E’ la stampa, bellezza!

Di Siria, Iraq, Turchia, Francia, Argentina, Venezuela e..il Sole24 ore

Se non state attenti, i media vi faranno odiare le persone che vengono oppresse e amare quelle che opprimono” (Malcom X).

Arrestato in Puglia un iracheno che agevolava l’arrivo su gommoni di terroristi. Che assurdità!  Si fosse mai visto un agente Cia o Mossad arrivare su barconi!” (Anonimo)

Ci felicitiamo con Erdogan e il popolo turco. Queste elezioni riflettono la stabilità  e la civiltà della Turchia, capitale del califfato islamico e difensore dei valori politici e morali” (Hamas in Deutsche Presse Agentur, 2/11/2015)

Quelli che dicono, ma no, non è vero che la tv determina le scelte politiche, che i media sono una potenza che asfalta ogni pensiero indipendente. Stanno perlopiù a sinistra e assolvono a una funzione consolatoria e auto-assolutoria. Come quando Mao, in una delle sue rare traveggole, definì l’imperialismo “tigre di carta”. L’informazione in Occidente è invece una potenza geopolitica senza la quale quella delle armi e della finanza avrebberoi, come dire, le vele flosce della bonaccia.e girerebbero alla deriva. Quando, a favorire regime change elettorali o colorati più delle armi e dei golpe potè la CNN.

Il petrolio di Erdogan? Ma su, non esageriamo!

Cominciamo dal basso, deontologicamente parlando. Qualche brava persona s’è entusiasmata, o, quanto meno, è rimasta positivamente sorpresa, da un recente pezzullo sul giornale della Confindustria a firma di uno dei sui esperti di Medioriente. Vi si afferma, con sicumera, che nel marasma mediorientale l’interesse turco e occidentale per i rifornimenti petroliferi dell’Isis conta una cippa, trattandosi “di poche migliai di barili”. Tutt’al più sarebbe solo il “tentativo di creare un casus belli”. Mica del sultanotto che spera di tirarsi dietro, per una vittoria su Assad e per la conquista di brani di Siria e Iraq, le riluttanze europee e di settori USA e Nato. No, no, ragazzi, il tentativo è della Russia “che vuole punire Erdogan anche militarmente e darà armi ai curdi siriani e del PKK” ! Tra verità scontate, vere e proprie sciocchezze e depistaggi, la questione petrolio Isis-Erdogan costituisce il mimetizzato baricentro dell’articolessa. Insieme alla denuncia dell’aggressività dell’orso russo. Mica di Erdogan e della Nato i quali, oltre che ai jihadisti, ai curdi di ogni obbedienza, iracheni e siriani, stanno anch’essi fornendo armi e assistenza militare, ma stavolta non perché salvino la Siria, o l’Iraq Perché, al contrario, contribuiscano alla frantumazione dei due Stati già multietnici, multiconfessionali, laici, unitari.

L’analista che si esprime sul giornale incaricato di promuovere gli interessi nazionali e globali della cupola transnazionale, ridicolizzando le pratiche gangsteristiche del clan Erdogan, reagisce all’imbarazzo dei regimi becchini degli Stati arabi liberi di fronte alla prova provata dai russi (ma anche, nel nostro piccolo, da alcuni nicchiaroli come noi) che il capo della colonna portante dell’imperialismo nell’area non si rivela solo masskiller delle proprie popolazioni e, con l’Arabia Saudita e tagliateste minori, armiere, ufficiale pagatore e santuario dei jihadisti. Quelle macchioline sull’integrità dei preziosi alleati erano già state sbianchettate dall’operazione Parigi e conseguente connubio orgasmatico UE-Turchia, costato alla prima 3 miliardi per non farsi invadere da migranti e la riapertura gratis a Erdogan delle porte del bordello europeo.

L’imbarazzo così dissipato, è ripiombato sui congiurati occidentali, vero macigno di Sisifo, ora che si è visto come il mazzabubù turco sia anche il boss della mafia di Stato turco-jihadista-israeliana che, grazie ai partner Isis (presuntamente da obliterare), trae incrementi di potenza economica e, dunque, politica e militare, dal furto e contrabbando del petrolio. Petrolio del nordest siriano, di Mosul e Kirkuk, che, come quello della Libia, a sberleffo degli ecochiacchiericci di Parigi, svolge un ruolo strategico per la sopravvivenza delle vacillanti economie occidentali in ansia di espansione predatoria. Se poi qualche perplessità nei meno boccaloni rimane circa la presentabilità di un simile figuro nel consesso civile, ecco che il bravo Alberto Negri ci porta  a parteggiare per il governo Usa. Mica è padrino e complice del demente turco all’interno del manicomio criminale Nato. Anzi, “vuole assestare a Erdogan una lezione” e, anzi, da tempo tenta di incrinare dall’interno il potere di Erdogan e del partito islamico AKP”.

Usa puri e duri. Pur fornendo agli F16 turchi le coordinate per abbattere il Su-24 russo, pur dettando legge ai cieli e alle FFAA turche e mediorientali dalla megabase di Incirlik, pur imponendo agli europei l’ingresso del tirannosauro levantino che ci minaccia con la piaga delle cavallette arabe, pur avendo evitato per un anno di colpire, nella loro “guerra all’Isis”, colonne di autocisterne Isis fornitrici sottocosto di miliardi di dollari alla tribù regnante ad Ankara, di milioni di barili a Israele (vedi mappa) e a disinvolte società occidentali, sono sopra ogni sospetto perché a Erdogan “vogliono assestare una lezione”. E a proposito di società che, anche alle nostre pompe, potrebbero smerciare petrolio ricavato dal business con i razziatori tagliagole, perché Renzi, per far qualcosa contro l’Isis anche lui, non sollecita la Guardia di Finanza, la Dogana, i carabinieri, a dare un’occhiata alle bolle di carico e scarico, che so, dei Moratti, dei Garrone, dell’Eni…

Grande Negri! In perfetta continuità deontologica con la sua analisi libica, sciorinata in tv a “Presa diretta”. In un coretto di gentiluomini cari a Soros, che gelavano il conduttore Jacona con i Grand Guignol di Gheddafi, “incitatore degli stupri di massa delle donne libiche”, indicava come primo impegno dei liberatori della Libia quello di costruire finalmente delle scuole. Evidentemente là dove Gheddafi aveva costruito solo lager per migranti e oppositori. Questo nel paese che l’ONU aveva classificato primo per scolarizzazione di tutta l’Africa.

Le vene aperte del Medioriente e chi vi si abbevera

Lasciando nel cassonetto fuori casa queste miserie, vediamo cosa succede da quelle parti, sotto l’occhio vigile (preoccupato? compiaciuto? chiediamolo a Negri) degli Usa. Grazie ai curdi iracheni, carissimi amici di Ankara e soci di Isis nel contrabbando del petrolio, si è potuto moltiplicare il flusso di dollari verso le tasche di papà Erdogan e le compagnie di trasporto marittimo del figliolo Bilal, compensando quello dalla Siria, temporaneamente ridotto dall’intervento russo e dall’avanzata delle forze patriottiche. Nella mappa qui sopra sono tracciate le due direttrici di un contrabbando che fonti locali ci dicono facilitato da mediatori curdi, siriani, turchi e israeliani. Dai giacimenti sotto controllo Isis e curdi, il greggio giunge al suo hub nella città araba di Zakho, a nord di Mosul, sotto controllo congiunto curdo-turco. Da lì partono verso il porto di Ceyhan circa 632.000 barili al giorno, una bazzecola per Negri, sia in cisterna, sia attraverso un vecchio oleodotto (che il PKK, meno amico di Erdogan, sabotò l’agosto scorso, causando a Bilal una perdita di 250 milioni di dollari).

Sappiamo, e non da mo’, che l’intento imperialsionista è di squartare e ridurre in bantustan tutti gli Stati non conformi della regione. Sulla lista, dopo Libia, Siria, Iraq, Yemen, ci sta anche l’Egitto. Troppo grosso per ora da prendere di petto. A punirlo e angheriarlo per il suo flirt con la Russia e il suo appoggio agli anti-islamisti laici di Tobruk, che combattono i Fratelli musulmani e la loro prole jihadista, bastano per ora i terroristi Isis nel Sinai, al Cairo, ad Alessandria. Se l’accaparramento di petrolio è, come è, il perno del capitalismo neo- imperialista, capita che in maggioranza si trovi là dove ci si gioca il dominio geopolitico del mondo. E per la gestione degli snodi geopolitici non bastano le cisterne trafficate dal mafie regionali. Occorre il controllo del territorio. Che è anche il presupposto per l’affermazione della potenza regionale neo-ottomana, in coabitazione – finchè dura – con Arabia Saudita e il suo Isis, con Israele e con la partecipazione subalterna dei curdi di Iraq e Siria (questi ultimi ora anch’essi blanditi e armati dagli Usa e perciò in preda a lacerazione interne).

Iraq, arriva il califfo vero

Ed ecco che il 4 dicembre, come ci racconta anche il governativo turco “Hurryet”, a Bashiqa, una trentina di km a nord di Mosul, seconda città irachena e centro di una bonanza petrolifera, arriva un reggimento di soldati turchi corredati di venti carri armati, artiglieria, droni, elicotteri. L’avanguardia di una forza di spedizione  Si tratta di una base dove, da qualche anno, i turchi addestrano peshmerga (gli “addestratori” della Pinotti operano a Irbil). E’ il trampolino di lancio verso Mosul. Massimo centro economico e strategico della regione che vorrebbero anche i curdi, per quanto totalmente arabo, ma si dovranno accontentare dell’altrettanto araba Kirkuk(che apre l’oleodotto verso Haifa, Israele). La Turchia non dimentica che Mosul fu strappata all’impero ottomano in disfacimento e messa sotto mandato britannico fino al 1932 (l’imposero, contro le rivolte arabe, i gas di Churchill su Baghdad). E non ha mai cessato di rivendicarla.

Ha voglia Baghdad a denunciare la violazione della sovranità nell’assenza di un mandato ONU e a esigere l’immediato ritiro. Visto che gli Usa chiudono un occhio (altro che puniti da Obama), ci vorrebbe anche qui, a dare peso alla protesta, l’intervento russo. Intervento invocato dal parlamento iracheno, ma frenato dal premier Abadi, angosciato dalla possibile reazione dei 3.500 e passa marines sul posto e da altre migliaia di loro colleghi contractors. Ora le alternative sembrerebbeo tre: o Mosul viene lasciata in mano all’Isis, o se la prendono i curdi, o ne fa un boccone Ankara. Nei primi due casi, visto che le tre forze in campo collaborano alla frammentazione dell’Iraq, si arriverebbe probabilmente a un accordo concepito in Nato. La Turchia, con la garanzia dell’indisturbato flusso di idrocarburi, assumerebbe il ruolo di protettore, gli altri di proconsoli..

Fattosi neocon, Obama si dà una mossa in Siria. Contro Assad.

Se la gestione della rapina di petrolio iracheno è lasciata ai protagonisti autoctoni, gli alloctoni Usa-Nato si occupano di quello siriano. In parallelo con l’occupazione turca del Nord Iraq, forze militari Usa sono penetrate dalla Turchia nel nordest siriano e hanno occupato l’aeroporto di Abu Hajar, nella regione di Hasaka (città araba tolta all’Isis dai curdi dell’YPG. Curdi già mitizzati dai nostri guru sinistri, ma ora fonte di qualche perplessità davanti alla loro nuova intesa con gli Usa, finalizzata alla spartizione della Siria tra Israele (Golan), Turchia, Curdi, protettorati coloniali. Tecnici Usa stanno costruendo una pista di 2,5 km, larga 250 m, adatta ai più pesanti bombardieri e aerei da trasporto. I lavoratori impiegati sono curdi. L’evidenza mostra che l’intervento statunitense a tutto mira fuorchè a salvare la Siria  e l’Iraq dai jihadisti, allora e sempre mercenari Nato-Golfo. Un’evidenza già mille volte provata dai rifornimenti della Coalizione all’Isis in Iraq, è ribadita da questa mossa, neanche comunicata a Damasco. Ennesima conferma, il bombardamento Usa della base siriana di Deir Al Zour (6 dicembre): nove missili, non uno, magari per sbaglio, che hanno ucciso o ferito 16 soldati e devastato il campo. Ennesima flagrante violazione della sovranità siriana, in mancanza di un qualsiasi mandato internazionale (e lo sarebbe anche se bombardassero dune di sabbia), denunciata da Damasco a un’ONU sorda e cieca.

Francia, Argentina, Venezuela: la debacle

I tre tremendi sganassoni rifilati all’umanità – elezioni francesi, argentine, venezuelane –  arrivano da dati oggettivi, cause riconoscibili, ma deflagrano e stordiscono, proprio come le bombe assordanti in uso presso i repressori di massa, grazie alla carica distruttiva che gli aggiungono i trasmettitori mediatici. Il che conferma, lo dico in tutti i miei incontri pubblici e mi viene confermato dallo smarrimento di chi mi ascolta, che l’informazione non è una tigre di carta. Informazione negata, occultata, manomessa, falsa. Il controcanto delle voci altre è sepolto sotto le bombe, o eliminato dai satelliti, o reso stravagante e inattendibile.

L’operazione di regime perpetrata a Parigi, pur nelle sue dimensioni sanguinose, di per sé non tali da sconvolgere interi assetti sociali e istituzionali, grazie all’incontrastato uragano di supporto dei media e al panico programmato e diffuso, ha assunto quella portata epocale che ha raso al suolo culture giuridiche, fondamenta costituzionali, modi di vivere, epistemologia della realtà, percezione della comunità umana. Uragano che, come in occasione dell’11 settembre e di tutti gli eventi affini, ha estirpato e disperso ogni obiezione, ogni falla nella narrazione (e a volte si tratta di voragini), le più lampanti contraddizioni. Da cui  la decerebrazione di massa, l’accorruomo generale sotto i vessilli della sicurezza e dell’autorepressione, il trionfo della demagogia, la blindatura verso altri mondi e, quindi, l’ulteriore frantumazione della comunità nazionale e umana, da perfezionare con xenofobia e guerra.

Non tutto è stampa, è vero. Nell’esito elettorale ci hanno messo pesantemente del loro imbecilli stazzonati, per quanto muniti di zanne di vampiro, come Hollande, Valls, Sarkozy, una accolita di fatiscenti nanetti da giardino, rispetto ai quali Marine Le Pen appariva un tosaerba a scoppio di ultimo modello. Qui è divertente vedere come le nostre “sinistre” e “centrosinistre” (cioè destre) si affannino a esorcizzare il fenomeno Front National, esploso sopratutto nelle regioni più depresse, tra operai e disoccupati, con il trito ritornello della “xenofobia”, del “razzismo”, del “populismo” o, come titola il “manifesto” con grottesca semplificazione, “eau de Vichy”, incollando sulla Le Pen la salma del maresciallo Petain.

Bataclan val bene una guerra coloniale

Ci sarà stato l’effetto Bataclava, l’indotto migranti, la pancia borghese famelica di grandeur, ma il successo di questa formazione ha ben altra sostanza. E’ la rivolta contro un’Europa che ha annichilito ogni voce popolare; è la rivendicazione di una sovranità nazionale intollerabile per la globalizzazione neoliberista e tecnonazista che, fin dai primordi dell’Unione, sotto la spinta lungimirante degli Usa, ha voluto spianarsi la strada facendo saltare gli ostacoli delle costituzioni democratiche nazionali sorte dalla lotta antifascista. Insomma l’ennesima sfera del pensiero, l’ennesimo campo d’azione, che la sinistra si è lasciata sottrarre nella sua trafelata ricerca di legittimazione capitalista. Facendo il verso agli arcaismi ancora al potere, quelli sì genuinamente populisti, alla maniera delle tre carte (conoscete qualcuno più populista di Renzi, Tsipras o Hollande?), definisce “populista” tutto quel che di buono e cattivo dilaga sulle praterie ideologiche lasciate sguarnite e così si rade il pelo cresciutole sullo stomaco. Eppure, anche in questo fallimentare contesto, è ancora la stampa a ricucire le lise vele dei capitani e dei mozzi e a soffiarci dentro.

Argentina di Cristina o di Ernestina?

La potenza di fuoco dell’oligarchia mediatica si è esercitata in Argentina al punto da rovesciare la realtà nel suo contrario. Obliterato è il riscatto operato dal peronismo di sinistra dei coniugi Kirchner rispetto alla catastrofe neoliberista inflitta al già più prospero paese del continente dalla successione di presidenti incompetenti e farabutti, dal dittatore Videla al joker Menem, telecomandati dalle multinazionali e dal FMI. Grazie al gruppo monopolista “Clarin” di Ernestina Herrera De Noble, già intima dei generali, tanto da essersi appropriata di due figli sottratti a martiri della resistenza, alle reti televisive capeggiate dal monopolista brasiliano Globo, alla CNN in spagnolo e al loro codazzo di giornali e tv che, come in Italia, subiscono l’egemonia e abdicano all’indipendenza, i grandi meriti del dodicennio di ripresa si sono dissolti nella retorica di un bandito neoliberista, prono ai latifondisti e ai  potentati transnazionali, come Mauricio Macri.

E’ vero che la sinistra kirchneriana si era affidata a un personaggio pallido e trasversale come l’imprenditore Daniel Scioli, compiendo il ricorrente errore di tante sinistre, a partire dalle nostre e, in quel continente, da Allende, di abbindolare un po’ di ceti “moderati” nel segno nefasto e anticlassista delle unità nazionali. Scioli ha inseguito la destra sul tema strumentale dell’ordine pubblico (occhio, M5S!), a scapito dei rapporti con i sindacati, movimenti sociali e con la piazza. Si sa dove portano i “compromessi storici”. Alla copia si finisce sempre col preferire l’originale, anche perché ontologicamente dotato di maggiore potere di persuasione grazie al cinico uso della retorica e della menzogna.

E’ finita sotto il tappeto mediatico la memoria delle nefandezze e dei disastri di Carlos Menem che dell’Argentina s’era venduto perfino i cimiteri. Ma anche la  riduzione della povertà sotto il 20% e dell’indigenza sotto il 5% (al tempo di Menem la povertà assoluta aveva raggiunto il 56%), il contenimento fiscale dello strapotere dei terratenientes, le fabbriche occupate restituite ai lavoratori, la lotta all’emarginazione, la promozione delle scuole pubbliche, la quasi miracolosa resurrezione dal default e la resistenza ai fondi avvoltoio Usa, il rafforzamento dell’integrazione latinoamericano in Mercosur, Unasur, Celac, l’alleanza con i governi socialisti latinoamericani, l’antimperialismo. Pompata, invece, oltre ogni credibilità, ma che ha lasciato il segno, l’infondata accusa al governo di aver ucciso un magistrato che indagava sul nesso False Flag tra l’attentato alla mutua israelita di Buenos Aires (1994, 85 vittime) e l’Iran, regime che Cristina avrebbe coperto grazie a forniture di petrolio (inesistenti).

E già Macri, entusiasmando la borghesia compradora, storicamente forte nel paese e con un seguito di plebi sottoproletarie, promette un ritorno a legami stretti con Washington, la firma di trattati neoliberisti con l’UE, l’espulsione del Venezuela, “totalitario e violatore dei diritti umani”, dal Mercosur. Notare la manina data a Macri dall’anti-kirchnerista patentato Jorge Bergoglio, quando ha deplorato il coinvolgimento dell’Argentina nel narcotraffico (accusa lanciata al governo proprio da Macri). Bergoglio, uno che è convissuto in tutta armonia con i generali della dittatura avrebbe dovuto tacersi.

Venezuela, una rivoluzione frenata

In Venezuela il chavismo ha perso la seconda elezione su 20 in 17 anni. E Nicolàs Maduro, il “despota antidemocratico” per il 99% della stampa occidentale (quella europea, riunita nell’ Alleanza dei Periodici Europei, aveva lacrimato sul “grido di libertà del Venezuela”), ha istantaneamente riconosciuto il risultato dei 90 seggi vinti dalla Mesa de Unidad Democratica (MUD) contro i 46 del PSUV, sui 167 dell’assemblea nazionale (19 vanno ancora assegnati). Alla faccia di Hillary Clinton e di tutti gli avvoltoi filo-Usa che avevano previsto un’ecatombe della legalità elettorale e avevano attribuito a Maduro l’assassinio di un esponente della destra, invece ucciso in una resa dei conti tra bande mafiose. Accusa, quella della belva genocida, candidata alla presidenza degli Usa, che risulta paradossale in bocca di chi, in Honduras, aveva rovesciato con il colpo di Stato del 2009 il presidente Zelaya democraticamente eletto. Anche qui, a dispetto dell’ottima “all news” Telesur creata da Chavez, una tv che con RT (Russia Today) costituisce l’optimum dell’informazione corretta e professionalmente impeccabile, non ha retto il confronto con la flotta di corazzate del capitale revanscista, mai intaccate nel loro monopolio. E anche le radio libere di quartiere, che tanto hanno contribuito a sventare il golpe del 2002 e a far crescere conoscenza e coscienza, sono quasi tutte sparite.

Enormi, e senza uguali nel mondo occidentale, sono i meriti dello chavismo nella ricostruzione di una nazione depauperata e desovranizzata da dittatori e manutengoli del neoliberismo Usa. Sul piano della giustizia sociale, della riduzione della povertà, dei diritti dei lavoratori e dell’ambiente, dell’istruzione, della mobilità, delle infrastrutture, dell’unità progressista e antimperialista del continente. Fin da quando, sotto l’impulso determinante di Hugo Chavez, nel 2004 l’intera America Latina (ricordare le enormi manifestazioni in Argentina, con Maradona in prima fila), respinse l’ALCA, il trattato-capestro che avrebbe dovuto ricondurre la regione alla condizione di cortile di casa degli Usa, trattato di libero scambio predecessore del TTIP in arrivo tra Washington e Bruxelles.

Dodici mesi di guerra della destra con il terrorismo delle guarimbas (attentati di strada, 43 morti centinaia di feriti), sabotaggio economico e valutario, accaparramento e imboscamento delle derrate alimentari distribuite a basso costo dal governo e rivendute a prezzi speculativi dal contrabbando, infiltrazione di paramilitari terroristi dalla Colombia, rinfocolamento della criminalità di strada, esponenti di esercito e polizia subornati da agenti Usa e infiltrazione nelle comunità delle relative Ong e sette evangeliche, ostilità della gerarchia ecclesiastica alimentata dal nunzio apostolico Pietro Parolin, oggi con Bergoglio segretario di Stato, potenza comunicativa dell’opposizione e dell’oligarchia che ne è l’espressione mediatica, foraggiata a milioni di dollari dal Dipartimento di Stato, dalla Cia e dall’Atlantic Council finanziato da Exxon Mobil, Chevron, e dagli armieri Lockheed Martin.

Al di là dei fenomeni di corruttela negli apparati amministrativi e circoli dirigenti, la cosiddetta “bolibourgeoisie”, riconosciuti e combattuti da Maduro forse con insufficiente determinazione, c’è chi non esime il chavismo, sia del fondatore che del successore, da timidezze e ritardi nel processo rivoluzionario verso il “Socialismo del XXI secolo”. La strategia dei consigli comunali, contrappeso popolare alle istituzioni locali e statali, non allargata e potenziata adeguatamente, un rapporto non sufficientemente equilibrato tra organizzazioni rivoluzionarie sul territorio, partito e governo, una bonifica mai completata degli elementi spuri o nemici nelle forze armate e di sicurezza, un’economia e un’istruzione ancora largamente in mano a privati speculatori e manipolatori, la grande distribuzione lasciata a spadroneggiare contro i “mercal”, i mercati pubblici di generi di prima necessità dai prezzi calmierati, la volenterosa ricerca di mediazioni con i “ceti medi ricuperabili”. Insomma l’allendismo, il berlinguerismo, lo tsiprismo

Ma, se guardiamo al resto del mondo occidentale, tutte queste carenze sono niente rispetto a un cambiamento di paradigma senza confronti e precedenti nell’attuale rapporto tra classi, a favore del benessere e del ruolo dei ceti da sempre emarginati e spolpati dalla minoranza straricca. Una minoranza razzista e prevaricatrice, con l’occhio fisso su Washington, compradora come quella delle più arretrate società del Sud del mondo, ma di queste ancora più vendicativa e feroce. Le ineguagliabili “misiones”, campagne per il riscatto popolare a tutti i livelli, analfabetismo sradicato, sanità universale gratuita (con il decisivo apporto dei medici cubani), esplosione della creatività culturale e artistica, piena occupazione, ripetuto aumento del salario minimo, casa e pensione a tutti, moltiplicazione delle università e scuole pubbliche, redistribuzione delle terre, salvaguardia e autonomia delle popolazioni native. Tutto a dispetto della crisi economica determinata da un’inflazione artificiosamente alimentata, dal crollo del prezzo del petrolio, da un sabotaggio esterno e interno che continua dal tentato golpe del 2002 e si è scatenato negli ultimi anni.

Ridurre all’obbedienza il più fortemente ideologizzato paese dell’America Latina, una delle maggiori potenze energetiche del mondo, sarebbe la breccia più grande aperta dall’imperialismo nel continente da riconquistare. Viene dopo la “normalizzazione” del Cile e dell’Uruguay, l’istigazione alla sovversione del Brasile, la cui dirigenza socialista è forse la più autodistruttiva tra quante sono rientrate nell’orbita dei “Chicago boys”, il recupero di tutto il lato andino dal Cile alla Colombia, fatto salvo l’Ecuador di Correa (sottoposto a tentativi di golpe e sommosse di quinte colonne indigene), il golpe parlamentare in Paraguay e, soprattutto, il colpo di Stato di Obama e della segretaria di Stato Clinton nell’Honduras che stava entrando nell’ALBA e che oggi ha tolto al Messico colonizzato dagli Usa con narcotraffico e multinazionali, la palma di paese più derelitto e insanguinato da omicidi criminali e di Stato.

La maggioranza conseguita permette agli escualidos di sconvolgere l’intero assetto fin qui realizzato dal bolivarismo. Il 60% del PIL dedicato ai programmi sociali scomparirebbe a favore di investimenti predatori negli strumenti del trasferimento neoliberista della ricchezza. Potrà votare leggi di amnistia per i criminali del golpe e del sabotaggio economico, far rientrare i finanzieri ladri scappati a Miami, convocare una nuova costituente, sfasciare il Consiglio Elettorale Nazionale colpevole di trasparenza e precisione, riconvertire la magistratura, infiltrare i corpi militare e della polizia, promuovere l’impeachment del presidente, invitare basi militari Usa, aderire a trattati di scambio capestro, modificare a favore del capitale le voci del bilancio, abolire “Petrocaribe” con cui Caracas sosteneva le economie dei Caraibi amici, potenziare l’istruzione privata a scapito della pubblica, riappropriarsi dei latifondi, rovesciare l’attuale politica di appoggio e amicizia ai popoli in resistenza e, dunque, partecipare a missioni militari imperiali.

 

Resistono i sempre più isolati fortini di Bolivia, Ecuador, Nicaragua, ma l’impero, nell’offensiva scatenata contro l’America Latina, ha segnato punti importanti, a partire dall’Honduras ritornato repubblica delle banane, anche grazie al tributo ai golpisti da parte del primate Oscar De Maradiaga, oggi braccio destro del papa. Sconsolante, deprimente, è notare come, in questa guerra all’ultimo sangue, all’ultima biodiversità, ultimo ambiente, ultimo lavoratore in dignità, ultima sovranità popolare e nazionale, ultimo riscatto indigeno, ultima unità continentale, Cuba, un tempo del Che, svolga il ruolo, meschino e collaborazionista, mediato dalle Chiese, della pacificazione e del partneriato subalterno con i massacratori yankee dei suoi fratelli latinoamericani. Ai popoli che vorranno rispondere con la presa di coscienza e la mobilitazione insurrezionale all’assalto dei necrofagi del Nord non conviene più cercare il faro-guida all’Avana. Conviene ripartire da Bolivar, Chavez,  Morales,Tupamaros, senza dimenticare Gramsci e, soprattutto, Marx. E, perché no, Bashar El Assad. Tocca fa risuonare voci e i rispettivi strumenti di diffusione che ricuperino alla consapevolezza della verità masse frastornate e obnubilate. Cosa di cui avremmo bisogno anche noi. E’ la stampa, bellezza.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Dichiaro di essere al corrente che i commenti agli articoli della testata devono rispettare il principio di continenza verbale, ovvero l'assenza di espressioni offensive o lesive dell'altrui dignità, e di assumermi la piena responsabilità di ciò che scrivo.