“Per
il suo instancabile lavoro nella promozione
dei diritti democratici per il popolo venezuelano e per la sua lotta per
raggiungere una transizione giusta e
pacifica dalla dittatura alla democrazia”: con questa motivazione un gruppo
ristretto di gentiluomini norvegesi ha insignito del Premio Nobel per la
Pace 2025 un’esponente di punta dell’opposizione di destra
venezuelana.
Cosa
ci sia di veridico in questa formula è presto detto: niente di niente.
Marìa Corina Machado proviene da un’altolocata famiglia di possidenti e, a
differenza del “proletario” Maduro, ha studiato negli Stati Uniti
d’America, ma anziché i “diritti democratici per il popolo
venezuelano” ha instancabilmente promosso, nel corso degli anni, il
ripristino di quei privilegi di casta che prima della rivoluzione chavista
connotavano la realtà politico-sociale del Venezuela. È altresì grossolanamente
falso che l’affascinante signora lottasse (e tuttora lotti, benché in
semiclandestinità) per una “transizione giusta e pacifica”, visto che
ha più volte invocato un intervento militare straniero (superfluo precisare: statunitense)
per abbattere l’odiato regime plebeo di ispirazione socialista. Il colmo
dell’impudenza e della malafede è però raggiunto nel passaggio “dalla
dittatura alla democrazia”. Hugo Chavez e il successore Maduro hanno
sempre vinto regolari elezioni, non perché siano (stati, nel caso del compianto
Chavez) immuni da debolezze umani e difetti o perché le politiche da loro
attuate abbiano trasformato il Venezuela nel paese di Bengodi: semplicemente
perché l’unica alternativa stabilmente “offerta” dalla destra
reazionaria contempla un ritorno all’ordinaria spaventosa disuguaglianza tra
ceti privilegiati e classi popolari condannate all’indigenza, all’ignoranza e allo
sfruttamento bestiale. Il popolo venezuelano premia Maduro per quel po’ (o quel
parecchio) di Stato sociale introdotto dal regime chavista, per
l’alfabetizzazione di massa, i servizi pubblici funzionanti, le tutele accordate
ai lavoratori, gli investimenti fatti coi proventi delle notevolissime risorse
naturali, petrolio in primis.
Già sul finire degli anni Dieci le cancellerie occidentali tentarono di rovesciare Nicolàs Maduro, subornando e poi sostenendo il tentamen insurrezionale del carneade Guaidò, “legittimato” non dai risultati elettorali bensì dalla benedizione a prescindere di Washington (e dei suoi docili vassalli) e dal servo encomio, ai limiti dell’onirico, dei media cosiddetti indipendenti, quelli che oggi danno del “democratico” all’affossatore Zelensky. Purtroppo, malgrado il battage pubblicitario, l’autoproclamato presidente si rivelò un incapace bellimbusto privo di doti e di seguito, e finì ben presto nella pattumiera della Storia.
L’insuccesso
del primo episodio, conclusosi in farsa, non scoraggia gli sceneggiatori di
Langley e i loro volonterosi ausiliari. La Machado, che ha pure il pregio
di essere donna, appare più tosta e affidabile dell’insignificante Guaidò:
devota agli USA lo è anche guarda caso ad Israele, e queste qualità ne
fanno una perfetta (e spendibile) icona dell’occidentalismo
postmoderno. La proclamazione, tra l’altro, è avvenuta al momento opportuno,
proprio mentre forze aeronavali statunitensi si stanno radunando al largo del
Venezuela bolivariano: visto che, come diceva un politico che ne sapeva una più
del diavolo, a pensar male quasi sempre ci si azzecca, è verosimile che i savi
di Oslo abbiano inteso fare a Trump un regalo ben più prezioso di un assegno
milionario con dedica, fornendogli un viatico “morale” per
l’invasione. La signora Machado si sdebiterà invocando un soccorso
“democratico” quanto la sua fede, e i giornalisti italiani non
mancheranno di entusiasmarsi per una riedizione dello sbarco in Normandia –
tanto il patentino di Nuovo Hitler lo si affibbia con disinvoltura a chiunque
dispiaccia all’élite. Attenzione però al fatto che il Venezuela non è
l’isoletta di Grenada, “liberata” dagli yankees nel 1983… e che Russia e Cina potrebbero avere da
ridire non solo sui criteri di assegnazione di un premio che sta
diventando appannaggio degli agenti sguinzagliati nella giungla da
Washington.
Ciò
che però emerge unendo questo ad altri puntini è che ormai il sedicente
mondo libero-giardino dell’Eden agisce a qualsiasi livello come un sistema
autoreferenziale, autistico e impenetrabile dalla realtà esterna. Guardiamo
allo sport, che – stando a quanto ci raccontano – unisce:
ad essere esclusa dalle competizioni internazionali, olimpiadi incluse, è stata
la Russia, mica l’Ucraina, massacratrice di civili in Donbass per un decennio,
e soprattutto non Israele, che ha pianificato e posto in atto un genocidio che
il patto (leonino) imposto da Trump ha al massimo sospeso. Stesso ostracismo –
e vergogna persino maggiore su chi l’ha disposto – per i giochi
paralimpici, mentre nel tennis giocatrici e giocatori russi possono
continuare a scendere in campo, ma con la patente di apolidi, come se il loro
paese non esistesse più (et hoc est in votis…).
Il Nobel per la Pace è però in apparenza qualcosa di più serio di una partita di calcio o di un salto con l’asta; “in apparenza”, dicevo, perché scorrendo la lista aggiornata dei vincitori ci rendiamo facilmente conto che a contare non sono onestà e meriti, bensì la scuderia di appartenenza. La scelta della señora Machado s’intona con le precedenti, quasi tutte di matrice ideologica: nel 2023 fu premiata una dissidente iraniana, l’anno prima un tris composto da un oppositore bielorusso, un’associazione russa antipatriottica e un’organizzazione ucraina fiancheggiatrice del colpo di stato del 2014. Nel 2021 il Nobel andò al giornalista russo Muratov, anche lui ovviamente antiputiniano e filoccidentale, mentre nel 2012 si scese se possibile ancora più in basso, iscrivendo all’albo d’oro quell’Unione Europea che, dopo aver ricattato e spolpato la Grecia, brandisce oggi il suo “pacifismo” armato contro la Russia; nel 2011, d’altronde, si era optato per un omaggio a Barack Obama che, essendo nero, non può che essere mosso dalle migliori intenzioni (ne sa qualcosa la Libia…). Si potrebbe ribattere che errare humanum est, ma nei casi citati il presunto “errore” è stato consapevolmente voluto, anche perché quasi tutte le sigle e i nomi menzionati si sono occupati più di guerra che di pace. Fra l’altro non mancavano quest’anno candidati idonei: si è parlato della Flottilla, ma gli eroici giornalisti di Gaza bersagliati dalle armi israeliane e i medici palestinesi morti sotto le macerie avrebbero meritato di essere ricordati per il loro sacrificio. Nulla da fare: non stavano dalla parte giusta, quella di Israele, del suo protettore americano e dello stuolo di starnazzanti lacchè europei.
Uno
schifo, insomma, ma spiegabilissimo. Dobbiamo infatti tenere presente che le
istituzioni responsabili di decisioni così sfacciatamente inique – dal CIO alla
FIFA, dal Comitato norvegese all’AIEA – sono state create dall’élite
occidentale e chi attualmente le amministra, pur essendo magari
venuto dalla famigerata “giungla”, è un fiduciario che, cooptato
e riverito, ha tutto l’interesse a compiacere i munifici padroni.
Che
in queste circostanze il Nobel, un tempo ambito e prestigioso, finisca per
ridursi a un premio fedeltà da assegnare, con annessa mancia, al primo
mestatore che passa rientra pienamente nell’ordine delle cose.
Se il sussiegoso dottor Jekyll ardisse guardarsi allo specchio vedrebbe giorno e notte mister Hyde.
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