Il capitalismo e la questione di genere

Pensare che l’attuale società capitalista sia (ancora) dominata dalla cultura patriarcale è ormai privo di ogni fondamento. Equivale a dire – senza timore di esagerare – che gli attuali rapporti di produzione sono di tipo feudale. Questo perché l’attuale sistema capitalista non se ne fa più nulla di una struttura rigida come era quella patriarcale (e matriarcale…), con tutti i suoi vincoli di natura culturale e sociale. Al contrario ha necessità di un contesto sociale “liquido” dove le persone, indistintamente, devono essere ridotte ad una massa di lavoratori “fluidi”, precari e sradicati e a consumatori docili e passivi privi di ogni coscienza e identità (in primis quella di classe). Questo perché la “forma merce” deve scorrere liberamente e ininterrottamente e non deve conoscere ostacoli e impedimenti di nessun genere, tanto meno di natura culturale, sociale, ideologica (e financo) religiosa. Quegli stessi ostacoli che in altre epoche storiche hanno garantito la sua crescita, ora devono essere rimossi. A tal fine il dominio capitalista si è spogliato da tempo della vecchia ideologia “vetero borghese” (riassumibile nel famoso “Dio, Patria e Famiglia”) per assumere quella neoliberale e politicamente corretta, molto più funzionale alla sua riproduzione.

Per capire questo è necessario spiegare alcuni punti fondamentali.

Il capitalismo è un sistema complesso (e non solo un rapporto di produzione) la cui principale peculiarità è la sua grande flessibilità e duttilità, non solo economica e politica ma anche e soprattutto ideologica.

Il capitalismo, nel corso della storia, è stato liberale quando si trattava di “liberare” gli uomini e gli altri fattori della produzione dai legacci economici e ideologico-religiosi dell’“ancien regime”, e illiberale quando il suo dominio è stato messo in discussione. In quest’ultimo caso il ricorso a regimi reazionari e tirannici, al genocidio di massa e al totalitarismo (compreso, ovviamente, quello fascista e nazista, in epoca moderna) ha rappresentato la normalità. E’ stato razzista quando e finchè l’utilizzo della forza lavoro schiavizzata è stata funzionale alla sua espansione, e antirazzista, quando quello stesso modo di produzione non gli è stato più funzionale ai fini della sua illimitata e, in linea teorica, infinita riproduzione. Si è incistato in contesti confessionali oppure laici, sempre in funzione della massimizzazione dell’utile, cioè dell’estrazione del plusvalore. Nello stesso modo è stato a trazione “vetero borghese” e patriarcale fintanto che quella impalcatura ideologica garantiva la sua riproduzione, nella stessa misura in cui oggi è dichiaratamente “neoborghese” (neoliberale) e femminista, per le stesse ragioni.

Per lo meno dalla fine della seconda guerra mondiale (ma il processo è iniziato anche prima) quella sovrastruttura ideologica, anche in seguito alle rivoluzioni tecnologiche e industriali che si sono succedute, non aveva più senso di sussistere, perché le condizioni materiali stavano oggettivamente mutando e sono ormai completamente mutate, anche in seguito all’ingresso massiccio e sistematico delle donne nel mondo del lavoro, dovuto proprio a quelle rivoluzioni tecnologiche di cui sopra.  Il patriarcato è soltanto un pallido ricordo, un cadavere che viene tenuto artificialmente in vita per poter giustificare la nuova ideologia del capitalismo, per lo meno nella sua versione occidentale tuttora dominante, quella che appunto definiamo neoliberale e “politicamente corretta”, di cui il femminismo, in tutte le sue determinazioni, rappresenta uno dei mattoni fondamentali.

Il processo di mercificazione capitalista (ciò che è stato definito “capitalismo assoluto”), all’interno di un contesto dove tutto, anche e soprattutto la sessualità, diventa merce e capitale da investire (per chi dispone di merce e capitale…), vede oggi la maggioranza degli uomini in una condizione di subordinazione, sia in quanto soggetti sociali che in quanto soggetti sessuati maschili, perché privi di ogni peso specifico, in entrambi i casi, e oggettivamente impossibilitati, anche volendo, ad esercitare un benchè minimo potere di condizionamento, tanto meno nella socialità, nella sfera sessuale e nella relazione con il genere femminile.

Il postulato femminista in base al quale tutti gli uomini, per il solo fatto di appartenere al genere maschile sarebbero in una condizione di privilegio e di dominio e le donne, per il solo fatto di appartenere a quello femminile, sarebbero in una condizione di oppressione e discriminazione, appare a dir poco grottesco nella sua evidente e clamorosa falsificazione, e manifesta la sua profonda natura inter-classista e sessista.

Le trasformazioni sociali e tecnologiche hanno penalizzato molto di più la maggioranza degli uomini che hanno visto gradualmente perdere il loro peso specifico (anche nella relazione con l’altro sesso) proprio a causa del passaggio dal lavoro materiale a quello immateriale. Un processo che, da un certo punto di vista, ha reso “inutili” una gran parte di essi. E non è certo un caso che negli interstizi di una società profondamente diseguale, siano gli uomini (la maggior parte di essi) a trovarsi oggi in una condizione di maggior disagio e marginalità sociale e umana.

A tutt’oggi, infatti, sono gli uomini a svolgere i mestieri più nocivi per la salute, pesanti e rischiosi e non a caso la mortalità sul lavoro è un fenomeno quasi esclusivamente maschile; una tragedia di classe di genere, occultata però nel suo secondo aspetto.

Sono gli uomini a suicidarsi nel 95% dei casi per la perdita del posto di lavoro, sono maschili per la gran parte gli abbandoni nella scuola primaria e secondaria così come sono solo maschi a frequentare scuole di serie B (istituti tecnici e professionali), sono quasi tutti maschi i ricoverati alla Caritas e nei centri di accoglienza, sono pressochè quasi tutti maschi e padri i genitori separati che vivono sotto la soglia della povertà, ed è maschile nel 95% circa dei casi la popolazione carceraria. E l’elenco sarebbe ancora molto lungo.

Nonostante ciò la propaganda mediatica politicamente corretta e neofemminista continua ovviamente ad ignorare e ad occultare le contraddizioni provocate da un sistema che oggi vede la maggioranza degli uomini in una condizione di complessiva subordinazione sociale e umana.

L’evidente finalità di questa ideologia – anche se ovviamente non dichiarata –  è quella di fungere da coperchio ideologico, da falsa coscienza necessaria, di spostare l’attenzione dal conflitto di classe a quello fra i sessi, individuando nel genere maschile, e non nel dominio capitalistico, la controparte, anche se alcune sedicenti “femministe marxiste” tentano, con un’operazione a dir poco maldestra, di sovrapporre o di continuare a sovrapporre tale dominio con quello patriarcale. Ma è una contraddizione oggettiva, logica e dialettica, dalla quale non possono e non vogliono uscire perché ciò comporterebbe la loro fine ideologica e politica.

Ciò non significa che anche una gran parte delle donne non viva condizioni di oppressione e di subordinazione sociale e umana all’interno della società capitalista, sia pure in forme in parte diverse (date, appunto, dalla specificità di genere) rispetto a quelle vissute dalla maggior parte degli uomini. Significa, bensì, che l’oppressione sociale e umana non può essere letta in modo unidirezionale, con gli uomini sempre nella veste di oppressori, privilegiati e carnefici e le donne in quelle di oppresse, vittime e discriminate a prescindere. Questo modo di osservare la realtà, oltre ad essere palesemente falso, è intriso di una concezione interclassista e sessista del tutto funzionale a quel sistema che si dice a parole di voler combattere (e che si finisce per alimentare).

I comunisti e i socialisti devono saper leggere le contraddizioni reali, devono essere in grado di leggere in modo lucido la realtà ed entrare in una relazione dialettica con essa, per quella che è e non per quella che si vorrebbe che fosse al fine di assecondare i desiderata ideologici di alcuni/e. Quest’ultimo è solo opportunismo, un atteggiamento ideologico autoreferenziale che nulla ha a che vedere con un approccio autenticamente materialistico alla realtà.

Femminismo = autodistruzione. Punto. – Il mistero delle parole

Fonte foto: da Google

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