Dominio femminile, oppressione maschile: un nuovo secondo sesso?

Pubblichiamo volentieri questa analisi di Elena Dalla Torre, docente di lingua e letteratura italiana e francese alla Saint Louis University, nonché studiosa di “questioni di genere”, che riprende e confuta questa intervista realizzata al sottoscritto e pubblicata su “Termometro politico” oltre che su questo giornale: Femminicidio e violenza di genere: a chi giova l’ideologia femminista?

Naturalmente i punti di dissenso con l’autrice dell’articolo sono molti e in buona parte di natura strutturale. Sarà mia premura risponderle in modo compiuto e articolato nei prossimi giorni, relativamente a tutti i punti da lei toccati.

Per ora è però doveroso sottolineare un fatto importante e molto, molto raro. Una “intellettuale” femminista ha scelto il dialogo e il confronto (addirittura anche mostrando di condividere, sia pur parzialmente, alcuni passaggi contenuti nell’intervista) con chi, come il sottoscritto, ha sottoposto a critica radicale il femminismo. Non si è rifugiata nella comoda scomunica (lo “spirito dei tempi” glielo consentirebbe…), negli insulti gratuiti o additando il sottoscritto al pubblico ludibrio, bensì scegliendo appunto la via del dialogo e del confronto logico-dialettico, cosa che personalmente raccolgo con grande soddisfazione e di cui la ringrazio.

Anche questo è un piccolo segnale che ci dice che alcune donne hanno cominciato ad avvertire la necessità di affrontare questi temi oltre le liturgie e gli steccati ideologici in cui sono stati ingabbiati.

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Non sorprende, anzi incuriosisce e solleva dubbi e interrogativi l’intervento di Fabrizio Marchi, esponente del movimento “Uomini Beta” riguardo alla condizione maschile. La sua è una riflessione sulla difficoltà di essere uomini in una società occidentale dove il successo, il prestigio Elena Dalla Torresociale, la stabilità e le disponibilità economiche costituiscono il modello maschile imperante. Certo, tale modello dominante non è nuovo; esiste da sempre, ma viene qui riproposto da Marchi in una veste del tutto particolare: quella della donna emancipata, prodotto della cultura mediatica neoliberale, neofemminista post-sessantottina. L’intervento qui di seguito costituisce una risposta sintetica all’intervista rilasciata da Marchi, e al suo posizionamento da un lato rispetto alla questione maschile e dall’altro rispetto al femminismo post-sessantottino. Mi propongo in primo luogo di sintetizzare le posizioni di Marchi e in secondo luogo, di colmare alcune lacune insite nella sua argomentazione riguardo al pensiero femminista anni ‘70, e il debito che tale pensiero ha nei confronti della mascolinità.

Prendendo a prestito un vocabolario marxista, Marchi definisce il femminismo una “falsa coscienza”: egli accusa le femministe non solo di essersi vendute alla volontà neocapitalistica ai fini dell’emancipazione sociale, politica ed economica, ma anche di incarnare ora la figura dell’oppressore.1 L’accusa di Marchi si regge sia sull’uso generalizzato, vago e non storicizzato del termine “femminismo” sia sulla facile dicotomia tra il dominio femminista e il maschio oppresso. E infatti Marchi contrappone da un lato, un soggetto femminile e femminista, liberato, e complice del capitalismo che ha fatto del genere e del differenzialismo un’ideologia, uno strumento di potere. Per dirla con le sue parole: “Il femminismo è un prodotto del capitalismo maturo e nasce oggettivamente come un’ideologia di genere (è nell’etimologia stessa della parola), fondamentalmente interclassista e sessista.”2 Al polo opposto di questo femminismo capitalista ed “ideologizzato” esiste, sempre secondo Marchi, un soggetto maschile che rimane oppresso e invisibilizzato su un duplice piano: sul piano personale perché “costretto a ‘sbattersi’ per vivere uno ‘straccio’ di sessualità e di affettività all’interno di una relazione uomo/donna” e sul piano lavorativo dove si trova spesso a dare la vita, vittima di fallimenti imprenditoriali o di infortuni sul lavoro.3

Sebbene la preoccupazione di Marchi verso tutto un gruppo di uomini emarginati sia comprensibile, le sue argomentazioni vacillano in forza di alcune generalizzazioni che riassumo in tre punti: a. il lavoro è un mero strumento di realizzazione per la donna, mentre per l’uomo rimane una questione ontologica ed etica (un dover essere); b. la disparità tra stipendi di uomini e donne è una falsità, un’invenzione frutto di una manipolazione politica; c. il femminismo è “una sorta di ‘copia- incolla’ della dialettica hegelo-marxiana” che sostituisce “al conflitto fra le classi quello fra i sessi, reinterpretando la storia dell’umanità a senso unico.”4 Ricorrendo a tali generalizzazioni, Marchi nega sia la realtà della discriminazione di genere sia il processo di soggettificazione delle donne (non femministe), di cui il lavoro è componente essenziale. Marchi rischia inoltre di invalidare la propria argomentazione principale, e cioè, che nella cultura neoliberale uomini e donne non privilegiati, che sono una maggioranza numerica, sono ridotti ad una minoranza assoggettata e sfruttata. Ora, che questo esercizio del potere sia assimilato tout court al femminismo è cosa problematica, così com’è problematico pensare che gli uomini siano inevitabilmente oppressori.

Mi sembra opportuno ritornare alle radici del pensiero femminista anni ‘70 cercando di fare comunque giustizia ad alcune osservazioni di Marchi che paiono legittime, specialmente riguardo alla questione di classe. In quel femminismo anni ‘70 esistevano già delle riflessioni sulla condizione maschile che non sono poi così dissimili da quelle di Marchi. Il punto è piuttosto: cos’è stato dimenticato di quel dibattito? Cosa invece non è mai stato realmente articolato?

Il femminismo anni ‘70 nasceva dai movimenti sessantottini, cosiddetti della Nuova Sinistra.

Prima dell’avvento di tali movimenti, l’UDI (Unione Donne Italiane) aveva dominato la scena femminista politica in Italia avviando battaglie per il riconoscimento del lavoro domestico, l’uguaglianza dei diritti sul lavoro e gettando le basi per future riforme sul diritto di famiglia, il divorzio, l’educazione sessuale e l’aborto. Verso la fine degli anni ‘60 e l’avvento della Nuova Sinistra, il femminismo diventava un fenomeno comunitario improntato sia alla critica del sessismo pervasivo dei gruppi di sinistra parlamentari ed extra, sia allo sviluppo di una coscienza dell’oppressione. Questo femminismo si caratterizzava come femminismo separatista, atto, cioè, a promuovere una politica autonoma, fatta dalle donne e per le donne, contrariamente all’UDI, la cui tradizione era di “doppia militanza.” Tra le esponenti di spicco di questo femminismo cosiddetto separatista ci fu Carla Lonzi, fondatrice di “Rivolta Femminile” e madre della “differenza sessuale,” alla cui tradizione, “nefasta” secondo Marchi, sembra rivolgersi più o meno esplicitamente il suo intervento.

Superata in questa parte del mondo l’era del pane, per dirla con Marchi, rimane da superare invece “l’era del pene” o “cultura del pene” come la chiamava Carla Lonzi. Nella sua opera teorica, Lonzi definiva “cultura del pene” il cosiddetto fallocentrismo ovvero l’organizzazione della cultura intorno a categorie fisse e dicotomiche di genere e sessualità e intorno al misconoscimento della sessualità femminile in quanto indipendente da quella dell’uomo:

La donna clitoridea, affermando una sessualità in proprio il cui funzionamento non coincide con la stimolazione del pene, abbandona il pene a se stesso. Tutto ciò che riguarda il pene non viene più a coincidere con l’espressione del dominio.5

Come si evince da questo passaggio tratto da Sputiamo su Hegel, la donna che ha scelto il femminismo radicale e separatista – che Lonzi chiamava “donna clitoridea” – svincola non solo se stessa, ma anche l’uomo dal giogo del dominio fallico. Lonzi esaltava la “donna clitoridea” come il prodotto e il soggetto di una nuova cultura della sessualità in cui il pene (l’organo) non doveva più coincidere con il fallo (il simbolo del potere). Ella dissociava quindi la mascolinità dall’esercizio del potere e dell’oppressione. Lungi dal riprodurre una dialettica hegelo-marxiana, come afferma Marchi, Lonzi ci “sputava sopra” avendo intuito che il femminismo non poteva ridursi ad una semplice sostituzione della dialettica dei sessi con quella delle classi. Al contrario, Sputiamo su Hegel costituisce una critica del sessismo implicito nel marxismo, critica che, per altri versi, era stata intrapresa all’epoca anche dal femminismo materialista francese di Monique Wittig, Colette Guillaumin e Christine Delphy. Secondo Lonzi, “far rientrare il problema femminile in una concezione di lotta servo-padrone quale è quella classista è un errore storico” dal momento che il marxismo contemplava un’organizzazione maschile della società.6 La stessa scelta di separatismo da parte di Lonzi e del gruppo di “Rivolta” era motivata da un particolare disagio nei confronti dell’assimilazione del femminismo al discorso diffuso di emancipazione culturale e sessuale: “Adesso c’è una smania di consacrazione del femminismo, anzi un atteggiamento promozionale da parte della società.”7 Al contrario di quello che sostiene Marchi esisteva nel femminismo radicale una certa resistenza all’assimilazione culturale per fini di promozione sociale e politica.

Importa comunque sottolineare come Lonzi avesse già intuito che gli uomini stessi erano vittime della “cultura del pene” e cioè erano loro stessi oppressi. Tuttavia, Marchi sembra ignorare tale postura femminista. Fino a che punto la dissociazione tra pene e fallo ovvero tra mascolinità e oppressione si fosse poi concretizzata in una vera e propria analisi della mascolinità questo rimane incerto. Lonzi, infatti, non intraprese mai una critica della “cultura del pene” dal punto di vista dell’analisi della condizione dei maschi non privilegiati così come studiose afro-americane quali bell hooks o kobena mercer lo hanno fatto per le mascolinità afro-americane. Al contrario la critica di Marchi potrebbe rientrare nell’ambito di un’analisi della mascolinità e della classe soprattutto se meglio sostanziata storicamente e teoricamente su un paio di punti nevralgici. Dalla sua narrazione emergono, a sprazzi, figure di uomini dimenticati ai margini della storia, manodopera della Ricostruzione dell’Italia del dopoguerra quali operai, braccianti e minatori. Quando Marchi si domanda: “Chi è più oppresso, sfruttato o privilegiato? Il minatore che trascorre 14 ore in miniera o sua moglie che sta a casa a badare ai figli o a cercare di arrotondare le entrate familiari con altri lavori?” non significa che egli ignori l’oppressione della donna, ma sottolinea la duplice oppressione di donne e uomini che non hanno conosciuto il privilegio sociale: “Io credo in realtà che la stragrande maggioranza di quegli uomini e di quelle donne vivessero entrambi una condizione, sia pur diversa, di oppressione e sfruttamento.”8 In questo punto, l’argomentazione di Marchi riprende forza, quando riallinea, cioè, uomini e donne rispetto all’esperienza dell’oppressione pur riconoscendone la differente condizione dovuta al loro sesso. Inoltre Marchi si chiede se forme di sfruttamento odierno come quelle esercitate sul/la lavoratore/lavoratrice precario/a non rendano paradossale il parlare di dominazione maschile o di maschilismo: “Ma quale potere, quale peso specifico, sono in grado oggi di esercitare nei confronti delle donne un operaio, un impiegato, un precario o un disoccupato che oltre a vivere una condizione di marginalità sociale sono anche considerati come dei falliti, dei perdenti, privi di qualsiasi “appeal”?9 In questa perdita di “sex appeal” sta anche una perdita di autorità che è perdita di identità, perdita che la dissociazione tra pene e fallo di cui parlava Lonzi simboleggia molto bene. Essa, però, se per Lonzi era momento di liberazione da un imperativo fallocratico, può però essere vissuta dagli uomini come una vera e propria “castrazione sociale ed economica” nonché affettiva simile, ma solo in parte, a quella teorizzata da Mario Mieli negli anni ‘70.10

Se il femminismo separatista fu impegnato a dare visibilità e dignità al soggetto femminile, ci furono esponenti del movimento femminista sensibili all’impatto che la “cultura del pene” aveva sugli uomini, primo fra tutti Mieli, fondatore del movimento gay FUORI nel 1971. Attivista, scrittore e teorico, Mieli aveva coniato il termine “educastrazione.” In Elementi di critica omosessuale (1977) Mieli teorizzava l’educastrazione come un fenomeno di normativizzazione culturale che investiva l’identità di genere, sessuale e di classe. Mieli conosceva la teoria marxista e quella freudiana e le aveva saggiamente fuse attraverso la rilettura dell’opera di Herbert Marcuse. Sebbene per il teorico l’educastrazione fosse una potente modalità di repressione delle tendenze omoerotiche insite nel soggetto, essa aveva anche una forte componente economica. “Educastrati” per Mieli erano anche tutti quegli uomini appartenenti a ceti sociali inferiori (sottoproletari) che si prostituivano con uomini di classe superiore in cambio del denaro per sopravvivere. L’educastrazione di Mieli, quindi, come metafora sessual-politica tutta al maschile, già descriveva il rapporto complesso tra “oppressori” ed “oppressi” quando le donne erano alle soglie dell’emancipazione sessuale. Come a dire che la figura del maschio oppresso esiste, anche quella da sempre; ma nell’argomentazione di Marchi non si articola in termini omosociali né tantomeno omoerotici, ma solo in termini di differenza sessuale uomo/donna, che lui pone come nuova disuguaglianza, o come mera inversione di ruoli di genere, se non addirittura come sopraffazione dell’uomo da parte della donna.

Noi femministe di oggi, figlie adottive di quel femminismo rivendicativo postsessantottino, e figlie biologiche di quella classe di uomini invisibili ed oppressi, non possiamo che dare un po’ di ragione a Fabrizio Marchi il cui merito è di mostrare che la classe rimane sempre e volutamente un fattore dimenticato nell’analisi della mascolinità, e della trasformazione delle dinamiche di genere. Ciononostante non si può fare a meno di constatare quanto Marchi rimanga vincolato ad una dicotomia dei generi, e ad un linguaggio della differenza sessuale che lui stesso riproduce vistosamente per criticare il femminismo postcapitalista. Marchi fallisce nell’elaborazione di una vera e propria analisi della mascolinità a partire dall’oppressione maschile; questo forse perché dell’analisi di genere, sessualità, razza e classe gli mancano gli strumenti essenziali.

C’è tuttavia anche un aspetto dell’intervista a Marchi che rimane non solo inspiegabile, ma anche un po’ inquietante: parlo delle sue affermazioni riguardo al femminicidio e alla presunta veridicità dei dati che circolano su di esso. Che il femminicidio abbia avuto una risonanza mediatica enorme, anche in forza di rete e social networks, questo è innegabile. L’affermare, tuttavia, che il femminicidio sia mera “invenzione mediatica e politica” pare alquanto problematico. Forse sarebbe il caso di ricordare che, a metà degli anni ‘70, fu la risonanza mediatica che assunse la strage del Circeo a fare sì che lo stupro venisse punito non come crimine contro la morale, ma contro la persona. Questo fu un cambiamento legislativo epocale. Quello che è problematico, semmai, per riprendere il discorso di Marchi, è la spettacolarizzazione del femminicidio ad opera dei media e dei social networks, la quale altro non fa che enfatizzare la donna in quanto vittima oscurando sia l’uomo-carnefice, che l’uomo-vittima, o l’uomo-vittima-carnefice. Il voler evidenziare che anche gli uomini sono vittime di violenze mi sembra più che opportuno, tuttavia affermare che tali uomini subiscono violenza dalle donne sembra in realtà ovviare alla questione più urgente del rapporto tra uomo e dominio. Chi resta da mettere a fuoco, dunque, e con urgenza, è l’uomo, che ancora sfugge alla nostra volontà di sapere. Chi sono quei maschi che uccidono, e perché uccidono? Cos’è andato storto nella loro educazione ad essere uomini e nella loro concezione delle donne? Cos’è andato storto nel loro relazionarsi con l’essere femminile? Quale percezione hanno questi uomini di sé, e della loro collocazione sociale? Quale percezione e rapporto hanno con il potere e l’oppressione? Sono sempre solo carnefici e oppressori, o sono loro stessi vittime e vittime di chi o di cosa? E soprattutto di chi o di cosa hanno paura?

Tali sono i quesiti che mi sarei aspettata da Marchi riguardo al femminicidio, soprattutto in un intervento che si prefigge di parlare delle figure maschili marginalizzate e delle voci maschili silenziate. E invece Marchi si è trincerato dietro ad un facile negazionismo, luogo di eccesso e di attacco difensivo piuttosto che di analisi e riflessione. Dopo quarant’anni da quella rivoluzione socio-simbolica con cui le donne e le femministe potevano affermare di “ricominciare da sé,” oggi sembra più che mai urgente una nuova rivoluzione socio-simbolica: quella dell’uomo che “ricomincia da sé.”

Fonte: http://www.gendersexualityitaly.com/wp-content/uploads/2015/07/10.-DallaTorre.pdf

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1 Fabrizio Marchi and Piotr Zygulski, “Oppressione femminista e questione maschile” Arianna Editrice.it

2 Ibid., 4

3 Ibid., 1.

4 Ibid., 3.

5 Carla Lonzi, Sputiamo su Hegel e altri scritti (Milano: Scritti di Rivolta femminile, 1972), 111-112.

6 Ibid., 24

7 Ibid., 103.

8 Marchi, “Oppressione femminista e questione maschile,” 3. Enfasi mia.

9 Ibid., 5.

10 Mario Mieli, Elementi di critica omosessuale (Milano: Feltrinelli, 2002).

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