Primo Levi e Federico Caffè


Ci sono passaggi storici segnati da eventi che svelano il significato della trasformazione storica in atto. Tali avvenimenti oggi sono occultati dall’esemplificazione e dal nuovo fascismo mediatico con il suo “catechismo omologante”. É rassicurante espellere dalla storia il dramma, rende la storia priva di densità di significato, elimina l’umanità con il carico greve di dubbi e domande per prediligere l’abbaglio ideologico della facile comprensibilità. Nella storia senza drammi non vi sono dubbi, non vi sono domande e specialmente non vi sono denunce che invitano alla prassi. Vi sono eventi che devono essere ricongiunti, affinché la verità si dia nella sua tragica evidenza.

Primo Levi e Federico Caffè si sono tolti la vita in date prossime il primo l’11/4/1987, il secondo il 15/4/1987, pochi giorni separano il suicidio di Levi e la scomparsa misteriosa di Federico Caffè, l’ipotesi più accreditata per quest’ultimo è il suicidio, e comunque  Federico Caffè ha deciso di morire al mondo. Le due uscite di scena  possono essere lette come fossero avvenimenti separati, o si può cercare una spiegazione che vada oltre le interpretazioni descrittive e astratte. Spesso sociologi e psichiatri intervistati per spiegare la loro scomparsa si sono limitati ad utilizzare la categoria della depressione che, allora come oggi, è applicata per giustificare tragedie di ogni genere. Solitamente  omettono per formazione o perché organici al sistema, un dato storico inaggirabile, ovvero che la depressione è parte di un sistema sociale che produce reificazione e tragedie. Essa è l’effetto di un dramma storico e di politiche che non rispondono alla natura umana nella sua valenza etica e razionale. La depressione  è il disvelamento della violenza del capitale, è la sua verità. Vivere in un sistema disumanizzante, in cui l’unico paradigma è il plusvalore nella forma del denaro e del piacere può provocare smarrimento quotidiano che può determinare l’uscita tragica da una condizione subita, in cui ci si sente superflui. La consapevolezza della disumanità del sistema è causa di sofferenze psicologiche inaudite.

Gli anni ottanta del “Secolo breve” con la Milano da bere sono stati gli anni del passaggio da una riflessione collettiva tormentata e dialettica al rifiuto di ogni impegno civile, fino alla rincorsa verso l’individualismo edonistico. La mutazione antropologica ed etica causata dal capitalismo già globalizzato ed imperiale spazzava via ogni contenuto etico e ogni riflessioneonto-assiologica, al loro posto solo le miserie dell’abbondanza. Godere ed arricchirsi erano gli imperativi di quegli anni, come nel nostro tempo genocidiario. Il suicidio di Primo Levi e la scomparsa di Federico Caffè sono la lacerazione viva di quella tragedia. Essi hanno vissuto il dramma della tragedia dell’isolamento e della marginalità culturale. La loro crisi esistenziale è stata la crisi di un’epoca. Non erano uomini spendibili nel nuovo corso, la Milano da bere era un dispositivo sociale dinanzi al quale non vi erano alternative, o ci si adattava con l’assimilazione cannibalica o si era spinti verso la marginalità ed il silenzio.

Drammi incrociati

Federico Caffè e Primo Levi hanno vissuto il passaggio ed il disincanto, le loro vite erano impegnate nell’emancipazione dai totalitarismi della storia e, invece, hanno assistito al concretizzarsi di un nuovo totalitarismo che penetrava e si diffondeva capillarmente. Non è difficile intuire il loro dramma e la crisi esistenziale; percepirsi come esiliati in un mondo che non vuole ascoltare ma solo godere e sfruttare. Primo Levi viveva il dramma della dimenticanza, l’esperienza del campo di sterminio descritta nelle sue opere non provocava più passione civile,  ma si rincorreva la fuga verso il piacere e lo sradicamento. Lo stordimento collettivo sicuramente gli provocava un dolore immenso, i ricordi del campo ricadevano su di lui e ne restava, si può immaginare, schiacciato e solo. Federico Caffè, economista keynesiano, aveva vissuto la resistenza, il suo impegno intellettuale e civile era finalizzato ad impedire che il mercato fosse una nuova divinità a cui gli esseri umani dovessero inchinarsi e servire. Il mercato doveva essere per l’umanità ma l’economicismo ormai imperava, per cui constatava l’impossibilità di un’economia capitalistica a misura di essere umano. Ciò lo disorientava, le sue parole inascoltate lo hanno racchiuso nel suo esilio, nella sua morte, mentre era ancora in vita. La loro morte denuncia un tragico passaggio, il nostro presente è il frutto di quella svolta che esige il silenzio del pensiero e la negazione di ogni umanesimo. Nell’ultimo scritto Federico Caffè, ancora una volta,  afferma che l’economia è al servizio della persona e non semplice plusvalore:

“Chi confronti la ricchezza propositiva della trattazione di Pigou con alcune delle indagini più recenti vi trova conferma della perdita di rilevanza che si accompagna, con notoria frequenza, all’accrescimento del rigore formale. Ma, mentre questo processo di progressivo depauperamento del reale e di predominanza (o prevaricazione) del formale avveniva all’interno degli stessi sviluppi dell’economia del benessere (nei suoi due indirizzi riconducibili, per comodità, a Pigou e a Pareto), una svolta del tutto deformante si verificava con il collegamento del benessere ai problemi della scelta pubblica e, in senso ancora più ampio, della democrazia politica. [… L]’analisi del potere nelle società complesse, con la prestigiosa suggestione semantica dell’«interazione sistemica» ha preso a tal punto il sopravvento sui criteri ispiratori iniziali dell’economia del benessere, da rendere necessaria un’opera di riappropriazione delle sue finalità originarie. Essa deve compiersi senza il timore di incorrere in possibili addebiti di economicismo: vi sono molti modi di analizzare la realtà sociale e concentrare l’attenzione su uno di essi non significa disconoscere l’interesse degli altri. Ma può significare avvalersi di un metodo, anziché di un coacervo di spezzoni di programmi di ricerca utilizzati anche brillantemente, senza tuttavia essere amalgamati. La consapevolezza «dei limiti delle nostre capacità a formare una rappresentazione coerente e unificata dell’intero mondo economico» costituisce un elemento di forza, non di debolezza, della indagine economica. E’ un atteggiamento che pone al riparo da fragili certezze (l’inefficienza dello Stato, la forza creativa del mercato, il parassitismo arrogante della burocrazia); ma non attenua l’impegno per un miglioramento sociale inteso non come strategica acquisizione del consenso, ma come sforzo di attenuazione delle molteplici forme di emarginazione degli esseri umani[1]”.

Silenzio tragico

Depauperamento del reale, l’economicismo è tale, poiché derealizza la vita e la sua razionalità, rappresentandosi come una nuova divinità che non ascolta e diviene veicolo di cieca violenza. L’economia senza ricerca olistica e metodo è solo totalitarismo non riconosciuto. La dimensione del bene comunitario è il fine dell’economia, senza di esso nella storia entra una raffinata barbarie sostenuta dai media e dal mondo accademico.

Primo Levi pone anch’gli il quesito terribile che esige risposta e domanda, può essere un uomo colui che è stato ridotto a “cosa” ed usa gli altri esseri umani come semplici “cose”?

La domanda di Levi si eleva dalla storia, ma è poi ricaduta nel silenzio, la sua fine ci parla del silenzio dello spirito nel quale siamo immersi:

È uomo chi uccide, è uomo chi fa o subisce ingiustizia; non è uomo chi, perso ogni ritegno, divide il letto con un cadavere. Chi ha atteso che il suo vicino finisse di morire per togliergli un quarto di pane è, pur senza sua colpa, più lontano dal modello dell’uomo pensante, che il più rozzo pigmeo e il sadico più atroce. Parte del nostro esistere ha sede nelle anime di chi ci accosta: ecco perché è non-umana l’esperienza di chi ha vissuto giorni in cui l’uomo è stato una cosa agli occhi dell’uomo[2]”.

Siamo nella notte oscura della ragione, il suicidio di Primo Levi e la scomparsa di Federico Caffè sono segni del tempo, sono drammi che ci appartengono e che aspettano la nostra risposta ed il nostro ascolto. La loro storia è la nostra storia e attraverso il tragico epilogo delle loro esistenza possiamo comprendere la verità del nostro presente.


[1]F. Caffè, Umanesimo del Welfare, in «MicroMega», n. 1 (1986), pp. 116-27, ora in F. Caffè,La solitudine del riformista, Bollati Boringhieri, Torino, 1990, pp. 244-260, pp. 248-249.

[2] Primo Levi Se questo è un uomo Einaudi Torino 1989  pag. 185

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