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La “grande madre” degli stupidi e anche di quelli che hanno tempo da perdere (e degli opportunisti, degli ipocriti e di tanti altri ancora…) è sempre incinta, come noto. Non derogano a questa regola (anzi…) i media, i quali, come altrettanto noto, oltre a depistare scientemente e ad instupidire le masse hanno il problema di riempire le pagine durante la “pausa estiva”. Sia chiaro, di argomenti (drammaticamente) seri di cui occuparsi ce ne sarebbero tanti, però si parte dall’idea, purtroppo non del tutto errata, che la gran parte delle persone, durante le ferie di Ferragosto, magari sbragate sul lettino di una spiaggia (che poi sia quella di Ladispoli oppure di Porto Cervo o Capalbio è altro discorso…) non abbia voglia di occuparsi della guerra in Siria o dei bombardamenti “elettorali” in Libia, e preferisca di gran lunga un po’ di sano “gossip”. E i media, naturalmente, glielo danno.
Quale migliore occasione, dunque, offertagli su un piatto d’argento, del divieto di indossare il “burkini” da parte di alcune amministrazioni comunali francesi, prontamente ripreso e sostenuto dal governo e dal premier Valls in persona?
La stupidità oggettiva di tale divieto, così come il chiacchiericcio mediatico di questi giorni non meriterebbero alcuna riflessione. Dal momento però che la critica più diffusa che viene mossa a questo giornale è quella di essere a volte un po’ troppo serio e “pesante”, mi assumo la responsabilità di alleggerirlo. E allora qualche considerazione su questa (ridicola) polemica si può anche fare.
Nell’ordinanza firmata lo scorso 28 luglio dal sindaco (di centrodestra) di Cannes è scritto che (cito testualmente dal quotidiano La Repubblica http://www.repubblica.it/esteri/2016/08/12/news/francia_burkini_vietato_in_spiaggia_polemiche_per_l_ordinanza_di_cannes_e_villeneuve-loubet-145860427/?ref=search) ”è vietato l’accesso alle spiagge e ai bagni alle persone che non hanno una tenuta corretta, rispettosa del buon costume e della laicità, che rispetti le regole d’igiene e di sicurezza dei bagnanti nel dominio pubblico marittimo. Indossare abiti durante il bagno ha una connotazione contraria a questi principi…”.
Invito a riflettere su questo passaggio: “rispettosa del buon costume e della laicità”. Una volta, diciamo fino ad una cinquantina/sessantina di anni fa – quelli un po’ più avanti con l’età se lo ricordano di certo – si gridava allo scandalo per una minigonna appena sopra il ginocchio. Oggi invece si grida allo scandalo perché ci sono delle donne (musulmane) che scelgono di coprirsi invece che scoprirsi. E’ il segno dei tempi. Anche da queste piccole cose si capisce il passaggio avvenuto da un sistema valoriale/ideologico, ad un altro, cioè da una falsa coscienza ad un’altra. E il bello è che a sostenere queste posizioni sono esponenti sia di destra che di “sinistra”. Quello stesso sindaco di centrodestra, non più di una quarantina di anni fa, magari sollecitato da una petizione di “benpensanti”, avrebbe sicuramente firmato un’ordinanza per impedire di denudarsi parzialmente o integralmente sulle spiagge esattamente per le stesse ragioni (il “buon costume”) per le quali proibisce oggi di indossare un costume integrale.
Dal canto suo, come abbiamo già visto, la “sinistra” o una parte cospicua di essa (quella liberal e gran parte di quella “radical”) difende tale posizione perché – come dice appunto il premier del governo “socialista” francese Valls – “Lungi dall’essere “solo” un costume da bagno, il burkini è “espressione di un’ideologia basata sull’asservimento della donna”, quindi è “incompatibile con i valori della Francia e della Repubblica”.
Naturalmente viene dato per scontato che quella di coprirsi non sia una “autodeterminazione” ma un’imposizione. E si dà altrettanto per scontato che quella di “smutandarsi” sia invece una libera scelta, come in effetti, a mio parere, è. Peccato che il femminismo in tutte le sue correnti abbia da sempre sostenuto che lo “smutandamento”, cioè l’esposizione sistematica del corpo delle donne in ogni dove, sia il risultato dell’oppressione maschilista e patriarcale che vorrebbe le donne mercificate e relegate al ruolo di oggetti sessuali per il piacere degli uomini. La qual cosa è allo stesso tempo rassicurante (perché deresponsabilizzante) ma anche offensiva per le donne stesse perché di fatto le considera come delle minus habens alla totale mercè della volontà maschile. Il che è ovviamente privo di ogni fondamento.
Ma è lo stesso femminismo che nello stesso tempo – contraddicendosi completamente – rivendica il diritto delle donne di vestirsi come gli pare. Quindi se le donne si scoprono è colpa dell’oppressione maschilista, e se si coprono è sempre colpa dell’oppressione maschilista. La vignetta che abbiamo scelto come foto per questo articolo è assai significativa in tal senso.
Verrebbe da invitarle/i a “far pace col cervello”, come si suol dire, ma sappiamo da tempo che il principio di identità e non contraddizione non fa parte del bagaglio femminista, sia di quello di “sinistra” che di quello di “destra”.
Ecco, dunque, come il perizoma o la minigonna “girofica” diventano, a seconda delle necessità e della convenienza, il simbolo dell’oppressione maschilista e patriarcale oppure della libertà e dell’autodeterminazione delle donne. E’ ovvio che con un siffatto modo di porsi è del tutto impossibile un confronto di tipo logico-dialettico.
Il “burkini”, il chador, il burqa o qualsiasi altro indumento in uso nel cosiddetto “mondo musulmano” (definizione che già di per sé non significa nulla dal momento che si tratta di un universo estremamente complesso e diversificato e impossibile da ridurre ad un unicum) sono invece trasversalmente (da destra a “sinistra”) e unanimemente (o quasi) considerati come strumenti e simboli dell’oppressione maschilista nonchè, nel caso specifico, dell’oscurantismo islamista.
Ecco, quindi, come il bikini, nel caso specifico, diventa metaforicamente il simbolo della libertà della donna in contrapposizione al “burkini”, simbolo invece della millenaria, medioevale e oscurantista oppressione islamo-maschilista. Naturalmente, anche in questo caso, viene dato per scontato che le donne non abbiano nessuna voce in capitolo e nessuna capacità di autodeterminazione e che l’uso di un indumento piuttosto che di un altro sia il risultato di una imposizione e non della loro adesione a un costume e a un modello culturale. Si potrebbe obiettare che anche in caso di adesione volontaria saremmo comunque in presenza di un condizionamento più o meno palese o subliminale, e personalmente sono anche d’accordo. Ma questo varrebbe e vale in entrambi i casi, sia quello della donna occidentale “smutandata” sia quello della donna musulmana coperta dal velo o dal “burkini”. A meno di non considerare il perizoma, la cui palese finalità è l’esaltazione del fondoschiena femminile (a proposito di specificità di genere…), eticamente superiore al velo o al chador, la qual cosa rasenterebbe il ridicolo. Eppure è proprio quello che in fondo vorrebbero farci credere. In questi giorni la crociata mediatica “laicista”, “neokantiana” e “illuminista” (raccomando di prendere con la giusta e necessaria ironia l’utilizzo di tali termini…) si è scatenata. E quindi, mutatis mutandis, come è giusto bombardare questo o quel paese per ragioni “umanitarie” e per portare diritti e democrazia, è giusto proibire il “burkini” per le stesse ragioni. Un’ interpretazione fuorviante e fuorviata dell’universalismo kantiano (per restare in tema…), al di là ora dei suoi punti di forza e dei suoi limiti che non è il caso, ovviamente, di approfondire in questa sede, ma tant’è.
Insomma, di necessità, virtù, come si suole dire. E siccome la strategia è quella di criminalizzare quella parte di mondo islamico (che non è certo esente da difetti, sia chiaro, anzi…), colpevole di essere irriducibile al mondo occidentale, ecco che anche la “dialettica” bikini-burkini può risultare efficace e adatta allo scopo.