Fantozzi non fa più ridere

Il Virus ha costretto parte della popolazione a confrontarsi con il pericolo della morte dopo anni in cui è stata propagandata un’esistenza dedita alla ricerca di un eterno presente. La speranza è che possa sedimentarsi una nuova consapevolezza capace di mettere finalmente in dubbio determinati schemi mentali che ormai una determinata categoria di esseri umani dà per scontati. Uno di questi è l’associazione tra lavoro ed efficienza.
Questo postulato – oggi pressoché incontestabile – è stato presentato alla popolazione verso la fine degli anni ’70 e ha rappresentato una delle molle decisive della stagione del riflusso. In Italia si può dire che è stato il risultato più riuscito da un punto di vista culturale della marcia dei 40.000 colletti bianchi del 1980 che spense e disintegrò gli scioperi operai. Quella marcia rappresentò il chiavistello per separare il mondo del lavoro tra il settore istruito o semi istruito e i ceti popolari che vivevano ancora della loro fatica fisica nelle attività materiali.
Ma un altro stimolo significativo per iniziare a concepire il lavoro non più come un diritto costituzionalmente garantito che componeva la dignità sociale dell’individuo ma come una elargizione da meritare furono i film di Fantozzi. Il personaggio interpretato da Paolo Villaggio scherniva l’impiegato parassitario, sempre alla ricerca del sotterfugio per evitare di dedicarsi al lavoro, sottomesso con i potenti e crudele con i deboli. Si associava la figura dell’impiegato alla meschinità. Il posto fisso garantito dallo Stato o dalla grande azienda diventava nell’immaginario collettivo da sfigati. Chi era ragazzo negli anni ’80 se appartenente a quei ceti intellettuali e tendenzialmente di sinistra, iniziava a vedere nel dipendente statale la dimensione del grigiore e si prometteva di esercitare – nel proprio futuro – il massimo della creatività in un lavoro che avrebbe coinciso con la pienezza della propria esistenza.
Questa pulsione alla dimensione creativa doveva sempre essere messa a disposizione in un impeto imprenditoriale, che non accettava vincoli gerarchici e che stabiliva interconnessioni personali orizzontali. Il capo non era più un burbero controllore dal quale difendersi né un collega con l’esperienza necessaria alla quale affidarsi, diventava un amico con cui condividere sogni e aspirazioni che misurava la professionalità in un sistema competitivo. L’azienda non era più un mondo con cui essere riconoscenti per la sicurezza conquistata seppur in una dimensione conflittuale, ma un luogo nel quale il proprio dinamismo avrebbe trovato piena soddisfazione e nel quale l’essere all’altezza delle sfide future poteva essere controllato di continuo. Il lavoro si inseriva nella infinita gamma di scelte personali, assimilabile alla sfera intima e sentimentale. La sua contrattazione diventava questione individuale e non collettiva. Il licenziamento, la disoccupazione si collocavano in problematiche psicologiche e non più sociali. Equivalevano al fallimento personale. Veniva così edificata una società basata sulla colpa.
Il capitale già era in via di trasformazione. La contestazione sessantottina lo aveva convinto della necessità di de-burocratizzarsi e di andare incontro alla spinta anti gerarchica dei giovani. Il modello della fantasia al potere è stato immagazzinato fino a tal punto da presentare l’azienda come un mondo democratico e progressista, aperto e tollerante, senza vincoli subordinazione. Ma la successiva spinta culturale – quella anti-fantozziana – ha giocato un ruolo decisivo nel far credere che gli interessi del capitale e quelli dei lavoratori potessero coincidere. Il lavoro ha un valore se è permeato sull’esasperazione della produzione. Quel ceto semi istruito ed educato ormai al sistema della concorrenza ha accettato in maniera del tutto acritica questi nuovi imperativi. Il modello manageriale andava applicato all’intera esistenza. L’espansione della Rete – mito della frontiera contemporaneo – ha definitivamente aperto la strada alla cultura dell’imprenditore di sé stesso.
Anche la terminologia aziendale con cui vengono oggi denominate le mansioni hanno uno scopo ben preciso. Si tende ad affibbiare la qualifica di manager anche alle attività più ripetitive. Riclassificare le mansioni in questa direzione sgancia mentalmente il lavoratore da categorie lavorative classiche che possedevano in sé una spinta solidaristica di classe e quindi di rivendicazione collettiva. Dare l’illusione della managerialità a qualsiasi lavoratore elargisce un’impronta ideologica e individualista dei rapporti di subordinazione che tendono a essere nascosti dal capitale.
Impossibile costruire così vincoli di solidarietà tra colleghi. La condivisione delle vite nel medesimo luogo di lavoro ha assunto tratti di convivialità nella continua sfida a superarsi in quello che è stato definito il lavoro 24 su 24 per 7, ma è diventata sostanzialmente indifferente alle questioni di giustizia sociale dei colleghi. Il licenziamento si è americanizzato. Se un tempo si dava per scontata l’ingiustizia che era alla base della decisione arbitraria dell’azienda, oggi – poiché trasformato in questione personale – deve apparire come una nuova avventura nella quale ci si potrà rigenerare. Rinascere nella medesima esistenza. Eterno presente appunto. Facile così convincere quella parte della popolazione che non debbano esistere tutele, garanzie, contratti stabili. Semplice anche negare l’esistenza del conflitto, quello tra capitale e lavoro e che la politica si debba occupare – attraverso la pressione di strutture collettive – di quella contrapposizione.
Contemporaneamente la Rete ha espanso l’area dei lavori intellettuali nel campo dell’immateriale. La finanza, la moda, il marketing il design trattano di beni non palpabili. Il ceto intellettuale quindi si è progressivamente slegato dalla produzione di beni essenziali. Il lavoro si consuma in una bolla sganciata dalla realtà. Chi ancora si sporca le mani con lavori legati ai beni primari è visto come un estraneo, non appartenente alla casta imprenditoriale dei creativi. Seppur sfruttata, senza protezioni sociali, con salari insufficienti per una costruzione duratura del proprio futuro, questa tipologia di lavoratori non ha alcun sentimento di solidarietà nei confronti di chi ancora è legato alla produzione di beni solidi, con chi non può quindi essere allettato dal processo identificativo con il sistema impresa. Ha introiettato alla perfezione l’ideologia del merito.
Per questo va di moda oggi puntare il dito contro il popolo bue, gretto, ignorante. Si può ironizzare sulla necessità di limitare il suffragio universale perché questo meccanismo riporta in auge il principio dei primi liberali – che non erano così democratici come si vorrebbe far credere. Solo chi produce gode di diritti civili e politici. Ma tutti possono diventare produttori. Così questo mondo è legato istintivamente a spazi istituzionali nei quali la decisione è affidata ai tecnici, ai competenti. Il popolo non deve avvicinarsi alla decisione perché gli interessi che porta sono arretrati, non in linea con la pacifica espansione del modello d’impresa. Insomma viva la Governance. Questo ceto, seppur egualmente colpito dalla crisi, incerto per assenza di futuro, è assolutamente inflessibile nel propagandare i dispositivi di comando del capitale. Non ha ormai coscienza del proprio sfruttamento. I diritti sono connessi solo alle proprie capacità, chi reclama per la propria sicurezza è ancora ancorato a modelli parassitari.
Il confronto con la sicurezza della morte che si riaffaccia nella vita collettiva, dovrebbe far riflettere questa parte della popolazione, tendenzialmente legata alla sinistra politica. L’idea che il mondo fantozziano, seppur caratterizzato da meccanismi di vita routinari e spesso “piccini”, conservava l’idea rivoluzionaria che il lavoro rappresentasse un diritto tutelato dallo Stato, che le proprie capacità non potessero essere spremute sull’altare della performance, che la realizzazione di sé non coincidesse con l’avanzata solitaria fino al traguardo del bonus aziendale. Fuori esisteva ancora una dimensione collettiva, ispirata a principi solidaristici. L’allargamento dei propri orizzonti attraverso la vita nei partiti, nei sindacati. La propensione alla valorizzazione di passioni culturali e sociali. Si credeva ancora che l’interesse generale non si limitasse all’esaltazione dell’interesse privato.
Se così non fosse all’emergere della catastrofe economica che verrà alla luce nei prossimi mesi, quando le conseguenti rivolte sociali saranno contrastate, represse ed emarginate in nome dell’austerità purificatrice dalla colpa del debito, dell’aver vissuto al di sopra delle nostre possibilità e con tutto l’armamentario ideologico neo-liberista sulla predominanza della produttività nei confronti dei diritti, i creativi performanti si ritroveranno ancora una volta alleati del più bieco capitalismo predatorio e dei loro rappresentanti politici. Quelli che hanno disintegrato la Costituzione e ancora confondono il cittadino con il capitale umano.
Grazie Paolo per averci fatto ammettere che la corazzata Potëmkin ...

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