Viviamo in un tempo di ombre, ma spesso è dove non volgiamo lo sguardo che si trovano le verità che rivelano il nostro tempo. Non è inusuale ascoltare la domanda su “che cosa sia la filosofia”. Domanda importante e fondamentale ma meno compromettente rispetto alla domanda “chi sono i filosofi”. Si dà per scontato che i filosofi siano accademici ed esperti, le loro esistenze ad uno sguardo più attento si confondono l’una con l’altra, è il “segno dell’assenza di una originalità del profondo”.
Il titolo di filosofo è attribuito a chiunque sia specializzato in un autore o in una branca specialistica della filosofia e viva all’ombra delle accademie. Sono uomini che nulla traggono da sé, ma continuano a macinare l’infinito spirito dei filosofi. Ne traggono linfa per i loro saggi, sono conferenzieri che non osano avventurarsi nel “nuovo”. Le loro parole sono conferme del “già detto”, pertanto restano all’interno di schemi precostituiti. Uomini infecondi che riposano su parole che non lasciano intravedere orizzonti mai battuti, vivono nelle accademie come fossero temperati rifugi: le guerre dello spirito sono degli altri, le loro esistenze sono comode prigioni a cui si sono adattati.
Per capire che cosa sia la filosofia è necessario comprendere chi sono i filosofi. Bisogna partire dalla vita per discernere e dare risposte.
Charles Péguy sembra venirci incontro, lui che non conobbe e volle facili schemi in cui incasellare il suo spirito, definì i filosofi “esploratori di nuovi continenti”.
I filosofi vivono la condizione dell’esilio, non appartengono ad istituzioni, sono uomini che toccano le vette della libertà. L’esilio volontario consente di liberarsi degli agi istituzionali e di ascoltare fortemente il pensiero, essi si sbarazzano di sovrastrutture per scendere nella verità storica per ricercare l’eterno ed emanciparsi da resistenze e preclusioni. L’esilio permette di rinascere a nuova vita, di superare preclusioni e facili barriere. Si entra in nuovi stati concettuali, si abbandona, come in una muta, l’inautentica pelle del politicamente corretto per osare il nuovo e trarlo dalla profondità del logos:
“I grandi filosofi sono degli esploratori. Quelli grandi sono coloro che hanno scoperto dei continenti. Quelli non grandi sono coloro che hanno pensato solo a farsi ricevere alla Sorbona con tutti gli onori[1]”.
L’esilio è apertura alla vita e alla storia. Nei meandri delle accademie e nei suoi corridoi polverosi la parola si fa chiacchiera, è un suono sterile, un clone che ripete se stesso. Il filosofo invece è uomo della storia e nella storia, egli è a contatto con la vita, l’accoglie e l’ascolta, non teme il giudizio non per iattanza ma per umiltà della parola. Il concetto affiora, se si è umili, se si porge ascolto alla parola. Coloro che ritengono di sapere hanno uno spirito corazzato, sono uomini che hanno smesso di pensare, essi calcolano e organizzano carriere, il pensiero è solo un mezzo. Tra i tanti a disposizione.
Per il filosofo il pensiero è l’intero ma senza barriere minate, egli vive con la parola, la pensa per poter esplorare possibilità celate al senso comune. Pensare significa rinunciare alla sorveglianza e al controllo per diventare parola:
“Che quando le cose sono così ben fatte difettano del difetto, quel certo non so che, quell’apertura lasciata al destino, quell’agio, quell’apertura lasciata alla grazia, quel rinunciare a se stesso, quel lasciarsi andare sul pelo dell’acqua, quell’apertura lasciata all’abbandono a una grande fortuna, quel mancare di sorveglianza, in fondo, quel perfetto sapere, quella bellissima consapevolezza che non si è niente, quel rimettersi e quell’abdicare che sta nel fondo di ogni uomo veramente grande[2]”.
“Ospizio parola”
Bisognerebbe chiedersi che cosa sia una civiltà senza “filosofi”. L’Occidente vive uno stato di abbrutimento raro, esso è penetrato in ogni gesto quotidiano. La parola e il concetto sono stati sostituiti dal calcolo. Si vive in uno stato di pensionamento del concetto.
Si accumula e si consuma, ma nulla nasce, tutto è sterile e infecondo. La parola è un vocalizzo senza profondità e destino. Il presente sfugge nei calcoli, il futuro è solo un piano di accumulo. L’ospizio è ovunque, la vita e le vite non sono esperienze maieutiche ma cronicari per giovani e vecchi:
“Pensare alla pensione è il limite e il massimo di pensare a domani. Sacrificare tutto alla pensione è il limite e il massimo di sacrificare l’oggi al domani. Ne è la forma suprema, la più culminante. Ne è la stessa forma, e poiché è questione di stabilizzare ne è la forma per così dire definitiva. E’ anche il massimo della morte e la formula della tranquillità. In materia simile, il campo economico è come un ingigantirsi della morale e la morale è come una codificazione di certi aspetti della psicologia e della metafisica. Quel mostruoso bisogno di tranquillità che scatta nella sterilità di tutto un popolo, nell’annientamento di tutta una razza è soltanto un ingigantirsi su di un piano enorme di quel mostruoso bisogno famigliare di tranquillità morale, che ci fa sempre pensare al domani e sacrificare l’oggi al domani, e quel bisogno familiare morale è anche lui soltanto una codificazione del mostruoso bisogno di tranquillità che in psicologia e in metafisica ci fa sempre sacrificare il presente all’attimo dopo[3]”.
L’illusoria pace ottenuta con la dedizione maniacale e manicomiale all’economicismo è distopia pianificata. I popoli che si inginocchiano alle leggi del mercato e le venerano come fossero dogmi di una nuova religione a cui tutto sacrificare per un’imprecisa felicità sono desertificati. Sterilizzare significa inibire la nascita dei filosofi e della filosofia, si teme la radicalità del pensiero che nega le illusorie certezze dei calcoli. Senza libertà non vi è logos, se si rinuncia alla libertà del logos in nome del denaro il prezzo da pagare è il “libero aggiogamento” e “la sterilità pianificata”:
“A pagare è sempre la libertà. E il denaro è sempre padrone. Per avere pace domani, (e la pace si ottiene solo col denaro), si aliena, si vende la libertà, oggi[4]”.
Mutismo concettuale
L’interscambiabilità di tutto e di tutti sul paradigma del denaro porta al mutismo concettuale. Il silenzio interrotto dal suono sordo delle monete e dai passaggi delle transazioni trasforma l’Occidente in un ospizio. L’ospizio è l’anticamera della morte, non conosce “concetti” ma solo transazioni.
La libertà è il punto di rottura del determinismo, il logos è la libertà che pensa la lunga successione di cause ed effetti, è il momento della dimenticanza necessario per poter creare il nuovo. Dove vi è l’ospizio della parola: tutto è memoria e calcolo, ogni spazio e ogni tempo è occupato dall’ossessione della pubblica prostituzione che ha sostituito la pubblica ragione:
“Il mondo moderno non è universalmente prostituzionale per lussuria. Non ci riesce. E’ universalmente prostituzionale perché è universalmente interscambiabile[5]”.
La prostituzione è infeconda. Il filosofo è fecondo, in quanto si sottrae alla logica dell’interscambiabilità. Per il sistema denaro è uno scandalo da superare, gli ricorda la sua storicità, indica con la sua presenza discreta che il potere-dominio non è tutto.
La grande guerra dei nostri decenni e degli ultimi secoli ha nell’attacco frontale e pianificato contro i filosofi uno dei suoi capisaldi. Si lotta contro la vita nella battaglia contro i filosofi. Dove vi è vita, vi è l’inquietudine dell’inaspettato che può tagliare il cielo plumbeo dell’omologazione. Ogni filosofo è una nascita, con egli inizia un nuovo percorso, ogni nascita non è solitaria, ma è un popolo che riprende il cammino interrotto.
Le grandi filosofie sono le riserve vitali in un’epoca di desertificazione. Ha ben dire Charles Péguy, sono le nostre cantine, dove i concetti sono conservati per essere pensati al fine di risemantizzare il mondo. La vita attende altra vita per essere rimessa in gioco e per riportare nel deserto la sua oasi. Lottare contro i filosofi denota un odio senza limiti per la vita e per la creatività. La cultura della cancellazione vorrebbe non farci scorgere i “granai della vita”, ma è lotta vana. Gli esseri umani sono logos e cercano il fondamento veritativo senza il quale sono assimilati alla secca sterilità dei granelli di sabbia:
“I grandi pensieri, come il pensiero platonico, come il pensiero cartesiano, come il pensiero bergsoniano, cosa altro sono se non i frutti della terra, e non certo tra i meno saporiti, per chiunque abbia un’anima pensante, anzi, per chiunque sia un’anima pensante? Le grandi filosofie cosa altro sono se non le nostre cantine e i nostri granai?[6]”.
La speranza riaffiora solo nell’esodo e nella dimensione dell’esilio. Abbondonare il deserto quotidiano per riprendere il cammino della vita è necessità ontologica senza la quale non vi è umanità:
“Qui appaiono, qui sbocciano, qui, giunti a questo incrocio, sgorgano nel suo senso pieno la forza e la destinazione centrale della virtù che abbiamo chiamato la bimba Speranza. E’ essenzialmente l’anti abitudine[7]”.
I filosofi, piccoli e grandi rompono gli ormeggi, testimoniano con la verità del gesto, prima ancora che con la parola, la speranza. La parola affiora dalla vita, il concetto è il momento apicale di un processo lungo e flessuoso che conosce l’inerpicarsi del nuovo nella lingua vivente.
La speranza è sempre giovane, essa può affacciarsi anche nell’ospizio dell’Occidente, in quanto è dimensione esclusivamente umana con la quale si spezza l’abitudine a restare nelle prigioni degli schemi preconfezionati.
[1] Charles Péguy, Cartesio e la filosofia cartesiana, Studium, Roma, 2014 pag. 20
[2] Ibidem pp. 26 27
[3] Ibidem pp. 185 186
[4] Ibidem pag. 187
[5] Ibidem pag. 231
[6] Ibidem pag. 91
[7] Ibidem pag. 76
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