Reddito di cittadinanza e rivoluzione tecnologica: quali strumenti e quali prospettive?

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Foto: Greenreport (da Google)

 

In un recente intervento sull’Huffington Post (http://www.huffingtonpost.it/luca-casarini/sinistra-e-reddito-realismo-per-utopisti_a_23320582/?utm_hp_ref=it-homepage) Luca Casarini rilancia il tema del reddito di cittadinanza. Si tratta di un tema centrale, sia in termini contingenti, per il programma elettorale della sinistra, visto che da destra, e nello specifico da Berlusconi, è stato rilanciato, nella versione liberista proposta da Friedman, ma anche, e direi soprattutto, in termini strategici e di lungo periodo. L’ondata tecnologica che sta per investire i mercati del lavoro di tutto il mondo sviluppato, basata sull’associazione fra robotica ed intelligenza artificiale, è di tipo del tutto inedito nella storia del capitalismo, e rischia di smentire persino le ottimistiche previsioni schumpeteriane basate sull’immagine della distruzione creatrice.

A differenza delle rivoluzioni tecnologiche pregresse, qui siamo sull’orlo dell’introduzione di un tipo di macchine con caratteristiche intrinseche completamente diverse rispetto al passato: l’intelligenza artificiale, con buona pace dei cultori di distopie in stile Terminator, non potrà mai raggiungere il livello della coscienza umana, perché, essendo basata su modelli matematici, sottostà al primo teorema di incompletezza di Goedel[1], però, a differenza di qualsiasi altra tecnologia, è dotata (entro i limiti decisi dal progettista, ovviamente) di capacità di correzione automatica degli errori, di autoapprendimento, di autoriparazione e persino di autoriproduzione. Queste caratteristiche uniche, associate alla capacità crescente delle biotecnologie di modificare ad hoc la vita (ancora una volta, a modificare la vita, non a crearla ex nihilo da materia inanimata, come cerca di venderci Craig Venter nei suoi deliri) rischiano di azzerare le tipiche professioni che si generano per prime dopo un’ondata di innovazione tecnologica, e che per prime alleviano il problema della disoccupazione generata dall’innovazione stessa: le professioni di assistenza tecnica, manutenzione, personalizzazione del prodotto. La cyberintelligenza, così come l‘organismo biotech, sono in grado di apprendere, ed entro certi limiti adattarsi, curarsi e riprodursi da soli[2].

L’impatto occupazionale della rivoluzione tecnologica imminente, quindi, rischia di essere molto più devastante di qualsiasi altra rivoluzione precedente. Rischiano di non esserci quelle nuove professioni che si creano immediatamente, in corrispondenza della rivoluzione: il macchinista che guida la locomotiva, e che sostituisce il posto di lavoro perso dal cocchiere, il tecnico informatico che sostituisce le occupazioni distrutte del linotipista o della dattilografa. L’elevata autonomia di sviluppo interno e di gestione che le nuove tecnologie della quarta rivoluzione industriale possiedono rischia infatti di lasciare in vita soltanto le professioni direttive, creative o progettuali.  Il rischio concreto è quello di un mondo ridotto ad una cittadella di ricchissimi e ben istruiti creativi, con, fuori dalle mura, un mondo di esclusi, emarginati strutturalmente da un sistema socio-culturale che continua ad utilizzare, come strumento unico di identificazione dell’individuo nella comunità, il lavoro che egli svolge.

E’ chiaro, quindi, che occorre prevedere uno strumento universalistico di sostegno reddituale, sganciato dallo svolgimento del segmento “socialmente necessario” del lavoro, così come definito da Marx (cioè il segmento che, nelle condizioni date di tecnica produttiva e produttività media, conferisce valore alle merci, e quindi un plusvalore estraibile) per garantire una esistenza dignitosa ai tanti lavoratori socialmente non più necessari causati da una ondata di innovazione che difficilmente, nel medio periodo, riuscirà a riassorbire la disoccupazione tecnologica creata. La crescente precarizzazione del lavoro, che lo aggancia strettamente all’esistenza ed al tempo di realizzazione di un progetto produttivo, è solo il prodromo a questa versione liberista delle storiche rivendicazioni della sinistra sulla riduzione della quantità di lavoro individuale.

Il problema che sorge è però tutto nella costruzione dello strumento. Nessuno concorda, da sinistra, con la tassazione negativa proposta da Friedman e accolta da Berlusconi in quanto, riducendo il gettito fiscale, essa è di fatto il prodromo allo smantellamento della spesa pubblica e quindi del Welfare. Casarini, nell’articolo citato in premessa, si batte per uno strumento di integrazione reddituale universale e sganciato dalla prestazione lavorativa e da qualsiasi condizionalità in merito all’impegno del soggetto in un percorso di reperimento di un lavoro. Si tratta, in sostanza, della vecchia proposta di reddito di cittadinanza presentata dalla ex SEL. Essa sarebbe quindi, nelle intenzioni di Casarini, uno strumento di autonomizzazione dell’individuo rispetto al lavoro salariato (una forma attualizzata del vecchio concetto di salario come variabile indipendente) – ed in questo riecheggia, senza citarle, le tesi di Negri e Vercellone circa il reddito di cittadinanza come strumento di affrancamento del precariato del general intellect dalle sue forme specifiche di sfruttamento del plusvalore intellettuale – che non distruggerebbe il welfare pubblico, in quanto, rifacendosi alle tesi di Varoufakis sul “dividendo basico universale”, non sarebbe alimentato da un aggravio della fiscalità generale (con conseguente spinta verso il parallelo taglio della spesa pubblica) e che non alimenterebbe la sottocultura liberista della “mancia” temporanea in cambio di una prestazione lavorativa, o dell’impegno a reperire rapidamente una qualsiasi occupazione, anche dequalificante[3].

L’argomento forse centrale di Casarini e Varoufakis è però di tipo redistributivo: un reddito universale a-condizionale ridurrebbe la sperequazione fra quel ceto finanziario e speculativo globalizzato che fondamentalmente vive di rendita da attività non produttive ed il mondo del lavoro salariato, impoveritosi progressivamente per via delle politiche austeritarie funzionali alle esigenze del capitalismo finanziario e per via della svalorizzazione crescente del lavoro produttivo, a fronte del peso crescente del profitto finanziario. In questo allargamento delle diseguaglianze Casarini vede un fallimento storico della socialdemocrazia, in realtà associando impropriamente il Termine “socialdemocrazia” a quello di “riformismo liberale” della sinistra post-caduta del Muro di Berlino.

A ben vedere, però, gli argomenti di Casarini (e di Negri, e di Varoufakis, e in generale dei promotori di una forma di reddito sociale universale a-condizionale) non sembrano convincenti. Non è vero che tale modalità costituisca una forma di autonomizzazione dell’individuo, fintanto che la società rimane impregnata di una base valoriale lavoristica, per la quale, come detto dianzi, l’assimilazione sociale dipende in modo cruciale dall’attività professionale svolta. Il percettore di un reddito di cittadinanza a-condizionale sarebbe considerato, culturalmente, socialmente e psicologicamente, un reietto, poco più che un mendicante. Non ci sono indicazioni circa un cambiamento radicale della attuale cultura sociale lavoristica, e non ci possono essere, perché essa è la base sulla quale poggia l’edificio del pensiero liberale dominante (in cui l’individuo è al centro di processi di autovalorizzazione imperniati sul progresso nel suo lavoro). Non è vero che un siffatto strumento reddituale metta il welfare al riparo da tentazioni di taglio. Varoufakis propone di utilizzare, come fonte finanziaria per tale strumento, una quota “sociale” degli aumenti di capitale realizzati dalle imprese e dei relativi dividendi, da far confluire in un fondo autonomo, senza usare la fiscalità, e quindi in modo indipendente rispetto al bilancio dello Stato, il che dovrebbe garantire una assenza di correlazione percepita fra reddito di cittadinanza e riduzione della spesa pubblica in welfare. Ma, a ben vedere, questa trovata è un pochino come la vecchia storiella della moglie fedifraga che cerca di nascondere l’amante agli occhi del marito, celandolo dietro le tende della camera da letto. Basta che il marito tiri le tende, e l’amante ricompare. I dividendi del capitale sono base imponibile, destinarne una quota ad un reddito sociale equivale a ridurre la base imponibile, quindi il gettito fiscale, e di conseguenza riproporre l’idea di bilanciare le perdite fiscali con tagli alla spesa sociale. Per finire, niente garantirebbe che l’entità di tale “dividendo basico universale” non sarebbe talmente modesta da configurare, ancora una volta, quella “mancia” umiliante che Casarini stigmatizza giustamente, quando critica il provvedimento del REI introdotto dal Governo Gentiloni. Senza contare i problemi tecnici enormi nello stabilire, per imprese multinazionali, specie quelle che operano nell’informatica e sul web, quale parte del loro stock di capitale sia ubicata dentro il Paese, e possa essere soggetta al dividendo sociale.

Anche l’argomento redistributivo va preso con le molle: se la questione è la redistribuzione, essa si può fare non solo tramite l’introduzione di un reddito di cittadinanza ma anche, ed in modo molto più efficace, ampliando l’accesso ai servizi welfaristici essenziali (scuola, sanità, alloggio) rendendoli gratuiti e più capillari. Una forma di reddito minimo è già prevista, oggi, nella contrattazione collettiva di categoria, in cui si prevedono i salari minimi che ogni azienda appartenente a quella categoria deve corrispondere ad ogni livello contrattuale di inquadramento del personale. Il problema redistributivo vero, allora, è quello di difendere il ruolo dei contratti collettivi, frenandone l’erosione dal basso da parte della contrattazione aziendale e territoriale, di portare un maggior numero di lavoratori verso la contrattazione collettiva, combattendo il precariato involontario e di maggior sfruttamento, e di predisporre forme di reddito di cittadinanza solo per determinate categorie (disoccupati di lungo periodo che non sono più titolari di indennità di disoccupazione, precariato non riassorbibile, nelle fasi di transizione contrattuale).

Evidentemente, quindi, nel breve periodo, cioè nel ciclo di politica che si apre con la campagna elettorale, una proposta sensata di sinistra dovrebbe prevedere un reddito di cittadinanza condizionale, destinato a chi il reddito non ce l’ha, perché ex dipendente caduto in disoccupazione di lungo periodo, esodato dalla Fornero o precario con contratto scaduto, al contempo combattendo la precarietà involontaria con forme di politica attiva mirate alla stabilizzazione dei lavoratori (reintroducendo, magari, il vecchio articolo 18 almeno per i settori, come la P.A., i monopoli naturali o i servizi meno esposti alla concorrenza internazionale) e difendendo il ruolo dei CCNL, estendendone le previsioni, in materia di salario minimo contrattuale, anche ai lavoratori che operano dentro le imprese appartenenti alla categoria stessa ma non sono coperti dal CCNL stesso (tipicamente perché precari). Il reddito di cittadinanza condizionale sarebbe quindi orientato a percorsi assistiti dai servizi pubblici per l’impiego, finalizzati al reperimento di un impiego, e non sganciato da essi, perché, in fin dei conti, è il lavoro che garantisce, oltre al reddito, la dignità sociale della persona. Ovviamente, gli obiettivi occupazionali dovrebbero essere collegati con il titolo di studio e la professionalità specifica del soggetto, evitando che egli debba accettare una occupazione qualsiasi, anche dequalificante.

La rivoluzione tecnologica in atto ci conduce però anche a riflettere sul medio e lungo periodo, e non solo sulle proposte immediate, delineate sopra. In tale ottica, la strada maestra per dare soluzione al rebus è contenuta in una frase in cui, seppur confusamente, Casarini evidenzia di avere consapevolezza del problema di fondo, affermando che “la “piena occupazione, nel tempo dei robot, della rendita e della finanza, non può ascriversi a uno sviluppo o a una crescita di tipo capitalistico, ma solo a scelte politiche derivanti dalla conversione ecologica e sociale della produzione”. Qui risiede la chiave, tanto ovvia quanto difficile da realizzare: nel lungo periodo, quando il compimento della rivoluzione cibernetica avrà distrutto milioni di posti di lavoro senza un adeguato incremento di “nuovi mestieri”, il problema non sarà quello del reddito di cittadinanza, ma del lavoro di cittadinanza: l’equazione redistributiva si risolverà offrendo milioni di posti di lavoro non immediatamente produttivi (nella cura alla persona o all’ambiente, ad esempio) e sganciati da una logica di plusvalore, quindi da una esigenza di aumento della produttività. Sarà la possibilità di far lavorare le persone oltre il perimetro della cittadella dei lavori direttivi-creativi che sopravvivranno alla rivoluzione robotica, che garantirà eguaglianza. E per questo, servirà un ruolo molto forte, molto più forte di quanto si possa pensare, dello Stato e della programmazione economica e sociale.

[1] Che implica che, in qualsiasi modello matematico coerente, debbano esistere necessariamente enunciati indecidibili o non dimostrabili. Il che è esattamente il contrario del funzionamento della coscienza umana che, di fronte ad enunciati indecidibili sotto il profilo logico, fa ricorso alla religione o alla metafisica, e che quindi, a differenza di una intelligenza artificiale, è in grado di “completarsi” tramite un pensiero non vincolato da leggi matematiche e logiche. Il che implica anche l’impossibilità, per l’intelligenza artificiale, di dotarsi di una autoconsapevolezza della propria esistenza, di una coscienza dell’Io, poiché l’enunciato “io esisto” è o indimostrabile o contradditorio se rimane dentro un modello puramente logico, quindi non coerente.

[2] Non è fantascienza: il robot che si produce da solo in catena di montaggio, senza intervento umano, è già stato sperimentato positivamente.

[3] La proposta di Varoufakis è rinvenibile su https://www.project-syndicate.org/commentary/basic-income-funded-by-capital-income-by-yanis-varoufakis-2016-10

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