Da Stavropol al Metropol

2608210

Poco più di cinquant’anni fa, nel 1966, si inaugurava a Stavropol, ribattezzata all’occorrenza come Togliatti (nome confermato nel 2016, con poco meno del 90% dei voti), la nuova grande fabbrica automobilistica costruita dalla Fiat. I lavori erano cominciati nei primi anni sessanta, in piena guerra fredda e con due crisi, quella di Berlino e quella dei missili a Cuba, che avevano rischiato di trasformarla in calda. Pure la cosa non suscitò alcuno scandalo; e non solo perché Agnelli ne aveva opportunamente discusso con gli americani. Oggi anche se si azzardasse a proporre un’ operazione del genere sarebbe travolto dalle accuse di alto tradimento e di intelligenza con il nemico ( come è capitato, per molto meno, all’incauto Salvini ).
Sempre nello stesso periodo, il governo di centro-sinistra, con Nenni ministro degli esteri, riconosceva la Cina. Sarebbe stato seguito, tre anni dopo, da Nixon. Oggi siamo stati messi all’indice dalle ”nazioni democratiche” per non avere immediatamente riconosciuto Guaidò.
Nel 1980 i ministri degli esteri europei, riuniti a Venezia, dichiaravano solennemente che caposaldo per qualsiasi accordo di pace in Medio Oriente doveva essere il riconoscimento dell’Olp come unico rappresentante del popolo palestinese e del relativo diritto all’autodeterminazione. Oggi ci si astiene anche dal menzionare il problema palestinese, nel timore di essere tacciati di antisemitismo da Netanyahu e dai suoi tirapiedi locali.
Nel corso dei decenni successivi alla seconda guerra mondiale i governi italiani di vario colore sostennero l’indipendenza algerina, mantennero fermi i rapporti con la Libia, portarono avanti iniziative autonome per arrivare ad un accordo tra israeliani e palestinesi, tennero ferma una presenza italiana di dialogo e di mediazione. Oggi siamo stati trascinati, e da altri, in un conflitto, quello libico, per noi totalmente rovinoso, abbiamo messo i palestinesi nel sottoscala e siamo giunti ad appoggiare passivamente la guerra economica scatenata da Trump contro l’Iran prima ancora che ci venisse richiesto.
Allora c’era la guerra fredda, c’era l’Urss e c’erano i blocchi; quelli che assieme al fattore K ci soffocavano e limitavano fortemente la nostra libertà di movimento e la portata delle nostre iniziative (almeno così dicevano autorevoli compagni). Oggi dovremmo tutti essere più liberi; come mai, allora, siamo diventati più subalterni e più servili di prima?
Una domanda che ciascuno di noi dovrebbe porsi così da evitare che, a dare le risposte, rimangano solo avvelenatori di pozzi o cultori del pensiero unico.
Chi scrive azzarda tre ipotesi, basate sugli elementi di rottura con il passato avvenuti negli ultimi trent’anni e sulla loro sequenza temporale.
Nel primo si collegano strettamente gli effetti della caduta del muro, del comunismo e dell’Urss con quelli della vera e propria rivoluzione copernicana alimentata da mani pulite.
Prima di allora la specificità italiana (economia mista, interpretazione difensiva e geograficamente limitata dei vincoli Nato, politica mediterranea e mediorientale) era stata tollerata: perché eravamo un paese di frontiera, per la fragilità delle nostre istituzioni e perché ospitavamo il partito comunista più forte e autorevole dell’occidente.
Dopo la caduta del muro e dopo Tangentopoli questa tolleranza non aveva più ragion d’essere. E poteva essere sostituita dalla necessaria dose di severità dovuta ad un paese da tempo giudicato malato e, divina sorpresa, con il concorso attivo del paziente.
Mani pulite, al di là dei suoi linciaggi e delle sue false coscienze è infatti questo: la nascita di un paziente disposto a collaborare. Perché considera l’Italia costruita dalla prima repubblica un’anomalia; e perché, pentiti (leggi Pd) in prima fila, ritiene che l’ancoraggio all’occidente in generale e alla disciplina europea in particolare sia essenziale per eliminarla. Ciò che lo renderà disponibile a condividere tutte le sue richieste magari ancor prima che queste vengano formulate.
Nel contempo, però, e qui siamo alla seconda fase del nostro ciclo, il progetto europeo entrava in una fase involutiva di cui ancora non si vede la fine.
Niente continente di pace; al contrario conflitti e minacce di ogni sorta alle nostre frontiere. Nessun disegno comune sul piano internazionale, ma libertà di movimento delegata alle potenze vincitrici della seconda guerra mondiale. Niente integrazione basata su politiche e progetti comuni ma status quo incardinato su regole restrittive.
Tutto ciò produce debolezza. E quindi predispone, necessariamente, alla subalternità. In un circolo vizioso che, dall’Europa all’Italia, si alimenta reciprocamente. E di cui non si vede la fine.
Ad accentuare questa crisi, fino al punto di rottura, è stata poi l’America di Trump, ma anche di Bannon, Bolton e del complesso militare-industriale. Volti, tutti: a “rifare l’America grande”a scapito degli altri, a imporre, con tutti i mezzi, la propria legge e, per converso, a ignorare tutte le regole e le istituzioni su cui si basa un ordine internazionale degno di questo nome. Saranno naturalmente i più deboli – l’Europa, l’Italia – a subire in pieno gli effetti collaterali di questa strategia, e senza alcuna capacità di reagire.
Tutti zitti, sguardo a terra, in attesa che passi la nottata. Ma la nottata rischia di essere molto più lunga del previsto.
E allora? Tutta colpa della caduta del muro? Ma il muro è caduto. Perché doveva cadere. E perché la storia non si fa con i se e con i ma. Diciamo soltanto che l’Europa occidentale – e con essa in particolare l’Italia – sono stati i grandi beneficiari del sistema dei blocchi. E che, tra questi benefici, c’era anche la possibilità di sognare futuri radiosi di libertà. E che, aperte le porte, siamo stati del tutto incapaci di gestirli; fino a ridurci in una condizione di dipendenza assai più pesante della prima.
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Fonte foto: Corriere della Sera (da Google)

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