, pur senza riuscirci, tentarono …di mantenere nell’atto di rottura con il passato il rapporto con la tradizione. La tradizione – scrive- non è il passato, ma è quello che del passato resta nelle nostre mani irriducibile al presente.  Prima di proseguire, credo sia necessaria una digressione.

Cenno sul ‘68 e sulle sue Illusioni Catarchiche e Rivoluzionarie

Criticando, e spesso anche a ragione, la società di allora, volevamo cambiarla nel profondo ma senza una vera capacità di sostituire i suoi fondamenti con altri davvero solidi. Il 68 ebbe piu anime: una dogmatica (i gruppi marxisti leninisti a cui appartenevo anche io), una più, diciamo così, libertaria. Se per i primi il rischio era quello di una sclerosi che si limitava a ripetere alcune rassicuranti giaculatorie senza capire il senso in cui andava la società, per i secondi, meno dogmatici, il rischio era quello di non capire che il libertarismo, la libertà individuale di essere come ciascuno desiderava essere, combaciava alla perfezione con il nuovo spirito del capitalismo a cui non servivano più gli antichi ancoraggi, divenuti ormai antifunzionali, e di cui liberarsi al più presto.  La lotta contro il Patriarcato, la famiglia, le promozione entusiasta del femminismo, si sono rivelate nel tempo tutte idee in sintonia col nuovo capitalismo,  antiborghese  certo, ma non per questo meno capitalistico. Valga come esempio la parabola di pensiero della mente indubbiamente più brillante di LOTTA CONTINUA, Adriano Sofri, divenuto nel tempo un acceso sostenitore dell’attuale ordine occidental-capitalistico.  Mi fermo qui, perché non è oggetto di questo intervento l’analisi di Lotta Continua, ossia se la sua evoluzione negli anni fino al suo scioglimento, fosse già in “nuce” nei suoi presupposti e se, come ritengo personalmente, esistessero già quei “germi” che, sapientemente alimentati e usati, ne determinarono infine, l’autoscioglimento nel 1976.

Sta di fatto che, con ciò condividendo il pensiero di un marxista eretico quale fu Costanzo Preve[10], possiamo constatare che il capitalismo è diventato transnazionale in economia e progressista, ossia assoluta­mente relativista, edonista e individualista, sul piano culturale. Nel suo movimento alla ricerca continua di nuove occasioni di auto valorizzazione, il capitale ha saturato ogni spazio della vita umana, finora rimasto estraneo al meccanismo del valore. La vita stessa, dal concepimento alla morte, è stata mercificata, come sostenne  Preve, ma come si può leggere anche in tanta letteratura cattolica. È accaduto quindi che quelle istanze che lo limitavano, anche il sistema di valori del cristianesimo e della vecchia borghesia che pure gli erano funzionali in una sua fase, divenissero un ostacolo al suo pieno dispiegarsi.

Abolire l’ordine borghese esistente, fu dunque una parola d’ordine e insieme una speranza che infiammò gli animi dei giovani di quegli anni. Tuttavia era una pretesa illusoria, in nome della quale i movimenti libertari non fecero che fornire alla nuova società dei consumi tutti gli alibi culturali di cui essa aveva bisogno. Così scriveva anche Christopher Lasch, una delle menti più libere e geniali della sociologia americana:

“Sono i fatti a rendere ormai inadeguate le critiche di tipo libertario alla società moderna […]. Sono ancora molti i “radicali” che continuano a dirigere la loro indignata protesta contro la famiglia autoritaria, la morale sessuale repressiva, la censura in campo letterario, l’etica del lavoro e altre istituzioni fondamentali […] che in realtà sono state indebolite o abbattute dallo stesso capitalismo avanzato. Costoro non si rendono conto che la “personalità autoritaria” non rappresenta più il prototipo dell’uomo economico. L’uomo economico è stato a sua volta sostituito dall’uomo psicologico dei giorni nostri – il prodotto finale dell’individualismo borghese.[11]

Sopra queste rovine si sarebbe edificata l’attuale società permissiva dominata dal paradigma della “liquidità” dei valori e dei rapporti interpersonali. La “liquidazione” di ogni identità personale avrebbe condotto a un mondo contrassegnato dalla perfetta intercambiabilità degli individui. Si apriva così la strada alla “funzionalizzazione” degli esseri umani, determinati cioè solo dalla funzione assolta.[12]

Credo che se all’epoca fosse difficile accorgersi di ciò che stava accadendo, oggi ci sono tutti gli elementi per afferrare il senso di quei fenomeni. Rimpiangere quel tempo, non volerlo riconsiderare alla luce di ciò che realmente è accaduto non per rinnegare alcunchè ma per cercarne il senso autentico,  significa incapacità a mettersi in discussione, ma soprattutto essere funzionali al camaleontico capitalismo ed alle sue trasformazioni.

E del resto, l’evoluzione in senso “libertario” del capitalismo era già stata genialmente anticipata da un certo Karl Marx, che ne “La miseria della filosofia” ebbe a scrivere:

“Venne infine un tempo in cui tutto ciò che gli uomini avevano considerato come inalienabile divenne oggetto di scambio, di traffico, e poteva essere alienato; il tempo in cui quelle stesse cose che fino allora erano state comunicate ma mai barattate, donate ma mai vendute, acquisite ma mai acquistate – virtù, amore, opinione, scienza, coscienza, ecc. – tutto divenne commercio. È il tempo della corruzione generale, della venalità universale, o, per parlare in termini di economia politica, il tempo in cui ogni realtà, morale e fisica, divenuta valore venale, viene portata al mercato per essere apprezzata al suo giusto valore”.

Credo, e termino questa parte sul 68,  che ad esso ed alla sua epoca, ben si attaglino le parole di Augusto Del Noce, per il quale il ‘68  fu una “rivoluzione intraborghese” , che in definitiva contribui al rinforzo ed alla modernizzazione del capitalismo piuttosto che al suo superamento.

Femminismo e Capitale

Ho finora cercato di evidenziare la grande capacità del capitalismo di reinglobare, e addiritutta utilizzare per il proprio sviluppo, i movimenti che a vario titolo avanzavano istanze, almeno nelle intenzioni, ad esso estranee quando non direttamente contrastanti. Fra di essi è da annoverare il femminismo, sia quello dell’uguaglianza, sia quello della differenza, come ho cercato di fare su Il Covile

Poichè non c’è tempo per gli approfondimenti che pure sarebbero necessari, mi limiterò ad alcune osservazioni, diciamo così, lapidarie, rimandando chi fosse interessato al mio articolo citato sopra.

Parto allora dalla constatazione che, per esplicita ammissione di importanti esponenti femministe quali Muraro e Dominijanni, stiamo vivendo in epoca Post-patriarcale (su cosa sia stato davvero il  Patriarcato scrivo  sul mio libro “La questione maschile oggi”, reperibile anche in rete su Il Covile). Contemporaneamente, però, il nostro tempo è anche quello in cui   a) il sistema capitalistico, sia pure con differenze interne, è esteso a livello planetario, b) la figura paterna e il suo simbolismo sono, per così dire, evaporati. c) l’influenza politica e culturale del femminismo è crescente.  Ciò significa semplicemente, come già detto e senza timore di smentite, che il capitalismo è un sistema estremamente duttile, riuscendo a piegare al  (e utilizzare per il)  suo scopo supremo e unico, la propria riproduzione allargata, tutte le istanze che almeno in teoria volevano contrastarlo.

Il femminismo può essere suddiviso, con varianti interne, nei due grandi filoni del “femminismo degll’uguaglianza” e del “femminismo della differenza”.

Entrambi i femminismi sono accomunati dalla convinzione che le donne sono sempre state oppresse, e si propongono lo scopo di renderle libere, quantunque la libertà possa essere declinata in modi diversi; a) libertà di costruirsi un proprio progetto di vita (ma in tal caso ci sono gli stessi limiti materiali degli uomini), b) sganciamento da ogni determinazione naturale del corpo, c) agire in positivo per le donne  ma anche in negativo contro gli uomini artefici dell’oppressione, d) assegnarsi una missione liberatrice universale di cui potrebbero godere anche gli uomini.

Entrambi i femminismi spostano l’attenzione dalle contraddizioni sociali e di classe a quella fra i sessi, e mentre le prime rimangono sullo sfondo, emerge come contraddizione principale quella maschio/femmina. E dunque la ricca borghese con tanto di servitù alle proprie dipendenze viene da questo punto di vista accomunata alla donna proletaria o sottoproletaria: un modo palese per deviare l’attenzione dalle questioni sociali ed un perfetto assist per il sistema capitalistico, che si gioverà a piene mani di questo spostamento.

Femminismo dell’uguaglianza

a sua volta suddivisibile nei filoni liberal/individualista e “di classe di ispirazione marxista”.

Entrambi rifiutano il legame fra psiche e corpo e  considerano le identità femminili e maschili come costruzioni sociali. Si parla perciò di “generi” piuttosto che di “sessi”. Le concezioni del filone liberal (nato negli Usa) sono state fatte proprie dall’ONU, dall’UE e dalle relative ONG, che si adoperano affinché diventino la base educativa dei programmi scolastici. I suoi legami coi governi occidentali, con le Organizzazioni Internazionali e con le grandi aziende multinazionali sono bene documentate, come scrive Alessandra Nucci ne “La donna a una dimensione, Femminismo Antagonista ed egemonia culturale” (Marietti 1820, 2006). Per la Nucci, questo femminismo è stato elaborato a tavolino da un’elite intellettuale, e non si propone di conoscere e favorire la volontà femminile, bensì di influenzarla e incanalarla per scopi alle volte contrari all’interesse delle donne, con lo scopo, leggiamo nell’abstract del libro, di promuovere una società pianificabile, fatta di una moltitudine atomizzata di persone poco interessate ad appartenersi l’una all’altra… . L’assunto fondamentale di tale concezione è che maschi e femmine avrebbero gusti, passioni, inclinazioni e predisposizioni identiche, che solo la cultura patriarcale e sessista non farebbe emergere. In coerenza con tale concezione, non solo ci si disinteressa delle differenze di censo  e di classe, ma viene osteggiato ogni provvedimento teso a proteggere le donne, compresa la tutela alla maternità, considerati residui patriarcali e paternalisti.  Coerentemente si lotta contro ogni differenza ovunque si manifesti e si punta, anche mediante “discriminazioni positive” a promuovere ovunque la piena parità maschi/femmine. Inutile osservare, sarcasticamente, che non risultano rivendicazioni femminili per quote rosa in miniera o in altoforno o in prima linea. Il punto è che, dice ancora la Nucci, che si vuole riscrivere completamente la storia come Oppressione Maschile verso le donne, assumendo con ciò (è ancora la Nucci che scrive) il controllo dell’etica, ovvero della possibilità di stabilire ciò che è giusto… . E’ esattamente ciò che l’amico Rino Della Vecchia chiama “La Grande Narrazione Femminista”, ove non conta la verità dei fatti, la logica o il principio di non contraddizione, ma solo quello di Utilità.

Logico allora che il “femminismo di classe” o “di sinistra” muova alcune obiezioni, fino a far scrivere a Nancy Fraser (sul Guardian, nel 2013) che la critica del sessismo è diventata una giustificazione a nuove forme di disuguaglianza e sfruttamento, e che il femminismo è diventato “ancella del capitalismo”, o meglio del nuovo capitalismo “disorganizzato, globalista e neoliberista”, e ciò perché criticando il salario familiare in nome dell’emanicipazione e del diritto al lavoro, ha finito per legittimare il capitalismo flessibile, criticando il paternalismo dello Stato Sociale ha favorito l’abbandono da parte dei governi dei programmi tesi a combattere le povertà.

Mi fermo qui per ragioni di spazio, andando ora vedere qualcosa circa il…

Femminismo della Differenza

Anche di questo femminismo esistono più versioni. Una, dozzinale e inconsistente sul piano teorico e pratico che legge la differenza nel senso di gerarchia etica e morale ed anche di capacità razionale, ossia di intelligenza, fino a dire non solo che le donne sarebbero per loro natura predisposte alla non violenza, alla pace, alla cooperazione anziché alla guerra, all’accoglienza invece che all’esclusione, ma anche che il loro cervello funzionerebbe meglio, sarebbero cioè complessivamente piu intelligenti degli uomini (fra parentesi, lo scrive anche il prof. Veronesi). Ne discende che un mondo governato dalle donne sarebbe un nuovo Eden, ma soprattutto da queste concezioni emerge un inedito razzismo di genere, che imprime agli uomini uno stigma inemendabile. Idee che grazie ad una incessante opera di propaganda mediatica e culturale (si veda Il Covile n. 357 un mio articolo dal titolo I maschi, l’ultima porta, a sinistra), sono penetrate in larga parte dell’universo femminile ma anche in quello maschile, come sottolinea ancora Alessandra Nucci, allo scopo di disgregare ogni spirito di solidarietà fra i due sessi. Esiste però anche un femminismo della differenza che possiede dignità culturale e da prendere in  considerazione. Ne sono esponenti, fra le altre, Luisa Muraro e Luce Irigary.

Il punto di partenza, sicuramente condivisibile, è la constatazione che maschi e femmine sono portatori di istanze, modi di essere e di pensare non riducibili l’uno all’altro. Senonchè, tutto quanto è femminile sarebbe  stato emarginato e soffocato dal patriarcato, sistema che precede il capitalismo che ne sarebbe solo una variante. Luisa Muraro (esponente della Libreria Delle Donne di Milano e membro della comuità filosofica femminile Diotima) per sottolineare la differenza femminile, scrive (vedi SNOQ Intervento di Luisa Muraro) che nella politica delle donne il primo posto viene dato alla pratica del partire da sé […] Il partire da sé è un pensare non in base ad una rappresentazione ma ad un rapporto vissuto personalmente […] io dove sono, che cosa desidero […] il personale è politico, non c’è separazione fra pubblico e privato[…]. Il femminile  implica quindi un elevato grado di soggettività nell’approccio alla conoscenza. Un approccio opposto a quello maschile che, almeno nelle intenzioni intende oggettivizzare la conoscenza, separarla dal sentire personale, separarsi dall’oggetto di conoscenza, dividerlo e poi ricomporlo alla fine completo dei nessi logici fra le sue parti. Per C.G. Jung le conoscenze della coscienza matriarcale non sono indipendenti dalla personalità che le sperimenta […] poiché essa mantiene il legame con quelle zone dell’inconscio da cui quelle derivano. Quindi possono essere spesso in contrasto con il conoscere della coscienza maschile fatto di contenuti consci […] dotati di generale indipendenza dalla personalità.

Credo di poter affermare che le due modalità di conoscenza maschile e femminile abbiano entrambe pregi e difetti. Se il pregio del maschile è l’oggettività (almeno nelle intenzioni) il difetto è la possibile astrattezza e rigidità. Se il pregio del femminile è una partecipazione totale, intellettuale ed emotiva, alla conoscenza, il difetto è la facilità con cui può cadere nel soggettivismo  più spinto, ossia in una sorta di narcisismo, accusa che la Irigary rivolge inopinatamente contro gli uomini quando, semmai, è vero il contrario. Ed allora perché, prendendo atto delle differenze, non utilizzarle per completarsi (ed anche limitarsi) a vicenda, anziché farsi la guerra in nome di una inesistente superiorità? Perchè non integrare anche materno e paterno, utilizzando i pregi di entrambi?  Non così la pensa la già citata Muraro, per la quale (in ciò differenziandosi dalla Irigary per la quale “i principi dell’essere e della simbolizzazione” sono due, materno e paterno, entrambi non sacrificabili),  non c’è che un solo principio, quello materno, come nota Francoise Collin in Il pensiero della differenza. Nota su Luisa Muraro. Ancora la Muraro:  Quando nel libro compare, il padre è l’uomo che si affianca alla donna e alla sua maternità, e che lei indica ai suoi figli […] In altre parole io non trovo nessuna ragione per difendere la necessità del padre, della legge del padre[…]. Insomma viene sancita l’insignificanza della figura paterna, ridotta a puro ausilio della madre. L’ordine simbolico della madre auspicato dalla Muraro significherebbe però la regressione all’indistinzione originaria tipica del rapporto simbiotico madre/bambino, orientato all’autosufficienza, alla soddisfazione illimitata del bisogni. Scrive un autore insospettabile come Massimo Recalcati la condizione strutturale per accedere al desiderio implica un divieto di accedere al godimento assoluto della Cosa (in Cosa resta del padre? La paternità nell’epoca ipermoderna, Raffaello Cortina Editore, 2011).

Il nostro tempo è anche quello in cui la figura paterna è, per così dire, evaporata e messa in secondo piano rispetto a quella materna.  In cui, anzi, il padre e la sua “legge” sono posti sul banco degli imputati come simbolo dell’oppressione. Occorre allora spendere qualche parola per fare chiarezza sul rapporto fra maschilità e paternità.

Virilità o virilismo?

Luigi Zoja, nel suo saggio Il gesto di Ettore, provvede a ricordare che la genesi della società umana coincide col momento in cui l’uomo si rivela in grado di comporre in equilibrio il polo del maschio (la parte aggressivo-istintuale che l’uomo condivide col mondo animale) col polo del padre: la facoltà raziocinante, progettuale e autolimitante, capace di portare a domesticazione l’istinto predatorio dei bruti.

Enea fugge da Troia non per vigliaccheria, ma per salvare i propri congiunti. Si può in lui identificare il simbolo della pazienza, della prudenza paterna disposta a differire il soddisfacimento immediato dell’istinto di aggressività. Solo così Enea può proteggere la vita altrui sottraendo la propria famiglia da rovina e morte sicura.

Enea è ben diverso da Achille, l’ eroe guerriero, feroce e prepotente, simbolo del maschio aggressivo che vive per l’ebbrezza dell’istante, per la gloria, la fama e l’istinto,  icona della condizione antipaterna, pre-civile, dell’orda anonima di maschi in lotta. Egli si innalza alla maniera di certi maschi animali, che si gonfiano prima del duello per mostrarsi alla vista dell’oppositore. La sua fama deve essere costantemente riconosciuta perché il suo «ego» è tanto fragile da non poter sopravvivere senza pubblico attestato. Come Enea, Ulisse è piuttosto un Achille pacificato. Non senza un duro confronto con l’«avversario interiore» – scontro raffigurato dal lungo e periglioso vagare attraverso le insidiose liquidità marine – l’Odisseo è riuscito a equilibrare le spinte aggressive e istintuali col raziocinio. In lui il pensiero non è più pulsione primordiale ma, prima di tutto, autodisciplina. Perciò può essere trattenuto.

I due, Achille ed Ulisse, non potrebbero essere più distanti. Achille è personificazione del virilismo. violento e impaziente, il suo agire è impulsivo. Ulisse è invece personificazione della virilità, e della paternità.  Forte e paziente, sa attendere il momento più propizio per agire. È questo sapersi con-tenere a renderlo capace di donare con generosità la propria vita per far crescere quella altrui, cosa inconcepibile per il narcisismo individualistico e immaturo simboleggiato da Achille.

Ne discende che la sottovalutazione della paternità, della sua legge ed anche dei limiti che impone, lasciano il campo libero a una maschilità immatura e puramente istintiva. Questa sarebbe anche la conseguenza logica del “ritorno alla madre” e dell’insignificanza del padre come teorizzato dalla Muraro. Siamo cioè all’interno  dell’ordine logico e filosofico del nuovo capitalismo, regolato sul concetto di illimitatezza. 

Non fraintendiamoci. L’esistenza e la legittimità di un ordine simbolico materno/femminile non è mai stata messa in discussione, neanche nelle forme “oppressive” del patriarcato. Anzi, è sempre stato riconosciuto che l’affermarsi del codice affettivo materno è  insostituibile per la vita del bambino, donandogli sicurezza affettiva, materiale, e appagamento di ogni bisogno. E’ dunque necessario che la simbiosi madre/bambino prosegua nei primi tempi della vita dell’infante, avendo però sempre ben presente che quel rapporto è ambivalente, nel senso, scrive lo psicanalista Franco Fornari, che durante il parto la madre oscilla fra il timore di morire e quello di far morire il figlio, mentre il bimbo sperimenta l’angoscia della perdita della beatitudine onnipotente provata nella vita intrauterina.  A ciò provvede il padre,  assumendosi il compito di ammortizzatore e mallevadore. Quello stesso padre, però, dovrà in seguito essere anche colui che opera la separazione fra madre e figlio, colui che dovrà rompere quella simbiosi che diverrebbe regressiva e psichicamente mortifera. Simbiosi che, da soli, né il bimbo né la madre sono in grado di rompere. La dinamica individuale descritta da Fornari vale anche quando ci trasferiamo sul terreno transpersonale, descrivendo essa gli stadi di sviluppo dell’umanità dalla situazione originaria dominata dall’inconscio, dall’indistinzione fra l’io e il tu, fra l’uomo e il cosmo cicostante, che Erich Neumann definisce partecipation mistique, a quella dell’emersione progressiva della coscienza egoica, in altre parole della cultura. Se dunque coi termini Patriarcato e Matriarcato non intendiamo tanto una struttura sociologica, quanto invece la dominanza dell’archetipo paterno o materno, emerge allora che il patriarcato ha avuto una funzione emancipativa per l’umanità (quindi anche per il femminile), quali che siano stati i suoi eccessi. Il che non significa rinnegare il rapporto positivo con la madre, bensì staccarsi dalla totalità originaria e sperimentare il lato della coscienza, che anche la donna vive come simbolicamente maschile.  E dunque, l’ordine simbolico della madre auspicato dalla Muraro, in assenza di un ordine simbolico del padre, significherebbe la regressione all’indistinzione originaria tipica della simbiosi  madre /bambino, autosufficienza, onnipotenza, soddisfazione illimitata del bisogno.  La post-modernità è il tempo dell’eclissi del simbolismo paterno, che ha effetti nefasti anche sul piano sociologico. Scrive Giancarlo Ricci ne Il padre dov’era (Sugarco Edizioni 2013) che anche la legge si maternizza, per così dire, e celebra il trionfo di un godimento smarrito, barattandolo con un concetto di libertà e di emancipazione in cui tutto è permesso. Tutto ciò corrisponde alla logica del capitalismo attuale, emancipato dai fastidiosi limiti esterni che gli ponevano, nelle prime fasi del suo sviluppo, l’esistenza di una religione del padre e quella delle classi, che per quanto contrapposte e in lotta fra di loro, avevano, anche la stessa borghesia, una loro weltanschaung opposta o solo parzialmente sovrapponibile a quella del capitale. Verità soggettiva, illimitatezza e libertà del desiderio, ritorno alla madre e rifiuto del limite paterno, così le rivoluzioni femministe e sessantottine sono diventate funzionali alla logica de-emancipativa  del capitale. De-emancipativa nel senso di favorire la regressione del soggetto all’indistinzione delle origini per reimmergerlo in uno stato di “unificazione mistica” col cosmo nella quale sbiadiscono e si perdono le differenze. Termino lasciando parlare ancora Alessandra Nucci.

Il pensiero femminile quindi serve a veicolare […] anche un modo di pensare che corrisponde ad una filosofia totalizzante, ovvero al modo olistico di vedere il mondo come un tutto unico, in cui l’umanità è posta sullo stesso livello delle piante e degli animali e il raziocinio è secondario all’emozione, Questo corrisponde alla corrente di irrazionalismo neo-romantico femminista e New Age, che celebra la sorellanza mistica fra le donne di tutto il mondo. In virtù cioè dell’appartenenza al genere femminile, le donne che si mettono in sintonia colla natura supererebbero le barriere etniche e linguistiche per intendersi automaticamente e in quasi arcadica armonia sui temi della pace, dell’ambiente, della legalità ecc.

Il che, chioso, non solo non corrisponde alla realtà dei fatti, ma soprattutto è lo stesso programma del capitalismo globalizzato che intende unificare anch’esso il mondo, ma sotto la forma merce.

 


[1]             Luc Boltanski-Ève Chiapello, Le nouvel ésprit du capitalisme, Gallimard, Paris 2011.

[2]             Sulla dialettica capitalismo-anticapitalismo si può vedere, con alcune riserve, Luciano Pellicani, Anatomia dell’anticapitalismo, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2010.

[3]             Luciano Pellicani, cit..

[4]             Cfr. Augusto del Noce, La morale comune dell’Ottocento e la morale di oggi, in L’epoca della secolarizzazione, Giuffrè, Milano 1970.

[5]             Charles Péguy, La nostra giovinezza, Editori Riuniti, Roma 1993, p. 98.

[6]             Simone Weil ha scritto pagine illuminanti sulla distinzione tra bisogno e desiderio. Il bisogno ha un limite nella sazietà. Viceversa, lo scatenamento del desiderio non ne alcuno: «Un avaro non ha mai abbastanza oro, ma per ogni uomo cui venga dato pane a volontà verrà il momento della sazietà. Il nutrimento porta alla sazietà». (Simone Weil, La prima radice, Mondadori, Milano 1996, p. 22).

[7]             Rodolfo Quadrelli, Il Paese umiliato, Rusconi, Milano 1973, p. 30.

[8]             Sulla vocazione artistico-estetizzante del nuovo capitalismo cfr. Gilles Lipovetsky, Jean Serroy, L’estetizzazione del mondo. Vivere nell’era del capitalismo artistico, Sellerio, Palermo 2017.

[9]             Natalia Aspesi, Quarant’anni di Benetton, «La Repubblica», 27 agosto 2006.

[10]        Si vedano in particolare i numeri 799, 804, 808 e 818 del Covile, ed anche, per un punto di vista da sinistra dello stesso fenomeno, il n. 797.

[11]          Christopher Lasch, La cultura del narcisismo, Bompiani, Milano 1981, p. 10.

[12]          «Determinare una cosa in virtù delle sue funzioni – osserva Robert Spaemann – equivale in linea di principio a renderla sostituibile con equivalenti funzionali». È caratteristica del funzionalismo «la convinzione che le cose e le persone siano intercambiabili». (Robert Spaemann, Per la critica dell’economia politica, FrancoAngeli, Milano 1994, p. 44)

Fonte foto: Ruralpini (da Google)

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