Il 5 maggio del 1937 Camillo Berneri[1]e
l’anarchico Francesco Barbieri furono prelevati dai comunisti stalinisti e
fucilati. Era in atto la guerra civile spagnola all’interno della quale la
lotta tra stalinisti e anarchici, in teoria sullo stesso fronte, ma in realtà
divisi sui principi politici e sulle prospettive contribuì alla sconfitta dei
repubblicani. La morte di Camillo Berneri
con queste parole fu descritta dall’attivista rivoluzionario Felix
Morrow:
“…durante il mattino il
corpo straziato di Camillo Berneri fu trovato dove era stato gettato dalle
guardie del PSUC, che lo avevano preso dalla sua casa la sera precedente.
Berneri era sfuggito agli artigli di Mussolini e aveva combattuto i riformisti
(compresi i leader della CNT) nel suo organo influente «Guerra di Classe». Egli
aveva definito la politica stalinista in poche parole: “odora di Noske”. Con
parole audaci aveva sfidato Mosca: “Schiacciata tra i prussiani e Versailles,
la Comune di Parigi aveva dato inizio a un fuoco che aveva acceso il mondo. Che
i generali Goded di Mosca lo ricordino”….. Come terribilmente vera era stata la
sua identificazione di Noske con gli stalinisti! Come il socialdemocratico
Noske aveva fatto rapire e assassinare Rosa Luxemburg e Karl Liebknecht, così
gli stalinisti avevano assassinato Camillo Berneri. … Mentre scrivo non posso
fare a meno di piangere, piangere per Camillo Berneri”.
La morte dell’anarchico Camillo Berneri è esplicativa di un
problema interno alle sinistre non sufficientemente pensato. Le sinistre
comuniste sono state logorate dalla
lotta per il potere e dalla negazione della razionalità dialogica con la quale individuare
una piattaforma comune di obiettivi programmatici su cui fondare una solida
alleanza. Le divisioni condussero all’assassinio di Camillo Berneri che si
espose nell’organizzazione della resistenza al franchismo al punto da proporre
che il fronte repubblicano dichiarasse l’indipendenza del Marocco per rendere
il franchismo più fragile e aggredibile. Fu un gradualista ed era ben conscio
della necessità dell’organizzazione, ma al fine di parlare a fette più ampie
della popolazione e, in particolare ai contadini e ai braccianti propose anche un’accelerazione delle
iniziative di socializzazione. Il fronte antifalangista si poteva vincere se si
andava oltre l’operaiolatria, ovvero se si oltrepassava la mitizzazione ideale
della classe operaia e la si guardava con autentico senso critico. Il suo assassinio fu voluto, in quanto nei
suoi scritti asistematici e complessi per senso critico e per le proposte valutò col metro del
comunismo libertario lo stalinismo:
È inutile sofisticare
su quello che la rivoluzione russa avrebbe potuto essere. Essa è quella che è.
E nel criticare il suo attuale arresto bisogna tener conto del fatto che alla
politica di ripiegamento del governo bolscevico contribuiscono realtà più forti
dei principi teorici. I contadini si sono appropriati delle terre che, di
diritto, sono nazionalizzate, ma, di fatto, sono suddivise tra i piccoli
proprietari che costituiranno la futura borghesia rurale. Lo scambio dei
prodotti, più o meno clandestino, è generale e arricchisce tutta una categoria
di nuovi pescecani. La burocrazia sta costituendo una nuova classe di
privilegiati. In tutto questo complesso di ricorsi economici e sociali bisogna
ricercare le cause della nuova politica bolscevica, la quale ha contribuito a
creare la nuova situazione ma non è stata essa sola a determinarla. Ogni rivoluzione ha lo sviluppo di cui è
capace il popolo che la compie. L’economia russa era primitiva. Il
regime zarista dimostra come fosse primitiva e retrograda anche la vita
politica della Russia. Non si può
dunque giudicare con criteri occidentali una rivoluzione che appartiene più all’Asia
che all’Europa. Con questo non vengo a giustificare tutta la politica
bolscevica. Credo anzi necessario criticare il regime bolscevico perché ad esso
guardano, come a un archetipo, i comunisti italiani, ma credo anche necessario
impostare la nostra critica su più solide basi. E per fare questo bisogna
osservare la rivoluzione russa con occhio storico più che con occhio politico[2]”.
Rileggere la storia del comunismo
La storia della sinistra è stata attraversata da lotte che
hanno contribuito alla sua riduzione a nuclei minimi e, purtroppo irrilevanti, di
resistenza e presenza ancora oggi segnati da lacerazioni. Ripensare la storia
della sinistra comunista con le sue tante anime significa in questo momento
storico, nel quale si annaspa nel
pensare un nuovo progetto, trascendere forme di chiusura settaria e
individualistica che favoriscono lo
scollamento dai popoli, al momento sotto il controllo dell’apparato di sorveglianza
del capitalismo. Tutto ciò sembra condurre le sinistre comuniste verso il loro
tramonto. In questo momento cruciale è necessario ripensare alla storia dei
comunismi per evitare errori fatali. La storia del comunismo con la sua
prospettica densità di progettualità ci potrebbe consentire di congedarci dagli
errori ed orrori del passato per intraprendere un percorso di unità e libertà
e, dunque, di far fronte comune sui principi che uniscono. Tale operazione di
memoria storica dovrebbe consentire di trasmettere alle nuove generazioni che
ancora guardano al comunismo e alla radicalità del suo progetto un patrimonio
politico vivo con cui affrontare le sfide del presente e del futuro. Imparare
dal passato è indispensabile per non incorrere in questo momento storico in cui
si è minacciati dalla soverchiante forza capitalistica, di diventare
corresponsabili della scomparsa del progetto comunista. Ricordare gli eroi, e
permettetemi di definirli “martiri del comunismo e della libertà” è un modo storicamente fondato per evitare il
ripresentarsi di errori e di tragedie piccole e grandi. Camillo Berneri ci
ammonisce di un altro errore, ovvero l’idealizzazione della classe operaia,
ogni idealizzazione è una forma di scollamento schizoide dalla realtà che
bisogna evitare:
Malatesta stesso non
vedeva il proletariato attraverso gli occhiali rosa di Kropotkin e Luigi Fabbri
scriveva in un suo articolo, riferendosi al periodo insurrezionale del
dopo-guerra: «Troppa gente, fra la povera gente, troppi lavoratori credevano
sul serio che stesse per venire il momento di non lavorare o di far lavorare
unicamente i signori». Chiunque ripensi alla storia del movimento operaio vedrà
prevalervi un’immaturità morale spiegabilissima, ma tale da imporre la più
evidente smentita ai ditirambici esaltatori delle masse.Il giochetto di
chiamare «proletariato» i nuclei di avanguardia e le élite operaie è un
giochetto da mettere in soffitta. Le allegoriche demagogie lusingano la folla,
ma le nascondono delle verità essenziali per l’emancipazione reale. Una
«civiltà operaia», una «società proletaria», una «dittatura del proletariato»:
ecco delle formule che dovrebbero sparire. Non esiste una «coscienza operaia» come
tipico carattere psichico di un’intera classe; non vi è una radicale
opposizione tra «coscienza operaia» e «coscienza borghese». I greci non hanno
combattuto per la gloria, come pretendeva Renan. E il proletariato non si batte
per il senso del sublime, come
si affannava a sostenere il Sorel nelle sue Réflexionssur la violence. L’operaio ideale del marxismo e del socialismo è un personaggio
mitico. Appartiene alla metafisica del romanticismo socialista e non alla
storia. Negli Stati Uniti e nell’Australia sono le Unions operaie che richiedono la politica restrittiva dell’immigrazione.
All’emancipazione dei negri degli Stati Uniti, il proletariato americano (vedi
Mary R. Béard, A short history of the
American labourmovement, New-York 1928) non ha dato che un misero
contributo e ancora oggi i lavoratori di colore sono esclusi da quasi tutte le
organizzazioni sindacali americane. I movimenti di boicottaggio (contro le
dittature fasciste, gli orrori coloniali, ecc.) sono scarsi e non riescono. E
rarissimi sono gli scioperi di solidarietà classista o a scopi strettamente
politici[3]”.
Il senso della storia è sempre stato uno dei paradigmi
culturali delle sinistre comuniste. Marx ci ha insegnato che la storia è il
“mondo dell’uomo”, pertanto per riprendere il cammino nel nostro tempo è non
rimandabile il confrontarsi con l’esperienza comunista, non certo per
imbalsamare la sua storia, ma per trarre da essa l’energia motivazionale,
ideologica e politica per lottare nel presente. Nessuna nostalgia e nessuna
idolatria del passato, dunque, ma per riprogettare il comunismo dobbiamo confrontarci
con possibilità inesplorate che sono state occultate dalla lotta interna e
dall’oligarchia di potere e di pensiero che ha trasformato Marx in pensatore
sistematico e dogmatico. Al contrario, invece, oggi sappiamo che Marx reca con
sè un cantiere di prospettive da cui dobbiamo ricominciare il lungo percorso
verso l’alternativa per ricostruire il popolo comunista. Siamo dunque in una
fase nella quale l’impegno di ognuno è rilevante, anzi, nel tempo del
disimpegno il comunismo riprende a vivere già in coloro che si impegnano
gratuitamente rinunciando consapevolmente ai narcisismi e alle lusinghe del
potere. Ricordiamo dunque l’esperienza umana e politica di Camillo Berneri per
pensare fortemente il presente e immaginare il futuro. La solitudine pugnace di
Camillo Berneri ci pone domande sul perché della sconfitta, e da queste domande
bisogna ricominciare senza vittimismo e senza rancori divisori:
“Facile previsione: vi
sarà un mandarino che scriverà che non ho un’«anima proletaria» e vi saranno
dei lettori che capiranno che ho inteso svalorizzare il proletariato. Per me
risponde un’eco: quella dei calorosi applausi che salutano nei cantieri e nelle
officine dell’industria di guerra l’annuncio del sottomarino da costruire o dei
cannoni da fondere. Per me risponde la tattica comunista consigliante di agire
all’interno delle corporazioni e per rivendicazioni economiche. Per me
risponde, anzitutto, la rassegnazione del proletariato italiano, specie di
quello industriale. Attendere che il popolo si risvegli, parlare di azione di
masse, ridurre la lotta antifascista allo sviluppo e al mantenimento di quadri
di partito e di sindacato invece di concentrare mezzi e volontà sull’azione
rivoluzionaria che, sola, può rompere l’atmosfera di avvilimento morale in cui
il proletariato italiano sta pervertendosi interamente, è viltà, è idiozia, è
tradimento[4]”.
Rinunciamo ai
“mandarini e al mandarinati”, questo può essere già un buon inizio per il
comunismo popolare e libertario. Il mandarinato avvilisce e aliena, pertanto
nel comunismo libertario il pianismo sarà sostituito dall’organizzazione corale
che responsabilizza all’attuazione del comunismo. Dove i mandarinati hanno
governato il comunismo, questo si è trasformato in tecnica del potere che
gestisce risorse e uomini e ha negato in tal modo il suo scopo. Circostanze
storiche avverse e terribili hanno imprigionato il comunismo nella
pianificazione ed hanno reso possibile la sconfitta:
“È il pianismo, il
tecnicismo forsennato, è la via aperta a tutte le dittature in nome della
produzione massima. L’argomento principe di tutti i dittatori, Mussolini in
prima linea, è sempre stato quello che dalle grandi questioni di organizzazione
e di produzione sociale esula la politica. Viceversa, la tesi è che in un
regime socialista anche nell’amministrazione delle cose si dovrà tenere in
conto sempre più largo dell’uomo, oggi avvilito sul luogo del lavoro al rango
di cosa. Non si tratta di cacciar la politica, categoria insopprimibile; ma di
sostituire ad una politica ingiusta e inumana, una politica più giusta e più
umana[5]”.
Ricominciare a sperare l’alternativa è possibile, se ci
congediamo da idealizzazione e falsificazioni mitiche che hanno contribuito al
semplicismo e ad una visione aprioristica della storia. Tale atteggiamento ha
deresponsabilizzato in nome di un tecnicismo sterile e funebre. Il comunismo
che verrà dovrà riportare la responsabilità politica e la partecipazione piena
dei comunisti, perché senza impegno non c’è prassi e non c’è comunismo.
Impariamo da lui a tenere aperte tutte le
finestre per diventare liberi e comunisti.
[1]Camillo Berneri (Lodi, 20 maggio
1897 – Barcellona, 5 maggio 1937), fu anarchico, scrittore e saggista italiano.
Fu allievo di Gaetano Salvemini che di lui scrisse nel 1952:
“Aveva il gusto dei fatti precisi. In lui
l’immaginazione, disciolta da ogni legame col presente, in fatto di possibilità
sociali, si associava a una cura meticolosa per i particolari immediati nello
studio e nella pratica di ogni giorno. Si interessava di tutto con avidità
insaziabile. Mentre molti anarchici sono come le case le cui finestre sulla
strada sono tutte murate… lui teneva aperte tutte le finestre” (cfr.
anche, ma soprattutto per il periodo successivo, il giudizio di A.
Garosci, Storia…, pp. 256 s.)”.
[2] Camillo
Berneri, Umanesimo e anarchia, liberliber 2008, pag. 7
[3] Ibidem
pag. 14
[4] Ibidem
pag. 17
[5] Camillo Berneri, Il federalismo libertario, liberliber 2011, pag. 100