Il cielo d’Irlanda è un oceano di nuvole e luce, cantava la Mannoia su testo di Massimo Bubola.
Dopo un’illusoria bonaccia, dall’altra sponda
dell’Atlantico ha preso recentemente a spirare un vento impetuoso, foriero di
tempesta e devastazione. Donald Trump, uomo ambizioso quant’altri mai e pieno
di sé, sognava di passare alla Storia come il grande pacificatore, ma per
riuscire in quest’impresa sono necessarie doti non comuni, tra cui la pazienza
e la capacità di approfondire le situazioni, e all’attuale inquilino della Casa
Bianca queste qualità fanno evidentemente difetto. Inoltre, la convinzione di
essere il padrone del mondo nonché il più grande tra i presidenti degli Stati
Uniti hanno reso ancor più difficoltosi l’attività in sé e l’obiettivo che The
Donald si era prefisso: lui si illudeva di poter bloccare con un cenno della
mano il conflitto russo-ucraino “sradicandolo” dal terreno che l’ha
progressivamente alimentato e pensava che entrambi i contendenti si sarebbero inchinati
al suo salomonico giudizio, ma il problema è che le soluzioni prospettate erano
superficiali, raffazzonate e contrarie alla logica. Le varie proposte di
compromesso che confusamente sono state avanzate alle due parti non tenevano infatti
conto né delle origini del conflitto né della situazione maturata sul campo:
veniva in sostanza sancito un “pareggio”, con il riconoscimento alla Russia – vittoriosa
sul terreno –dei diritti sulla Crimea, inglobata a seguito di referendum già un
decennio fa, e del possesso temporaneo delle quattro regioni occupate (o, a
seconda dei punti di vista, liberate), cui si aggiungeva una mezza promessa non
vincolante di neutralità dell’Ucraina, contraddetta peraltro dall’annuncio di
garanzie militari per il regime autocratico e russofobo di Zelensky. Inoltre,
in attesa di giungere a questo risultato assolutamente interlocutorio e
insoddisfacente per la Russia, si sarebbe dovuto concludere un cessate il fuoco
che – come a Mosca sanno benissimo – avrebbe consentito agli ucraini di
rimpolpare le proprie forze esauste con l’assistenza degli sponsor occidentali.
Come ha risposto la Russia? Nell’unico modo possibile
in circostanze del genere: prendendo diplomaticamente tempo, facendo delle
controproposte tutto sommato ragionevoli e cercando di mantenere aperto il
dialogo per vedere sino a che punto l’intenzione americana di mediare e di
essere equidistante fosse sincera. Trump, però, oltre che imprevedibile e pieno
di sé è anche un personaggio impaziente, che, come certi bambini capricciosi,
pretende tutto e subito, esigendo che i suoi ordini siano eseguiti all’istante.
Questo non è accaduto perché non poteva accadere, e di conseguenza il nostro grand’uomo
(d’affari) si è persuaso che la Russia non vuole mettere fine al conflitto,
senza perdere tempo a interrogarsi sulle motivazioni e sulle obiettive
necessità della controparte. C’è di più: al di là dell’irritazione personale
che sicuramente prova di fronte alle manovre dilatorie del Cremlino, Trump sta
probabilmente convincendosi che mantenere l’impegno elettorale di chiudere la
guerra in quattro e quattr’otto è non solo impossibile, ma nemmeno troppo
conveniente. In fondo egli è riuscito a imporre all’Ucraina un patto leonino,
assicurandosi lo sfruttamento delle sue terre rare… solo sulla carta, però. C’è
invero un piccolo inghippo, un dato di fatto che potrebbe indirizzare la
condotta futura del tycoon: buona parte di quelle benedette terre rare si
trova, a quanto risulta, in territori controllati attualmente dall’esercito
russo. Come potrebbe dunque un’Ucraina spossessata di quelle regioni adempiere
all’obbligazione “liberamente” assunta? È chiaro che rebus sic stanti bus l’ex
repubblica sovietica non sarebbe in grado di farlo, specialmente nel caso in
cui la Russia continui ad avanzare oppure strappi un trattato di pace a lei
favorevole.
Questo mix di frustrazione e cupidigia potrebbe
portare il nuovo presidente americano non solo a non pigiare sull’acceleratore
in direzione della pace, ma addirittura a rendersi protagonista di una
escalation nel conflitto, che giustificherebbe con l’argomento che la sua
generosa offerta è stata rifiutata da una Russia insofferente al ruolo guida assegnato
da Dio all’America e a cui Trump – lo attestano le sue più recenti fanfaronate –
non ha alcuna intenzione di rinunciare. Di fronte alla prospettiva di una
prosecuzione della fornitura di armi e di informazioni di intelligence all’Ucraina
o addirittura di un’entrata in scena diretta degli Stati Uniti al fianco dei
loro vassalli europei possiamo concludere che ha avuto ragione Putin quando in
tempi non sospetti affermò che avrebbe preferito una vittoria di Biden alle
elezioni, dal momento che il bellicoso e delirante ex presidente era un tipo prevedibile,
mentre le continue finte e controfinte di Trump rendono la situazione
assolutamente fluida e pericolosa. D’altra parte, un non inverosimile ritorno
alle aggressive politiche bideniane, sia pure con minor sfoggio di ipocrisia,
ci fornirebbe la chiave per spiegare la condotta insubordinata rispetto a Washington
dei leader europei di colonie più o meno autonome dagli Stati Uniti d’America. Costoro,
conoscendo l’indole del nuovo presidente e sapendo che le sue smargiassate
spesso non hanno seguito, avrebbero scommesso sulla continuità del sostegno
americano all’Ucraina dopo qualche sceneggiata in favore di telecamera. In
sostanza la parentesi pacifista di Trump si sarebbe già conclusa, in parte per l’indole
umorale di un personaggio incapace di elaborare e seguire una strategia, in
parte – ma direi soprattutto – per effetto delle pressioni che il complesso
militare-industriale americano è in grado di esercitare direttamente o
indirettamente su qualsiasi Presidente degli Stati Uniti. Trump si ritroverebbe
così a copiare Biden contro la propria volontà, per assenza di alternative
praticabili. Va precisato che il tristo Joe Biden, al contrario di Trump, una
strategia ce l’aveva: quella sviluppata nel corso dei decenni dal potere-ombra nel
quale era pienamente inserito, e che prevedeva come piano a medio-lungo termine
dapprima l’attacco alla Russia e il suo smembramento, in seguito un brutale
regolamento di conti con la potenza cinese in ascesa. Il disegno è criminale,
ma risponde a una sua logica: la Repubblica Popolare potrebbe in breve
soppiantare gli Stati Uniti nel ruolo di egemone mondiale, magari con l’aiuto
della Russia e di altri paesi che un tempo si sarebbero definiti non allineati.
Detto dell’Europa, appare ancor più facilmente
comprensibile la condotta tutto sommato lineare di Vladimir Putin, il quale in
primo luogo non ha alcun motivo per fidarsi dell’Occidente che,
pregiudizialmente ostile, ha sempre respinto le sue profferte di collaborazione
e l’ha più volte buggerato e, in secondo luogo, ritiene e riteneva Trump un
personaggio assolutamente inaffidabile e incapace di seguire una rotta dettata
da logica e sedimentate convinzioni.
Attenzione però, perché svanita l’illusione di un
possibile cessate il fuoco a tempo indeterminato potrebbero subentrare rischi ancor
maggiori rispetto a quelli corsi in precedenza durante l’era Biden: da un lato
perché Trump non ha il senso della misura e, come detto, è mosso dall’astio e
dall’ingordigia, dall’altro perché la Russia si rende conto a questo punto,
specie a seguito delle continue provocazioni europee, che un conflitto su larga
scala è non più soltanto possibile, ma altamente probabile.
Per fortuna, nonostante le minacce di Zelensky e
dell’estremista Kaja Kallas (un’esaltata cui neppure il Reich avrebbe affidato
un ministero degli esteri…), il Giorno della Vittoria non è stato funestato da
attacchi che, considerata la sacralità per i russi di data e luogo, avrebbero
inevitabilmente provocato una reazione tanto distruttiva quanto pienamente
legittima da parte di Mosca.
Alla smania di crociata di un’Europa che pare tornata
al medioevo (e si riscopre nostalgica della Fortezza sua omonima) fa da
contraltare la sicurezza ostentata da Vladimir Putin dopo la parata del 9
maggio, che ha rappresentato un enorme successo politico: la favoletta della
“Russia isolata” è stata sbugiardata in diretta mondiale. Con una mossa da
scacchista consumato lo statista russo ha avanzato la proposta di riprendere le
trattative di pace, scegliendo non a caso la Turchia, palcoscenico tre anni fa
di un’intesa prima raggiunta e poi sconfessata da britannici e americani.
Malgrado le lamentazioni dei volonterosi, Zelensky
sembra disposto a recarsi ad Istanbul anche senza aver ottenuto in cambio della
sua “buona volontà” un inverosimile cessate il fuoco a priori: prima che
a se stessa, la Federazione fa un favore a Trump che viene messo nelle
condizioni di tornare protagonista della vicenda agli occhi dell’elettorato e
di intestarsi un’eventuale pace, o perlomeno un ruolo effettivo di mediatore.
Da abile venditore di sogni egli potrebbe spacciare
qualche minima concessione russa (anche non sostanziale: basterebbe una
comparsata di Putin, peraltro improbabile) alla controparte per un risultato
eclatante e togliersi dagli impicci, visto che ha più volte fatto capire che
dipendesse solamente da lui questa guerra non avrebbe futuro. I mestatori
europei potrebbero però mettersi in mezzo, magari provocando ad arte nuovi
incidenti da addebitare alla Russia (dalle incubatrici di Kuwait city a Bucha
gli spunti non mancano). Donald Trump aveva bisogno di un assist per mettere in
mostra le sue qualità, ma – restando nella metafora calcistica – davanti a lui
c’è pur sempre una tignosa difesa schierata. Quanto all’opinione pubblica, essa
viene manipolata dai media di regime che, con supremo sprezzo del ridicolo ma
su imbeccata del complesso militare industriale pro-guerra, ci presentano le
proposte di Putin come un… ultimatum a Putin medesimo!
Qualsivoglia previsione è scritta sull’acqua corrente.
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