Sulla sinistra “rossobruna”

Nonostante la sua critica dello Stato come organo politico dei ceti dominanti, nonostante il suo internazionalismo, la sinistra in Occidente ha sviluppato la sua azione all’interno dello Stato: ha cercato di prendere il potere e di esercitarlo al livello dello Stato, ha investito nella legislazione statale innovativa, e nella difesa e promozione della cittadinanza statale per i ceti che ne erano tradizionalmente esclusi. Nella sinistra agiva l’impulso a considerare lo Stato come una struttura politica democratizzabile, sia pure a fatica; mentre le strutture sovranazionali erano per lei deficitarie di legittimazione popolare. La sinistra italiana, per esempio, fu ostile alla Nato (comprensibilmente) ma anche alla Comunità Europea. E in generale le sinistre difesero gelosamente le sovranità nazionali e si opposero a quelle che definivano le ingerenze dei Paesi occidentali nelle faccende interne degli Stati sovrani dell’Est, quando qualcuno protestava perché vi venivano calpestati i diritti umani. L’internazionalismo della sinistra rimase al livello di generica approvazione dell’esistenza dell’Onu, di più o meno platonica solidarietà per le lotte dei popoli oppressi, e di sempre più cauta collaborazione con i partiti comunisti fratelli. L’internazionalismo inteso come spostamento del potere fuori dai confini dello Stato, avversato dalle sinistre, fu invece praticato vittoriosamente dai capitalisti e dai finanzieri.

Caduta l’Urss, la sinistra aderì entusiasticamente al nuovo credo globale neoliberista e individualistico, e alla critica dello Stato (soprattutto dello Stato sociale) e della sovranità – oltre che dei sindacati e dei corpi intermedi – che esso comportava. L’idea dominante era che la sinistra di classe non era più ipotizzabile perché le classi non esistevano più, e perché vi era ormai una stretta comunanza d’interessi fra imprenditori e lavoratori. La giustizia sociale era un obiettivo raggiungibile solo se si lasciava che il mercato svolgesse la propria funzione di generare la crescita complessiva della società: la politica era solo un accompagnamento di processi di sviluppo in realtà autonomi. Gli inconvenienti del mercato si dovevano correggere nel mercato. Sono state le sinistre a introdurre il neoliberismo in Europa: Blair, Delors, Mitterand, Schroeder, Andreatta, D’Alema, Bersani. La sinistra storica divenne così un partito radicale di massa, schiacciato sulle logiche dell’establishment e sulla sua gestione, impegnato – senza esagerare – sui diritti umani e civili visti come sostitutivi dei diritti sociali. Una sinistra dei ceti abbienti e cosmopoliti, incapace di interrogare radicalmente i modelli economici vigenti, le strutture produttive e le loro contraddizioni.

La critica alle storture, alle disuguaglianze, alla subalternità del lavoro, che invece si manifestarono nelle società occidentali soprattutto a partire dalla Grande crisi del 2008, e alla logica deflattiva dell’euro ordoliberista – con cui l’Europa volle giocare la propria partita nel mondo globale –, fu lasciata alle sinistre radicali (Tsipras, Corbin, Mélenchon, e negli Usa Sanders), generose ma anche confusionarie, e per ora minoritarie, e ai movimenti populisti e sovranisti spesso di destra, che oggi intercettano il bisogno di protezione e di sicurezza di gran parte dei cittadini. Che sono preoccupati per la propria precarietà economica, per il declassamento sociale e per i migranti, visti come problema di ordine pubblico ma anche come competitori per le scarsissime risorse che lo Stato destina all’assistenza e al welfare. Le destre politiche approfittano, come sempre, dei disastri provocati dalle destre economiche (e dalle sinistre che hanno dimenticato se stesse).

Mentre la sinistra deride e insulta gli avversari politici, grida al fascismo fuori tempo e fuori luogo (banalizzando una tragedia storica), e di fatto nega i problemi reali rispondendo alle ansie dei cittadini con prediche moralistiche e con la proposta di dare a Balotelli la maglia di capitano della nazionale, come segno anti-razzista, la destra politica e i populisti quei problemi li riconoscono e ne approfittano. Naturalmente, la interpretazione che ne danno è più che discutibile: i migranti e la casta (bersagli dei populisti e delle destre) non sono i principali responsabili della crisi e della disgregazione che ha colpito il Paese. Ma almeno queste forze anti-establishment porgono ascolto ai cittadini, che infatti li votano, mentre non votano le sinistre, che fanno sterile e superficiale pedagogia mainstream, e che ora scoprono con stupore di essere confinate nei quartieri alti, mentre nelle periferie degradate il proletariato e i ceti medi impoveriti – che ancora esistono, nonostante le analisi di sociologi non troppo perspicaci – votano destre e populisti.

In questo contesto, i sovranisti di sinistra (che non si possono definire “rosso-bruni”, che vuol dire “nazi-comunisti” – ed è un po’ troppo –) cercano di recuperare il tempo e lo spazio perduti dalle sinistre liberal e globaliste. Cercano insomma di sottrarre la protesta sociale alle destre, e tornano così allo Stato, nella consapevolezza che senza rimettere le mani su questo e sulla sovranità – che è un concetto democratico, presente nella nostra Costituzione, e che di per sé non implica per nulla xenofobia e autoritarismo – non ci si può aspettare alcuna soluzione dei nostri problemi, che non verrà certo da quelle potenze sovranazionali che li hanno creati (naturalmente, esistono forti responsabilità anche interne del nostro Paese, che andranno affrontate). Ovviamente è una strategia rischiosa, non garantita, forse anti-storica (ma lo Stato, in ogni caso, è ancora il protagonista della politica mondiale); e, altrettanto ovviamente, facendo ciò le sinistre sovraniste sposano, entro certi limiti, gli argomenti della destra, e ne condividono i nemici (la sinistra moderata – mondialista e europeista –, e il capitale globale). Ma se la sinistra sovranista sa fare il proprio mestiere riesce a distaccarsi chiaramente dalla destra politica perché è in grado di dimostrare che questa dà a problemi veri risposte parziali, illusorie e superficiali: la destra va sfidata non sui migranti, ma sulle politiche del lavoro; non sui vitalizi, ma sulla critica della forma attuale del capitalismo; non sull’euro, ma sulla capacità del Paese di non essere l’ultima ruota del traballante carro europeo; non sul nazionalismo, ma su un’idea non gerarchica di Europa.

Siamo alla fine del ciclo democratico e progressivo apertosi con la vittoria sul fascismo: una fine sopraggiunta dapprima nelle strutture economiche, e ora nel pensiero e nella pratica politica. In campo, duramente contrapposte ma complementari, ci sono establishment e anti-establishment: due destre, una economica (a cui è di fatto alleata la ex-sinistra liberal) e l’altra politica, l’una moderata e l’altra estrema. Lo spazio della sinistra non è accostarsi ai moderati, né mimare gli estremisti di destra, ma praticare la profondità, la radicalità dell’analisi; il suo compito è dimostrare che il cleavage destra/sinistra esiste ancora, ma è nascosto, e complesso. E che per il bene di tutti lo si deve fare riaffiorare.

Fonte: https://ragionipolitiche.wordpress.com/2018/06/29/sulla-sinistra-rossobruna/

9 commenti per “Sulla sinistra “rossobruna”

  1. ARMANDO
    4 luglio 2018 at 16:39

    Purtroppo esiste anche un’altra sinistra (come se quella attuale non avessa già fatto abbastanza guai), per la quale la rivoluzione delle “moltitudini” sarà favorita dall’affermarsi planetario dell’Impero Usa e del turbocapitalismo delle multinazionali. Sto parlando di quegli “accelerazionisti” alla Toni Negri. C’è anche da dire, però, che queste idee derivano anche , legittimamente, da parte delle opere di Marx. Il che dovrebbe avere come conseguenza una analisi attenta dell’opera del filosofo di Treviri, per scorgervi ciò che tuttora rimane valido e insuperato, e ciò che c’era di caduco e sbagliato.

    • Fabrizio Marchi
      4 luglio 2018 at 22:00

      Armando, TUTTI, e quando dico tutti intendo dire veramente tutti, possono tirare per la giacca questo o quel filosofo. Tutti possono interpretarlo, decontestualizzarlo dal suo tempo, prendere quello che gli serve e collocarlo nel proprio tempo. Che è quello che fa anche Negri quando si difende dall’accusa che gli hai giustamente appena mosso tu (e che gli muovono in tanti), cioè quella di muoversi nel solco di Marx. Se è per questo ci sono state decine di filosofi che si sono mossi nel solco di Marx e hanno detto cose anche completamente diverse, e non credo ci sia bisogno di fare l’elenco perché tu stesso lo conosci meglio di me. Allora – visto che tu sei uno studioso dei marxisti antimoderni – anche loro potrebbero sostenere di essere i veri interpreti e continuatori del pensiero di Marx, e non stiamo parlando del due di briscola, perché sicuramente uomini come Preve, Tronti o Camatte non hanno di certo nulla da invidiare a Negri, anzi, per ciò che mi riguarda siamo proprio ad un altro livello…
      Ora, se siamo onesti (e tu lo sei) dobbiamo convenire che quell’accelerazionismo di cui sopra ai tempi di Marx era del tutto comprensibile perché Marx vedeva la società feudale sgretolarsi sotto i colpi della borghesia e del capitalismo e naturalmente leggeva questo passaggio storico (epocale per quei tempi) in termini progressivi e positivi. Io penso che CHIUNQUE avrebbe fatto lo stesso, noi in primis.
      Ora il contesto storico è COMPLETAMENTE DIVERSO e quell’accelerazionismo di cui sopra unito a teorie decisamente scombiccherate come quella delle moltitudini desideranti, diventa oggettivamente funzionale al capitale, indipendentemente dalla buona o dalla cattiva volontà di Negri a titolo personale.
      Voglio dire, tirare in ballo il povero Marx per interpretare e derubricare tutti i disastri teorici e pratici di i vari successori (non tutti, ovviamente…), mi pare francamente esagerato. Che lo facciano i cantori del sistema liberal liberista capitalista dominante è del tutto ovvio. Penso però che noi abbiamo gli strumenti e anche l’onestà intellettuale per sottrarci a queste operazioni che, peraltro, come ripeto, possono essere fatte con TUTTI i filosofi. Ma quante volte i vari Platone, Aristotele, Hegel sono stati tirati in ballo (in senso negativo, ovviamente) per dire che quello è il padre spirituale della schiavitù (Aristotele) e quegli altri sono stati i padri del totalitarismo (Platone ed Hegel) e via discorrendo. Discorsi capziosi che non hanno nessun fondamento perché fondati su un approccio strumentale alle cose. Ne ho sentite di cotte e di crude da questo punto di vista che tu neanche ti immagini.
      Io credo invece che ciascuno è responsabile delle proprie azioni. E credo soprattutto che TUTTO marcia alla fin fine sulle gambe degli uomini. Marx è responsabile di quello che ha scritto e di NIENTE ALTRO. E questo vale per TUTTI. Se per millenni c’è stata la schiavitù, la responsabilità di questa NON va attribuita ad Aristotele che l’avrebbe coperta o giustificata filosoficamente, perché ai suoi tempi la schiavitù era un fatto del tutto normale. E così via. Se i cristiani (cattolici o protestanti che fossero) hanno perpetrato massacri e genocidi in giro per il mondo, la responsabilità è forse di Cristo o di Pietro? Ovviamente NO.
      Allora se dobbiamo parlare di Toni Negri, parliamo di Toni Negri e lasciamo in pace quel povero cristo di Marx senza ogni volta tirarlo in ballo. A meno che in realtà non siamo animati da una volontà distruttrice nei suoi confronti. E però allora diciamocelo…
      Diamo a Cesare (o ai vari Cesari…) quel che è di Cesare e diamo a tutti gli altri quel che è degli altri…

  2. 4 luglio 2018 at 20:53

    condivisibile

  3. ARMANDO
    5 luglio 2018 at 17:57

    Detto, ovviamente, che quelle di Negri sono idee che si traducono in un supporto agli USA, l’errore di tanta parte della sx è di aver voluto fare di Marx una sorta di Bibbia del comunismo, sia non tenendo conto, come dici giustamente, del contesto storico dell’epoca, sia omettendo colpevolmente di confrontarsi con tutte le sue opere, anche celando le parti più “scomode” rispetto alla lettura ufficiale. Marx è stato un grandissimo autore, col quale sono costretti a confrontarsi anche coloro che non ne condividono l’impianto di fondo. E come tutti i grandi autori, il suo pensiero è cambiato nel tempo in rapporto all’osservazione della realtà che andava manifestandosi di fronte ai suoi occhi. Per questo ritengo che, se appunto non se ne vuol fare una Bibbia, nessuno possa rivendicare di esserne l’interprete più autentico e veritiero. L’operazione intellettualmente più onesta, è invece quella di riprenderne certe parti, senza nascondere che sono diverse e anche contraddittorie rispetto ad altre (come è ovvio per qualsiasi pensiero complesso in divenire), e partendo da esse cercare di svilupparle in tutte le loro potenzialità e rispetto ai cambiamenti economici e sociali nel frattempo intervenuti. Cito solo, a questo proposito, la nota questione della possibilità, per la Russia, di un passaggio diretto dalle antiche comunità rurali (obscine) in cui vigeva una forma comunitaria di proprietà della terra, al comunismo, senza passare “dalle forche caudine del capitalismo”. Fu una possibilità che Marx intravide sul finire della sua vita influenzato anche dal proficuo rapporto coi populisti russi. In questo caso Marx era tutt’altro che accelerazionista, come invece appariva in molte sue opere anche della maturità. Ma voglio indicare anche un’altra questione secondo me di importanza capitale: ne i “Manoscritti economico-filosofici del ’44”, c’è un passaggio a proposito dei concetti di alienazione ed estraniazione, sorprendente. In sostanza, scrive il giovane Marx ventiseienne, nel paragrafo “il segreto della proprietà privata”, che non è la proprietà privata che genera alienazione ed estraniazione, ma il contrario. E’ il processo di estraniazione e alienazione, evidentemente antecedente ed avente a che fare (a me pare) col sorgere e l’affermarsi del processo del “valore”, che genera la proprietà privata coi suoi guai. Il che significa che l’alienazione e l’estraniazione possono sussistere anche in un assetto socioeconomico che preveda la proprietà pubblica dei mezzi di produzione, mentre in una forma sociale non estraniata ed alienata non potrebbe sussitere la proprietà privata. Ma come, attraverso quali strumenti e processi, in base a quale ipotetico schema e con quali pratiche, iniziare ad andare oltre l’alienazione, o riconquistare uno stato individuale e collettivo non alienato/estraniato? Problema, inutile, dirlo, immenso ma non aggirabile, nè in senso teorico nè in senso concreto.

    • Panda
      6 luglio 2018 at 18:14

      Sommessamente segnalo K. Anderson, Marx at the Margins, per vedere la continua autorevisione, in un senso tra l’altro sempre più problematico, a cui Marx sottoponeva le proprie posizioni.

      Come diceva Lukàcs: l’ortodossia nel marxismo è solo nel metodo.

      • ARMANDO
        6 luglio 2018 at 19:35

        non conoscevo. Ma il libro è tradotto in italiano?

        • Panda
          6 luglio 2018 at 21:01

          Credo proprio di no. Però merita. Ci sono testi noti, ma presentati in continuità tematica, e anche inediti, per esempio i tardi studi di antropologia, pubblicati recentemente nella MEGA 2.

          Una citazione (pag. 238): “Postcolonial and postmodern thinkers, most notably Edward Said, have criticized The Communist Manifesto
          and the 1853 India writings as a form of Orientalist knowledge fundamentally similar to the colonialist mindset.
          Most of these critics [come d’altra parte molti degli apologeti accelerazionisti…] have failed to notice that by 1853, Marx’s perspective on Asia had begun to shift from the standpoint of the Manifesto, becoming more subtle, more dialectical. For he also wrote in the 1853 Tribune articles that a modernized India would find a way out of colonialism, which he now described as itself a form of “barbarism.” Sooner or later, he argued, the end of colonialism in India would come about, either through the aid of the British working class, or by the formation of an Indian independence movement. As Indian scholars like Irfan Habib have pointed out, this aspect of Marx’s 1853 writings on India constitutes the first instance of a major European thinker supporting India’s independence.
          By 1856–57, the anticolonialist side of Marx’s thought became more pronounced, as he supported, also in the Tribune, the Chinese resistance to the British during the Second Opium War and the Sepoy Uprising in India. During this period, he began to incorporate some of his new thinking about India into one of his greatest theoretical works, the Grundrisse (1857–58). In this germinal treatise on the critique of political economy, he launched into a truly multilinear theory of history, wherein Asian societies had developed along a different pathway than that of the successive modes of production he had delineated for Western Europe—ancient Greco-Roman, feudal, and capitalist.
          Moreover, he compared and contrasted the communal property relations, as well as the broader communal social production, of early Roman society to those of contemporary India. While he had seen the Indian village’s communal social forms as a prop of despotism in 1853, he now stressed that these forms could be either democratic or despotic.”

          • Giovanni
            7 luglio 2018 at 12:31

            Interessante. Ma è questo qui che sembra stare interamente on line (trovato semplicemente con Google)?

  4. Panda
    7 luglio 2018 at 13:37

    Sì, Giovanni, è proprio quello. 🙂

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