Pubblichiamo in anteprima assoluta un brano tratto da Antonio Martone, Progetto Aleph (in via di pubblicazione). Riguarda una distopia ambientata nel 2060 e che ha al suo interno ampi passaggi sulla involuzione dell’Università. In questi tempi di ultracapitalismo, almeno per quanto riguarda l’occidente, esso pone seri interrogativi sulla conservazione di un sapere critico, soprattutto nel campo delle scienze umane e dell’analisi filosofica. Già oggi possiamo osservare: l’involuzione dell’Università verso un modello mutuato dal mondo dell’impresa in cui solo la produttività è imposta come l’unico credo possibile, la china scivolosa costituita dalla privatizzazione del sapere e della chiusura verso qualsiasi alternativa che non sia quella indicata dalle cosiddette ‘riforme’, il proliferare delle Università telematiche in cui cessa ogni relazione diretta tra docente e discente con l’accademia ridotta ai soli amministratori, l’estrema burocratizzazione di ogni passaggio misurato in crediti, debiti, indici, valutazioni, misurazioni spesso fallaci come vuota è diventata persino la parola “eccellenza”, e sullo sfondo la minaccia dell’Intelligenza Artificiale che, ben istruita dal sistema, potrebbe rivelarsi il nuovo docente universale a-critico replicandosi in infinite copie tutte identiche. In un luogo ormai vuoto, in cui i docenti sono ridotti a meri burocrati, dove è finito il dibattito alla Tavola Alta in cui scienze umane e scienze esatte costruivano, con un serrato dibattito critico, l’alleanza per la comprensione del mondo?
(…)
Della
Prima Guerra Accademica si parla poco. Non perché sia stata
meno violenta delle altre, ma perché si combatté in silenzio, senza
proclami, senza divise e senza martiri. Si svolse nei corridoi dei
finanziamenti, nei bandi ritirati all’ultimo momento, nei progetti
sabotati per “insufficienza di impatto”. Accadde tra la fine del
XX secolo e i primi decenni del XXI, quando il sapere cominciò a
essere misurato con nuovi strumenti. Il valore accademico fu
subordinato all’indicizzazione algoritmica, la ricerca alla
produttività, la libertà all’utilità.
S’impose
un principio che, a partire da un certo punto, nessuno osò più
contestare: un’idea è vera solo se produce ricchezza. Fu
esattamente in quel periodo che i Dipartimenti umanistici iniziarono
a perdere terreno. I filosofi furono invitati a “ripensarsi come
comunicatori trasversali”, gli storici a “rielaborare contenuti
adatti alle piattaforme brevi”. La letteratura fu riconvertita in
storytelling motivazionale. Le biblioteche cominciarono a
chiudere. Si disse che era per digitalizzare, ma nessuno archiviò
nulla: si stava smantellando un’intera memoria di un barbarie
plurisecolare. Il colpo finale arrivò quando gli editori accademici
divennero imprese di dati e il sapere fu trasformato in proprietà
intellettuale soggetta a licenza.
Tutto
lasciava presagire si trattasse di un’epoca di conquiste. Si
moltiplicavano le campagne per i diritti, si parlava di inclusione,
di parità, di pluralità. Ma dietro le parole d’ordine si celava
un’altra operazione: disgregare ogni appartenenza, rendere
instabili le identità, scollegare gli individui da ogni continuità
storica, familiare, simbolica. Le ideologie della liberazione vennero
sistematicamente assorbite dal linguaggio del management. Il
femminismo istituzionale e l’attivismo LGBT furono impostati come
dispositivi normativi, utili a sciogliere le strutture solide della
società.
La
famiglia fu descritta come ostacolo alla realizzazione individuale,
l’identità come gabbia, la stabilità fu guardata come un residuo
di reazione. A ognuno fu offerta la libertà di scegliere, purché
scegliesse da solo, ogni volta da capo, sotto l’occhio vigile del
sistema. Si trattava di indebolire i legami, rimuovere le eredità,
trasformare le persone in unità desideranti, mobili, flessibili,
prive di radici e dunque perfettamente assorbibili nella logica del
consumo.
Fu
in quel momento che si decise, senza dichiararlo, che l’università
non avrebbe più formato coscienze, ma offerto servizi. Le discipline
che ancora si ostinavano a porre domande inutili – sulla giustizia,
sulla verità, sulla crisi dell’uomo – furono progressivamente
marginalizzate.
La
Prima Guerra finì senza che nessuno se ne accorgesse. Quando ci si
voltò, tutto era cambiato. Il sapere era ancora lì, ma svuotato. I
concetti c’erano, ma non significavano più niente. Nomi antichi
come “comunità”, “natura”, “legame”, “tradizione”
erano stati rimossi dai glossari ufficiali, o riscritti in una lingua
nuova, irriconoscibile. Chi provava a recuperarli veniva considerato
non pericoloso, ma irrilevante.
La
Seconda Guerra
scoppiò quando alcuni Paesi tentarono di reintrodurre il concetto di
formazione critica.
Accadde attorno al 2041, in quello che i manuali ufficiali chiamano
Il Ciclo delle Contestazioni
Intrasistemiche. Studenti e docenti di
diversi paesi cercarono di recuperare un’idea di università come
luogo di libertà: chiedevano più tempo e più silenzio. Le proteste
iniziarono con assemblee lente, letture pubbliche di testi banditi,
corsi paralleli sui margini di contestazione del sistema. Le grandi
holding cognitive
reagirono però con misure drastiche: furono implementati i primi
Firewall Ontologici,
strumenti che impedivano la diffusione di concetti non autorizzati. I
linguaggi “non funzionali” vennero filtrati. I contenuti
filosofici che non contribuivano direttamente all’innovazione
applicata vennero marcati come rumore
speculativo. La repressione fu assai
sofisticata: non ci furono arresti, ma declassamenti algoritmici. Gli
studiosi dissidenti vennero rimossi dal sistema di citazioni, espulsi
dai motori di ricerca, ridotti a fantasmi cognitivi. Alcuni centri di
ricerca, per salvarsi, si auto-trasformarono in startup etiche. I più
radicali si estinsero.
La
Terza Guerra
fu brevissima. La chiamarono La grande
Conversione. Non durò più di nove
mesi, ma fu totale. I resti della vecchia accademia vennero inglobati
nei Sistemi di Gestione del Sapere
Globale. I professori divennero
facilitatori di apprendimento sincrono,
gli studenti unità cognitive dinamiche.
I corsi di filosofia vennero sostituiti da simulatori etici. La
filologia, da secoli considerata custode delle radici linguistiche,
fu integrata nei protocolli di riconoscimento vocale.
Ogni
corso passò sotto il vaglio delle Griglie
di Rilevanza Applicativa. Si introdusse
un indicatore di monetizzabilità
potenziale per ogni enunciato. Chi
superava una certa soglia poteva accedere a fondi, visibilità,
pubblicazione immediata. Gli altri venivano archiviati in cluster
di contenuti nostalgici, un limbo
inaccessibile di testi antichi e menti non allineate.
Solo pochi
resistettero. Si riunirono in celle sotterranee rispetto al sistema,
nelle zone d’ombra delle reti. Alcuni, per occultarsi, parlavano
ancora latino. Altri usavano diagrammi silenziosi, sistemi simbolici
non traducibili.
Nessuna
delle tre guerre fu mai riconosciuta ufficialmente in quanto tale. Le
chiamarono “riforme”, “transizioni”, “processi di
aggiornamento.” Ogni volta che una guerra finiva, tuttavia,
qualcosa era scomparso. Un vocabolario, una categoria, una domanda
che nessuno si sarebbe più posto.
L’Archivio
B nacque durante la Terza Guerra Accademica. In quegli anni, i
materiali considerati “eccentrici”, “poco performativi” o
“non integrabili nei moduli esperienziali” venivano segnalati per
la dismissione. Ma tra gli archivisti c’era ancora chi esitava. Non
tutti erano pronti a incenerire senza guardare. Così fu creato un
deposito provvisorio, un’area grigia nel sistema, tecnicamente
esistente ma fuori rete. Una vera e propria zona d’ombra. Lì
finivano schede manoscritte, carte marginali, tesi non allineate,
corrispondenze con autori ostracizzati, edizioni non digitalizzabili.
Lo chiamarono Archivio B. Nessuno ne parlava nei rapporti ufficiali.
Era un’anomalia tollerata perché pressoché invisibile. I
supervisori lo ignoravano, convinti che fosse destinato a spegnersi
da solo, come una propaggine esausta del vecchio sapere. Ogni tanto,
durante le operazioni di “pulizia culturale”, qualche assistente
mandava giù dei faldoni, per alleggerire il peso delle scelte.
Col
tempo, l’Archivio B cominciò a vivere di una vita propria. Non
produceva nulla, non pubblicava, non condivideva. Si limitava a
conservare. Quando la Terza Guerra raggiunse il suo apice – con
l’istituzione dei Comitati di Revisionismo Didattico e la
trasformazione dei Dipartimenti in piattaforme di contenuti –
l’Archivio divenne un cimelio storico vero e proprio.
Fu
in quel periodo che inviarono giù anche lei, la Dott. Elena, con un
incarico formale da bibliotecaria. Nessuno la voleva nei
Dipartimenti: parlava poco, non sapeva gestire i codici valutativi,
non capiva le logiche del peer-ranking. Aveva pubblicato una
monografia inservibile sul concetto di forma in Aristotele, e durante
un workshop aveva detto ad alta voce che la “decostruzione
permanente le sembrava un’operazione da ragionieri della crisi”.
Dopo una breve inchiesta interna, il Comitato Etico la dichiarò “non
pienamente convergente”, proponendola, nel contempo, a una sede
marginale. Scelsero l’Archivio B.
Scese
senza protestare. Non chiese spiegazioni. Portava con sé un thermos,
alcune matite, un’agenda senza data. Trascorreva le giornate a
riordinare, senza criterio apparente, i fascicoli dimenticati. Ogni
tanto lasciava biglietti tra le pagine, senza firma. Alcuni pensavano
che fosse folle. Altri, che fosse semplicemente rimasta indietro.
Elena sapeva però riconoscere le voci, gli odori della carta, i
segni a margine. Aveva una fedeltà interiore che il sistema non
poteva computare, e forse per questo era stata inviata lì: come si
fa con ciò che non si può distruggere, ma neppure si vuole vedere.
Nel
nuovo assetto dell’università – ormai del tutto riconvertita in
hub formativo-psicopedagogico – l’Archivio B fu classificato come
“non conforme ma inerte”. Una categoria intermedia, utile per
evitare la rimozione forzata. Quando la Quarta Guerra cominciò,
l’Archivio era già considerato un corpo decrepito di un passato
fortunatamente scomparso.
I
corridoi dei Dipartimenti umanistici erano vuoti da mesi. Le aule
disertate, le biblioteche disabitate. Essendo un luogo trascurato,
senza valore di scambio, l’Archivio B aveva resistito più a lungo.
Poi, all’improvviso, iniziò la Quarta Guerra accademica. Le alte
sfere, il Rettore d’intesa con il Ministro, dichiarono che quella
doveva essere anche l’ultima.
(…)
Merton College, Oxford