Afghanistan, ovvero l’Occidente

In questi giorni si sta completando il ritiro delle truppe di “liberazione occidentale” dall’Afghanistan. L’occupazione durata vent’anni ha confermato quanto le precedenti missioni di pace hanno dimostrato: la democrazia non si esporta con le armi, è un processo storico e comunitario che germina dalle contraddizioni di una cultura e di un popolo. La storia dell’Afghanistan è la decadenza dell’Occidente senza politica e metafisica. L’anno zero dell’Afghanistan descritto da Giulietto Chiesa e Vurro, è l’anno zero dell’Occidente. L’Afghanistan dimostra che l’Occidente ha rinunciato all’agire politico,  pertanto agisce solo in nome del dominio. I dominatori  negano l’altro, pertanto preparano la loro sconfitta e sono veicolo di nuovi conflitti. L’Afghanistan è rimasta una illustre sconosciuta, è stata ridotta a terra dei talebani. Il circo mediatico non ha mai spiegato chi fossero i talebani, li descriveva  filtrandoli secondo categorie occidentali attraverso le quali apparivano “incivili”, da rieducare alla civiltà secondo schemi e valori occidentali. Chi fossero restava sullo sfondo, chi domina non si pone domande e specialmente agisce secondo stereotipi ossificati, l’Occidente atlantista rifugge il dialogo come incontro tra le differenze in nome della missione liberatrice e teologica dell’Occidente. L’ideologia catalizza consensi su slogan ed informazione mistificata. L’Afghanistan non è mai emersa nella mente degli occupanti, perché è stata solo una terra da colonizzare. talebani chiamati dai media “studenti”, nulla hanno in comune con ciò che può evocare in Occidente la parola “studente”. La loro miseria e la loro ignoranza è fondata, anche, sulla nostra ricchezza e sulla nostra cultura: lo sfruttamento coloniale e neocoloniale ha partorito condizioni economiche e sociali miserrime: i talebani sono la nostra verità rimossa:

“Ma è utile capire da dove vengono e come sono stati formati. <<Studenti>> sono stati definiti e continuano ad esserlo dalla stampa pakistana. Studenti del Corano. Studenti pushtun. Reclutati nelle immense tendopoli attorno a Peshawar, nei campi profughi. Figli di contadini che non avevano mai conosciuto la luce, il telefono. Vissuti fin dalla nascita in condizioni assolutamente miserevoli, elementari, brutali, nelle quali la principale occupazione, a partire dal momento i cui si comincia a camminare da soli, è cercare il cibo per sopravvivere[1]”.

 

L’astratto per dominare

La cultura dell’astratto si estranea, si derealizza fino a non comprendere l’alterità, al punto da valutare gli interventi sanzionatori, in nome dei diritti umani,  in modo eurocentrico, intendendo con questo termine l’occidente culturale. Le sanzioni economiche possono turbare popoli che hanno fondato la loro esistenza sul benessere economico, ma nel caso dei talebani abituati a una vita semplice e primitiva, a vivere di poco o di nulla in ambienti ostili, senza energia elettrica e senza i miti del materialismo edonistico, le sanzioni sono impercettibili. Le multinazionali del gas e del petrolio che condizionano la politica fino a determinarla non brillano per il pensiero complesso, ragionano secondo finalità economicistiche che proiettano in ogni comunità ed essere umano. Il potere si estranea dalla storia, per cui le sanzioni finalizzate a far cadere il regime dei talebani sono state un fallimento politico e concettuale[1]:

“ Le origini sociali dei taliban sono poverissime dice Sabjar Latif. Per loro un pugno di riso era un sogno, non avevano mai conosciuto l’energia elettrica. La condizione miserabile nella quale vivono e fanno vivere Kabul è comunque un miglioramento rispetto al loro precedente modo di vita. Perché dovrebbero temere le sanzioni? Non gli importa niente di quello che potrebbero perdere: il caffè, quel poco di sistema elettrico che è restato? Ne possono fare a meno>>. Sabjar Latif  è una specie di rappresentante afgano, non ufficiale, degli interessi della Bridas, multinazionale  petrolifera argentina in competizione con la Unical americana per la costruzione dell’oleodotto che partendo dal Tagikistan dovrebbe attraversare l’Afghanistan per giungere in Pakistan”.

 

Macerie

Le macerie di Kabul sono le nostre macerie, ci appartengono, sono la verità che occultiamo dietro la cortina fumosa dei diritti umani, dei proclami che inneggiano al dialogo, all’accoglienza, dietro il sorriso plastificato della società dello spettacolo. Le ipocrisie dell’Occidente celano la sua verità, ovvero che l’intero sistema occidentale non aspira che a realizzare compiutamente il totalitarismo economico, per cui il benessere di una minoranza, l’Occidente, ha il suo fondamento sulle macerie di popoli e comunità da strumentalizzare in funzione del PIL. Le macerie sono occultate con la cultura dell’astratto: si vedono, sono oggetto di visualizzazione nel circo mediatico, ma non devono essere comprese. Il sistema si perpetua nel cinismo delle logiche del risultato che “ignora” i processi storici, mentre la dialettica è sostituita dalla menzogna conosciuta. In Occidente in media si conoscono le reali ragioni dell’intervento, ma si continua a negare la verità, per cui le macerie sono simboliche oltre reali, sono il segno di un Occidente che ha rinunciato ad ogni metafisica in nome del nichilismo[2]:

“Le macerie non sono ovunque, e macerie sono tutto. Le vecchie case sono solo cumuli di mattoni di fango secco dai quali a volte spunta la sagoma di un pezzo di muro ancora in piedi, come una grottesca stalagmite. Altri edifici, quelli più moderni, si sono afflosciati su se stessi, i tetti di catrame, come brandelli di pelle secca, ne coprono in parte le ossa di cemento. Il colore delle macerie è un non colore, come un buco nero, che assorbe, risucchia tutti gli altri colori”.

La retorica della pornocrazia si  fa evidente, se si cercano medici disponibili a porre riparo agli effetti delle politiche occidentali, non vi sono risposte positive, benché si propongano stipendi dignitosi. Vi è necessità di chirurghi estetici per gli effetti delle esplosioni delle mine, ma il mercato occidentale dell’estetica è più ricco e sicuro. La pornocrazia insegue l’eterna giovinezza, per cui i medici, in genere, servono l’economia di cui sono organici, e non la vita, non sono disponibili a trasferirsi per donare il loro tempo e le loro competenze agli ultimi. Il giuramento di Ippocrate è negato e oggetto di perenne vilipendio. In Afghanistan ci sono 11 milioni di mine per otto milioni di abitanti, le mine non sono certo di produzione afgana, ma i mutilati sono afgani[3]:

 

“ai che non riusciamo a trovare in Italia un solo chirurgo oculista disposto  a venire ad insegnare qui per tre mesi? Continua Gino Tre mesi! E lo pagheremmo  3.000 dollari al mese, mica gratis! Niente fanno troppi soldi là, non mollano. E anche i chirurghi plastici, sono troppi impegnati a rifare tette, sai che gliene frega della pelle ustionata dei bambini bruciati dalle esplosioni delle mine!>>. <<Eppure gli dico  in Italia e in tutti i Paesi occidentali di diritti umani si parla molto, si fanno addirittura guerre in nome dei diritti umani>>. <<Stiamo andando verso un mondo virtuale, virtuali sono anche le guerre, tranne per chi le subisce. Appelli, tavole rotonde, grandi organizzazioni internazionali, fondi…tutto per i diritti umani, eccetto praticarli[…]. “

 

L’impossibile è possibile

Dalle macerie può rinascere la comunità, per cui le carcasse dei carri armati possono trasformarsi in segnale di vita, in un nuovo incipit. Gino Strada ha utilizzato pezzi di carri armati per costruire ospedali, le macerie possono essere convertite in vita[1]:

“A fianco delle mura, le immancabili carcasse di carro armato, <<Ma ci dice Gino alcuni pezzi di quelle carcasse  ci sono servite per costruire l’ospedale. È difficilissimo far arrivare fin qui i materiali da costruzione, i medicinali e le attrezzature sanitarie. Avete visto, la strada che porta al Panshir è bloccata da container pieni di pietre. Bisogna portare tutto con gli asini e i muli“.

L’impossibile è possibile, se la passione per la verità e per le comunità non sono fagocitate dall’assimilazione al sistema. La storia per riprendere il suo cammino necessita, anche, di testimonianze che dimostrino che non è affatto vero che è stata detta l’ultima parola, la prassi ci attende senza eroismi forzati, ma ciascuno può dire il proprio “no” alle macerie che avanzano ed alla polvere che si alza da esse. Il potere delle multinazionali con la sua religione atea pecca di hybris, di tracotanza, ritiene che la realtà è solo plusvalore, invece, innumerevoli sono le voci che si alzano per lottare contro la distruzione dell’umano. Nella realtà c’è molto di più di quanto essi immaginano, e questa eccedenza è la speranza che può trasformarsi in politica e lavoro dello spirito[2]:

“Le campagne estrattive e i loro sostenitori nel governo immancabilmente sottovalutano il potere di questo amore così intenso, proprio perché nessuna somma di denaro lo può estinguere. Quando le persone combattono per un’identità, una cultura, un luogo amato che sono decise a consegnare ai loro nipoti, e per il quale probabilmente i loro antenati fecero tanti sacrifici, non c’è niente che le aziende possano offrire come merce di scambio. Nessuna promessa di sicurezza placherà questo amore, nessuna tangente sarà mai abbastanza”.

Le macerie non sono l’ultima parola, possono essere il doloroso passaggio per una nuova umanità più consapevole e più comunitaria. L’Afghanistan non è solo un luogo geografico, è tra di noi, la violenza che improvvisa appare nelle cronache, non è dissimile dalle macerie afgane, anzi, in entrambi casi non vi è autocoscienza, ci si difende da esse attribuendo il male  a condizioni esterne e non strutturali. La violenza prossima e distante ci appartiene, non è fortuita o casuale, ha la sua genealogia in una struttura e sovrastruttura normalmente violente, al punto da osannare la violenza se utile al sistema, la condanna ipocritamente se diviene disorganica. È assordante il silenzio di tutte le parti politiche che si sono riciclate alla cultura dell’astratto, estraggono il dato dal contesto, perché sanno che il contesto è inemendabile. La barbarie avanza, sta a ciascuno la responsabilità di “creare il proprio katechon”, senza il quale l’umanità è persa nel cinismo amorale del politicamente corretto.

 

[1] Giulietto Chiesa Vauro Afghanistan anno zero Emergency Milano 2001 pag. 56

[2] Ibidem pag. 94

[3] Ibidem pag. 86

[4] Ibidem pag. 118

[5] Ibidem pag. 154

[6] Naomi Klein Una rivoluzione ci salverà perché il capitalismo non è sostenibile Rizzoli Milano 2015 pag. 457

Ritiro delle truppe dall&#39;Afghanistan: solo un problema logistico? – Analisi  Difesa

Fonte foto: Analisi Difesa (da Google)

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