D’Alema e i dalemini

Il motivo fondamentale per il quale tanti apprezzano D’Alema, a sinistra, è che l’uomo è in qualche modo, anche biograficamente, l’ultimo esponente del PCI di Botteghe Oscure. Profuma di una politica d’altri tempi, una politica senz’altro migliore. Basata sullo studio, sull’analisi, sull’intuizione politica, sulle capacità tattiche, sul sapersi spendere nel momento giusto. Una politica che sa ancora di partito, di selezione di classe dirigente, di visione globale. L’uomo indubbiamente possiede in parte queste doti (non nella misura in cui i suoi ammiratori lo accreditano, perché si sa anche vendere molto bene, creandosi attorno l’aura del Guru infallibile, nonostante i terribili errori commessi, in parte anche confessati). L’aura di superiorità, quando è ben costruita, attira consenso, perché induce una forma di speranza inconscia di beneficiarne. E’ d’altra parte l’essenza del concetto di carisma.

Il punto però è che la stima, più o meno ben riposta, nelle capacità intellettuali ed umane fa ombra sul ruolo che l’uomo svolge, ha svolto e svolgerà sempre, sin dai tempi della Bolognina: l’argine contenitivo contro ogni possibile radicalizzazione della sinistra, la barriera frangiflutti, il moderatore che riporta i voti della sinistra dentro le acque tranquille dello spegnimento del conflitto sociale, del compromesso socio-liberista, dell’europeismo servile, dell’accettazione del liberoscambismo. Il D’Alema di oggi continua, nelle sue dichiarazioni, a ripetere le stanche litanie di sempre:

  • il centrosinistra come punto di compromesso fra mercato e forme compensative delle sue diseconomie sociali (evitando quindi di andare ad incidere profondamente sulle ragioni di tali diseconomie),
  • il richiamo alla società civile come antidoto all’analisi di classe,
  • l’europeismo sottomesso all’asse franco-germanico, dove le aperture ad un maggior contenuto pro-crescita e sociale dell’Europa non servono per spostare significativamente il baricentro fra lavoro e capitale, ma solo a ridurre l’area di consenso dei populismo anti-euro, rendendo la costruzione eurista sostenibile nel tempo (non è un caso se il Nostro si sia lasciato andare a ben documentate e sperticate lodi pubbliche prima al Travet del Capitale Emmanuel Valls, ed oggi a Macron, entrambi letti come neutralizzatori, in chiave modernistica, degli ultimi vagiti sinistroidi del socialismo e come costruttori di un compromesso favorevole al capitale globale).

Questo lavoro di argine alla ricostruzione di una sinistra conflittuale, che ha fatto di D’Alema uno dei principali ispiratori del progetto di Partito Democratico, ovvero di un enorme contenitore socialmente anfibio in grado di conciliare liberismo di mercato e tenui forme di protezione sociale (perlopiù da affidare ai nuovi mercati della sussidiarietà orizzontale, svuotando ulteriormente di ruolo il pubblico) il Nostro sarebbe stato disponibile a svolgerlo anche con Renzi. Solo che il giovane fiorentino avesse avuto quel minimo di discernimento politico per evitare di costringere D’Alema ad ingaggiare una battaglia mortale per la sua sopravvivenza politica. Va certamente apprezzato, perché sarebbe ingratitudine politica, il fatto che, dentro tale battaglia per la sua pelle, D’Alema abbia pensato di indebolire Renzi colpendolo sulla battaglia referendaria del 4 Dicembre. Di questa scelta di campo di D’Alema dobbiamo indubbiamente essere tutti quanti grati, ma non basta, evidentemente, per qualificare il personaggio rispetto alla sua visione prospettica di ciò che dovrebbe essere la sinistra, ovvero un Ulivo 2.0 reloaded.

Occorrerebbe un riesame critico vero e completo del dalemismo, delle sue tentazioni di rincorsa al Centro politico, delle sue vocazioni maggioritarie in materia di legge elettorale e riforma costituzionale, del suo globalismo aprioristico, delle scelte infami sulla partecipazione alla guerra contro la Serbia, del pragmatismo cinico come metodo di governo e forma degenerante di un machiavellismo spogliato di qualsiasi principio. Ma evidentemente tutto ciò è oltre le capacità del personaggio e della passiva ammirazione dei suoi fanatici sostenitori.

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Fonte foto: La Repubblica (da Google)

1 commento per “D’Alema e i dalemini

  1. Eros Barone
    16 Luglio 2017 at 16:30

    Resta nella mia memoria emblematico il ricordo di una dichiarazione di Massimo D’Alema, dalla quale risultava che egli stava pagando una rata mensile di oltre ottomila euro per l’acquisto di una barca a vela – acquisto che gli valse, fra l’altro, i complimenti di Berlusconi in una comparsata televisiva di alcuni anni fa -.
    Colui che avrebbe dovuto essere l’erede politico di Togliatti, Longo, Berlinguer e Natta spiegava poi, in un articolo pubblicato dal quotidiano «l’Unità» il 22 dicembre 2006, che, dopo una vita di duro lavoro e di sacrifici, lui e la moglie avevano il sacrosanto diritto di soddisfare i propri desideri acquistando il natante in parola, senza, aggiungiamo noi, che ciò costituisse uno scandalo agli occhi di decine di milioni di lavoratori che faticano a pagare i mutui per la casa e sono attanagliati dalla ‘sindrome della terza settimana’.
    Non meraviglia pertanto che l’allora presidente dei Ds, partito che proclamava, come l’attuale Pd, di “amare l’Italia”, abbia ottenuto piena comprensione e incondizionata solidarietà da appassionati velisti, come Cesare Previti, Lino Jannuzzi e Willer Bordon, laddove una simile circostanza suona quale conferma indubitabile della verità contenuta nel detto latino “similes cum similibus”, con cui è doveroso siglare un episodio ‘minimo’ e collaterale della storia etico-politica italiana: un episodio che però rivela il livello raggiunto, nella sua corsa verso il basso, dal ceto politico della ‘sinistra’ di questo paese.

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