Se una centrale nucleare dovesse subire una perdita in Francia, l’Europa e forse il mondo intero ne sarebbero interessati. Se una foresta viene integralmente distrutta nell’altro emisfero, come supporre che ciò non abbia ripercussioni sulla nostra vita? Se si dovesse realizzare un black-out informatico a Los Angeles, come immaginare di non averne conseguenze dirette o indirette? Nel tempo della interconnessione totale, e della tecnica estesa sul piano planetario, la conclusione è necessaria, qualsiasi evento dovesse accadere al mondo non potrà che riguardarci tutti.
Inutile dunque farsi illusioni sovraniste. Patetico supporre che un maggior controllo sulla propria storia possa passare attraverso il recupero di categorie moderne. Né lo Stato/nazione posto al servizio delle volontà di potenza globali, né la sovranità chiusa nostalgicamente nei propri confini potrà far approdare in una nuova fase storicamente “umana”: in realtà, se le paure oggi sono inesorabilmente globali, altrettanto globali dovranno essere le “soluzioni”.
Tuttavia, è difficile immaginare che un nuovo slancio possa prescindere dalla categoria di sovranità. Piuttosto che cancellare quest’ultima, infatti, piuttosto che dichiarare morto lo Stato fingendo nuove fasi storiche che si riducono poi al potere globale degli Stati più forti, occorre ridare vigore alla rappresentatività politica democratica e alla sua dialettica storica. Tuttavia, ancora, non si deve commettere l’errore di interpretare la sovranità nei termini classici dell’appartenenza ad uno stato sovrano di tipo moderno. Non è importante quanto vicini siano gli organismi rappresentativi ai popoli che essi rappresentano. Non è particolarmente significativo che la sovranità sia l’espressione diretta della propria tribù. Ciò che è decisivo è che tali organismi siano davvero emanazione di esigenze e di bisogni reali e sappiano collegarsi con le necessità di donne ed uomini lontanissimi sul piano spaziale ma assai vicini in quanto abitanti in comune della terra. È fondamentale non dimenticare che, in una realtà interconnessa quale quella contemporanea, non ci si può occupare di un paese senza co-involgere tutto il mondo.
Non vi è dubbio che il recupero di una sfera di nuovo politica, questa volta però internazionalistica e, nel contempo, radicata nei territori, costituisca un’esigenza insopprimibile sia dal punto di vista della fondamentale questione della sicurezza, sia a favore di un nuovo slancio di civiltà. La liberazione dalle tante paure che emergono dal mondo globale (caotico, deregolato, abbandonato alla cinica longa manus dell’imperialismo statunitense) richiede a gran voce pratiche solidaristiche inedite, di livello trans-nazionale e cosmopolitico che vedano co-protagonisti le coscienze dei cittadini (non più soltanto passivi, delusi dalle élites e facilmente manipolabili dai nazionalismi), raccolti in strutture istituzionali inedite. Forze politiche locali, insieme alle organizzazioni non statuali che hanno rilevanza globale (tante sono nate e si sono consolidate negli ultimi decenni), hanno il compito storico di guardare oltre il proprio cortile di casa consapevoli che, mai come in questo tempo, questo nostro mondo non può essere circoscritto a quello immediatamente presente davanti ai nostri occhi.
Senza questo tipo di collaborazione, di sguardo, di visione del mondo, credo possa essere davvero difficile fuoriuscire dall’impasse attuale che vede gli egoismi etno-nazionalistici e/o le oligarchie tecno-finanziarie globali “l’un contro l’altro armati”.
Tutto ciò è realistico? Non lo so. Ciò di cui sono certo è che la possibilità di immettere un nuovo slancio internazionalistico nella storia di questo nostro secolo costituisce, a mio parere, la grande sfida che ci troviamo di fronte.
Fonte foto: Technopolis (da Google)