Fra natura e cultura, conservazione e cambiamento. Una riflessione sulla tecnica e i suoi possibili esiti.

Ritengo che la relazione introduttiva di Fabrizio Marchi al Convegno per il decennale de L’Interferenza https://www.linterferenza.info/editoriali/di-bolina-contro-un-vento-gelido-e-sferzante/ meriti qualche riflessione suppletiva nell’ambito di un suo sostanziale e forte apprezzamento.
Per prima cosa credo sia giusto sottolineare questo passaggio su cui concordo in pieno.
<> Che l’attuale capitalismo sia “patriarcale” è una sciocchezza enorme, sia perchè il concetto di “patriarcato” è stato ed è travisato totalmente nel suo significato autentico (non essendoci qui tempo e spazio per argomentare mi limito a rimandare chi fosse interessato al numero 587 di www.ilcovile.it), sia perchè è ormai del tutto evidente che gli antichi “privilegi ” maschili (uso le virgolette sia perchè quelle vecchie prerogative erano bilanciate da un gran numero di obblighi personali e sociali, sia perchè quei “privilegi” non riguardavano in nessun modo gli uomini delle classi basse, operai, contadini, piccoli commercianti ecc., ossia la stragrande maggioranza della popolazione).
Detto questo, credo sia importante soffermarsi sulla questione della Tecnica e della scienza, e della loro supposta neutralità, da cui discenderebbe la conseguenza che la partita si gioca tutta sul loro uso giusto o sbagliato ,cioè indirizzato o meno verso il bene della collettività.
Circa la scienza, premessa la mia incompetenza, mi limito ad osservare , a) che le verità scientifiche non possono essere considerate universalmente valide, ma occorre sempre delimitarne il campo di applicazione. Così è, per esempio, per la fisica newtoniana. b) che , quando una ricerca è finanziata da un ente privato (ad esempio una casa farmaceutica) , gli interessi e gli scopi del finanziatore hanno un ruolo molto importante , tale che quella ricerca non può essere considerata “neutra” e fatta solo per amore di conoscenza.
Sulla TECNICA : rimandando per approfondire la questione al n. 868 del già citato www.ilcovile.it ,
credo possa essere utile utile riproporre qui il testo di un mio recente intervento ad un convegno , appunto sulla tecnica, a cui ero stato invitato per una breve relazione. Partirei allora con l’affermare :
A)che lo statuto della tecnica è in sé ambivalente. Scrive l’amico Rino Della Vecchia in un suo breve ma denso articolo dal titolo “Solo la tecnica ci può salvare?” (1) , che nessuno, giustamente, rinuncerebbe agli antibiotici o alla chirurgia, o distruggerebbe le macchine agricole, i telefonini, la Tac ecc. ecc.. Anche i critici più feroci , prosegue, non condannano la tecnica in toto, ma sostengono che occorre salvarne la parte buona , tornare a considerarla uno strumento “strappandola dal ruolo che ha assunto: quello di determinare i valori e perciò il destino”. Valori , quelli determinati dalla tecnica, che possono essere riassunti, prosegue, in uno solo : “tutto ciò che la alimenta è bene, ciò che la frena è male………………Il dogma è questo:ciò che si può fare è bene e perciò deve essere fatto. “ Così, ad esempio, tutte le forme riproduttive umane tecnicamente possibili , diventano immediatamente buone e giuste, veicolo di libertà e autodeterminazione dei singoli, nonché , scrive Della Vecchia, “condicio sine qua non dell’eguaglianza”.
C’è qui un primo snodo fondamentale della questione. Se le pratiche politiche, economiche, etiche e morali della modernità fossero conseguenza diretta e inevitabile della tecnica il problema si porrebbe in modo apocalittico: accettarla o rifiutarla in toto, nel bene e nel male? Se invece si ritiene che quelle pratiche della modernità , benchè influenzate dalla tecnica, non ne siano una conseguenza necessaria ma il frutto di un suo uso distorto, l’interrogativo principale diverrebbe quello di come fare a indirizzarla verso il bene dell’uomo.
Esiste cioè un modo per sfuggire all’alternativa radicale fra il ritorno all’Arcadia e gli esiti finali e ineluttabili del “progresso” tecnico e della Modernità , che possono essere riassunti col termine TRANSUMANESIMO, ossia la contaminazione fra essere umano e apparati tecnici al fine di “migliorarne” le prestazioni , di cui stiamo già vedendo alcuni vagiti , e il cui corollario è la pretesa di “creare” una natura altra, artificiale, che più nulla ha in comune con tutto ciò che fino ad oggi abbiamo definito NATURA, si creda o meno sia essa una creazione divina?

B) Per discutere brevemente la questione del carattere e del senso della tecnica moderna, mi sembra utile partire dalla dall’immagine plastica che ne dette il teologo e filosofo italo/tedesco Romano Guardini (2) in Lettere dal lago di Como. Guardini mette a confronto due opere della tecnica umana, il veliero e la nave a vapore. Mentre il primo utilizza per i propri scopi le forze della natura (i venti, anche quelli contrari, le maree), la nave a vapore procede per la sua rotta indipendentemente da ogni altro fattore che non sia la potenza del suo motore. Ma se nel caso del veliero l’abilità tecnica incontra comunque un limite nella natura, perché con la bonaccia il veliero si ferma, non così la nave a vapore.
La questione può essere posta anche in questi termini, e cioè: uno strumento tecnico può essere una protesi di un arto umano, che lo aiuta e ne accresce la funzionalità (ad esempio un semplice martello o un arpione o arco e frecce ), oppure un macchinario che agisce in modo autonomo secondo logiche e programmi prefissati, e rispetto al quale l’essere umano può agire, al massimo, in qualità di sorvegliante; del tutto, però, impossibilitato a intervenire direttamente nelle sue procedure , diventando così lui, in certo senso, una protesi della macchina.
Inevitabile e immediata è l’ analogia con quanto accade in tema di riproduzione umana. In quella naturale, l’infertilità può essere curata, certamente grazie alla ricerca medica ed alla capacità tecnica di individuare i farmaci o gli interventi chirurgici necessari, tuttavia esiste sempre un limite invalicabile (la fine dell’ovulazione femminile causa l’età). Al contrario, le diverse tecniche di fecondazione artificiale non solo consentono di far diventare madre una donna alla quale la natura ormai lo vieterebbe, ma permettono anche la finzione di considerare genitori di un figlio le coppie omosessuali, maschili o femminili. Ho usato il termine finzione, semplicemente perché le coppie omosessuali sono intrinsecamente sterili, e in quei casi il figlio viene letteralmente acquistato “a la carte” , per di più sfruttando spudoratamente le donne povere del terzo mondo indotte a “affittare” il proprio utero.
Eppure una soluzione al legittimo desiderio di un figlio ci sarebbe. Si chiama ADOZIONE , purché ovviamente da parte di coppie uomo/donna e senza pretendere un bimbo con caratteristiche predeterminate. Lo si toglierebbe da un orfanotrofio, gli si darebbe una famiglia , una madre e un padre.

C) Quanto detto in precedenza rimanda ancora a Romano Guardini, che in Lettere teologiche ad un amico (in origine non destinate alla pubblicazione), scrive che la natura, per tale intendendo ciò che <> Ne discende che l’uomo anziché cercare di organizzare il mondo così come “dato”, finisce per agire in un mondo da lui stesso creato, artificiale, col corollario che deve perciò anche tenerlo insieme per evitare che crolli. <>

Non c’è tempo per parlare dell’interessante dibattito sulla tecnica (per chi volesse approfondire rimando al mio articolo citato in precedenza) che ha coinvolto autori alle volte convergenti su posizioni analoghe, altre invece divergenti. Brevemente, Jacques Ellul (3) nota che, mentre prima del XVIII secolo le tecniche erano integrate in una cultura globale, successivamente è la cultura ad essere dominata e marginalizzata dalla tecnica. L’economista Serge Latouche , il teorico della decrescita felice, non ipotizza in realtà il regresso ad una economia preindustriale , ma un cambio di paradigma per misurare la crescita, ancorato a fattori che non siano solo il PIL. (4) Le tesi dei due autori hanno entrambe punti di forza e di debolezza, ma come detto non c’è tempo per analizzarle meglio in questa sede.

Mi limito perciò ad affermare che, come ogni forma biologica, anche le società umane e le civiltà sono destinate prima a crescere, poi a stabilizzarsi e riprodursi in forme simili a se stesse e infine a de-cadere e deformarsi fino all’estinzione. Il punto decisivo è ciò che avviene durante tali processi, ossia se nel cambiamento ineluttabile le vecchia forme sono conservate seppure trasfigurate nelle nuove, oppure vengono distrutte e/o dissolte. A tal proposito basta osservare la realtà fattuale per capire che lo sviluppo infinito e sempre più veloce implicato nell’idolatria tecnica ed economica ha nel suo DNA l’esigenza di distruggere continuamente tutte le forme del passato rivoluzionandole incessantemente. Il problema , quindi, non è quello di auspicare un regresso ad uno stadio precedente , peraltro indeterminato, delle civiltà umane, né di bloccare l’evoluzione e il cambiamento. La patologia non è il cambiamento, e quindi il concetto di crescita in sé, ma è il modo e i tempi con cui il cambiamento è governato, sempre che si abbia la consapevolezza e la volontà che debba esserlo, governato. Per spiegarmi con un esempio tratto dalla medicina, combattere le cellule cancerogene che tendono ad espandersi fino a distruggere tutte le altre e infine l’intero organismo in cui sono insediate, non vuol dire arrestare l’evoluzione del corpo ma, come fa una medicina saggia, accompagnarne l’evoluzione e la trasformazione intervenendo, conscia anche dei propri limiti, in caso di necessità.

D) E’ significativo che la discussione sulla tecnica interessi personaggi e ambienti culturali e politici che si pongono sia, (per usare categorie che ritengo obsolete ma così ci capiamo immediatamente) a “destra” che a “sinistra”. Ne è esempio il filosofo marxista, e padre di quella corrente politico/ideologica che fu definita “operaismo”, Mario Tronti, scomparso meno di un anno orsono. (5) Tronti individua una analogia significativa fra le rivoluzioni conservatrici e quelle operaie (l’Ottobre sovietico). Entrambe, sostiene, (6) hanno svolto una funzione di Katechon, di freno al dilagare della modernizzazione politica, istituzionale, sociale, tecnologica, ossia, scrive, <> e non perchè la Rivoluzione conservatrice e quella operaia fossero in sé antimoderne, ma perché, pur senza riuscirci, tentarono <>.

Il tema della distruzione o della conservazione delle forme è così delineato chiaramente, e se all’economia sostituiamo o aggiungiamo la tecnica e le moderne tecnologie, la discussione su crescita versus decrescita cambia di segno e si delinea in termini che consentono di sfuggire al dilemma secco e fuorviante fra una passiva e fatalistica accettazione e un rifiuto radicale.
Quando , ad esempio, Serge Latouche (il cui referente è, a mio parere in modo del tutto contraddittorio, la sinistra sedicente radicale), osserva che l’occidentalizzazione del mondo ha significato, causa l’impatto repentino dell’economia e della tecnica occidentali, la distruzione delle economie di sussistenza e dei costumi e stili di vita ad esse legate, ovvero in una parola la deculturazione di molti popoli, soprattutto africani a causa delle loro deboli tradizioni culturali, credo sia nel giusto. Gli fa eco l’allora cardinale Ratzinger, che nel 2004 (7) ebbe a dire che i mores maiorum, le antiche regole morali che proprio la sinistra anela superare in nome del progresso, sono incompatibili con l’economia iperliberista globalizzata, ma coerenti con altre strutture socioeconomiche e culturali che non facciano della ragione tecnica e di quella economica feticci a cui inchinarsi.

Con buona pace, chioso, dei così detti alterglobalisti, che propugnano la globalizzazione giuridica e di ciò che considerano i diritti umani, ma rifiutano quella economica.
La verità è che le pratiche sociali non possono essere segmentate a piacimento in quanto si tengono l’un l’altra. Ergo, se si vogliono la globalizzazione giuridica e dei diritti umani concepiti al modo occidentale, occorre tenersi anche la globalizzazione economica e la tecnica scatenata, con tutte le relative implicazioni.

Se dunque la così detta “sinistra” progressista è in contraddizione con se stessa, non meglio è messa la così detta “destra” sviluppista” e liberista, a proposito della quale ben si attagliano queste parole del filosofo conservatore Roger Scruton (8) <>. Su analoga lunghezza d’onda , Bruce Frohonen nel suo articolo Conservatorismo (9) scrive che la distruzione creativa del capitalismo, come ebbe a definirla Joseph Schumpeter, può essere nemica delle usanze e delle forme di convivenza di un popolo. <> La ricerca spasmodica dell’efficienza e del profitto, prosegue, sono una forma di riduzionismo che postula esserci un unico movente dell’attività umana, cioè il desiderio di guadagno materiale con ciò negando la volontà e il bisogno dei singoli di unirsi in vista del bene di tutti. <<[…] coloro che fanno parte di quelle coalizioni politiche spesso denominate movimento conservatore – siano essi liberali o neo conservatori – che vedono nel capitalismo una fonte di bene per l’uomo e la ragione del progresso nella prospettiva di una società e di individui sempre migliori, non sono, nel senso filosofico che sto qui sostenendo, dei conservatori>>.
Ancora una volta risultano appropriate le parole del cardinal Ratzinger nella conversazione citata sopra << Soprattutto c’è una presenza universale della cultura tecnica nata in Occidente e determinante in ogni parte del mondo per la vita di ogni giorno. C’è una presenza unificante, in certo senso della cultura tecnica e della cultura laica [… la contraddittorietà di questa cultura […] radicalizza il senso di una schiavitù contro la quale ci si deve difendere>>.

Da quanto ho sostenuto sopra , si evince che un utilizzo della tecnica davvero razionale, concetto che, in quanto volto al bene complessivo della comunità umana, è ben diverso dalla semplice e riduttiva “ragione calcolante” , necessiterebbe di tempi, cautele, e processi decisionali incompatibili con l’idolatria del presente, e incompatibili con l’idea di considerare ogni cambiamento buono in sé, con la frenesia che caratterizza la società moderna. E’ possibile tutto ciò?
Credo sia difficile ma non impossibile, a patto che risorga e riprenda vigore lo spirito “comunitarista”, che tuttavia presuppone piccole comunità di vita e di pensiero difficilmente realizzabili nelle grandi metropoli globalizzate e impersonali, parcellizzate e individualizzate nel senso negativo del termine. Vaghe tracce di “comunitarismo” , se ne trovavano ancora, nel dopoguerra, nei vecchi quartieri delle città, in cui le persone si conoscevano , era vivo lo spirito di solidarietà e in cui veniva esercitata anche una forma di controllo sociale spontaneo. E’ soltanto, credo, nelle piccole comunità , dove le persone sono vincolate da credenze, costumi, usanze, tradizioni condivise e non da interessi individuali uguali benchè opposti come nelle così dette democrazie liberali, o da interessi collettivi come era nei socialismi reali, che ogni innovazione tecnica può essere attentamente valutata e ponderata collettivamente e democraticamente nei suoi possibili impatti , e si possono adottare le decisioni migliori per il bene della stessa comunità e dei suoi membri. Faccio, per concludere, due esempi opposti, uno letterario l’altro di vita concreta. Nel romanzo Jayber Crow, Wendell Berry (10) racconta la disgregazione della comunità, e dei vincoli solidali fra i suoi membri , della cittadina di Port Williams (Kentuchy), allorquando, in nome della razionalità ridotta a calcolo e dell’ansia di innovare, si accetta di introdurre le moderne tecniche agricole ed economiche in luogo delle antiche usanze . Sempre dagli Stati Uniti ci viene però anche un esempio in positivo. Sto parlando, senza con ciò voler assolutamente entrare nel merito complessivo di quella credenza, delle comunità protestanti /anabattiste degli Amish (circa 370.000 abitanti complessivamente): lì ogni nuova tecnologia (come per esempio i cellulari) viene discussa democraticamente e sperimentata in modo controllato per capirne il possibile impatto, i suoi pregi e i suoi difetti. E se si ritiene ci siano aspetti positivi se ne definiscono le modalità d’uso.

Ho concluso, nella speranza di essere riuscito a delineare le problematiche di ordine materiale/economico ma più ancora di ordine spirituale e antropologico, in senso lato culturale, che sono implicate nella tecnica.

NOTE.

  1. L’interferenza , RIVISTA on line . 23 giugno 2014
  2. Romano Guardini, cattolico, di origini italiane e naturalizzato tedesco, nacque a Verona nel 1885 e morì a Monaco di Baviera nel 1968
  3. Le bluff technologique, Hachette, Paris 1988 e Il sistema tecnico, Jaca Book, Milano 2009 .
  4. Serge Latouche, economista e filosofo francese (1940) , animatore del MAUSS (Movimento Antiutilarista delle Scienze Sociali) , sostiene nei suoi libri (La scommessa della decrescita, L’abbondanza frugale come arte di vivere, La fine del sogno occidentale, ed altri) non si oppone tanto allo sviluppo economico in linea di principio, ma pensa che debba essere governato e misurato su parametri che tengano conto dell’equa distribuzione delle risorse, dei costi dell’inquinamento, dell’esistenza del “mercato nero”, del tempo libero. Tutti parametri di cui il PIL (prodotto interno lordo), non contempla.
  5. Si veda il n. 863 de www.ilcovile.it (luglio 2015)
  6. In Dello spirito libero. Frammenti di vita e di pensiero (Il Saggiatore , 2015)
  7. Conversazione con Galli della Loggia su storia, politica, religione (Il Foglio, 27 e 28 ottobre 2004),
  8. Manifesto dei conservatori, Raffaello Cortina editore, 2007.
  9. in Cultura & Identità, vol IV n. 17, maggio – giugno 2012
  10. Wendell Berry , attivista ecologista e pacifista , critico della modernità e dell’ american way of life” , è un “conservatore” statunitense , in sintonia con quelle che furono le idee di Edmund Burke . Si veda www.Il Covile .it n. 851, maggio 2015

2 commenti per “Fra natura e cultura, conservazione e cambiamento. Una riflessione sulla tecnica e i suoi possibili esiti.

  1. Piero
    16 Maggio 2024 at 7:43

    Il mito ci racconta che il problema (bivio esistenziale) è nato all’alba dell’ umanità.
    Cristallizzarsi (diminuzione entropica) nel seguire i consigli del Dio buono che aveva messo a disposizione il Paradiso Terrestre, nell’ignoranza, o iniziare il cammino storico (aumento entropico) mangiando il frutto della conoscenza, seguendo il malevolo Serpente.

    • Giulio Bonali
      16 Maggio 2024 at 15:48

      Non sono d’ accordo (con Piero).

      Secondo me esistevano e forse ancora esistono (e nel dubbio dobbiamo lottare per realizzarle) ulteriori alternative oltre a quella fra restare come gli altri animali (allo stato di natura) e sviluppare una cultura (una storia umana come ramo peculiare della storia naturale) che non portasse (non porti alla realizzazione della) alla catastrofe incombente (e da seguace del materialismo storico credo che decisiva in proposito sia la lotta di classe).

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