Dove sbaglia la “sinistra sovranista”

Ho letto questo articolo di Carlo Formenti https://www.sinistrainrete.info/articoli-brevi/14088-carlo-formenti-l-ideologia-antistatalista-e-l-autodistruzione-delle-sinistre.html che è in buona parte condivisibile.

Tuttavia mi pare che nella sua posizione così come in quelle dei vari esponenti della neonata “sinistra sovranista” ci sia un eccesso di enfasi nei confronti dei concetti di nazione e di patria. Non è un caso che l’autore concluda l’articolo con una citazione del subcomandante Marcos che difende lo stato nazionale contro il tentativo di distruggerlo da parte del grande capitalismo transnazionale.

Ma è soltanto l’ultima in ordine di apparizione. Fino ad ora il più gettonato negli ambienti della suddetta sinistra sovranista è stato sicuramente Palmiro Togliatti, storico leader del PCI che – pur essendo “cosa” completamente altra rispetto a Marcos per cultura, formazione politica e contesto storico-politico – sosteneva la necessità di difendere e rafforzare lo stato nazionale che in Italia – è bene ricordarlo – scaturiva dalla guerra di liberazione contro il nazifascismo ed era il risultato di una gigantesca mediazione tra forze politiche nazionali e internazionali assai diverse che portò al “varo” della Costituzione Italiana.

Ora, la funzione delle citazioni è quella di individuare quei precedenti storici (autorevoli…) con i quali rafforzare e “giustificare” le proprie posizioni, specie quando queste sono tacciate dagli avversari di essere pericolose, ambigue o addirittura reazionarie.  A mio parere è un atteggiamento di debolezza e non di forza, perché se si è veramente convinti delle proprie opinioni non c’è necessità di ricorrere ai suddetti “precedenti”, anche perché la storia e la politica non funzionano come la giurisprudenza e ciò che poteva essere valido per il passato potrebbe non esserlo più per l’oggi. Ma non è questo il punto che volevo ora trattare (e mi interessa anche poco).

Il punto, anzi, i punti sono altri.  Prima però è bene chiarire alcune aspetti onde evitare equivoci e/o fraintendimenti.

Non ho un pregiudizio nei confronti dei concetti di patria e nazione (sarei anche un “cattivo” socialista e un “cattivo” comunista se li avessi…) che nella storia sono stati concepiti e interpretati in modi e forme estremamente differenti. Invito quindi a leggere (per non ripetermi) questi due articoli dove spiego la mia posizione che è tutt’altro che aprioristicamente contraria ai summenzionati concetti, che non considero affatto di destra o reazionari a prescindere come vorrebbe una certa vulgata di sinistra cosiddetta “radicale”:

https://www.linterferenza.info/editoriali/sul-concetto-patria/

https://www.linterferenza.info/editoriali/sul-concetto-identita/

Come prima cosa resta da chiarire se la posizione “nazionalista” di Togliatti fosse dovuta a ragioni ideologiche (come è per la “sinistra sovranista”) oppure semplicemente dettata dalla realpolitik, che finisce molto spesso se non quasi sempre a dettare le regole e a fare la politica. Ricordiamo che ci si trovava nel mondo diviso in blocchi; il PCI era ideologicamente e politicamente collocato all’interno del blocco sovietico ma geograficamente e concretamente collocato in quello occidentale. Il contesto internazionale, che vedeva una sorta di “pace armata” fra USA e URSS e l’impossibilità per le ben note ragioni di modificare quell’equilibrio, costrinse di fatto i comunisti (e non solo quelli italiani…), in totale accordo con Mosca, a percorrere la strada delle “vie nazionali al socialismo”.  Questo per dire che, a mio parere, è ancora da stabilire – ammesso, sia chiaro, che abbia una sua importanza perché ciò che conta è sempre la effettiva e concreta determinazione delle cose – se la rivendicazione dei concetti di nazione e patria da parte dei comunisti italiani e di Togliatti fosse dettata da ragioni ideologiche o semplicemente da fatti contingenti (che sono sempre quelli che contano) che hanno concretamente portato ad una modificazione anche della strategia. Il dibattito, per quanto mi riguarda, è aperto. Resta il fatto che la stessa URSS era uno stato nazionale, anche se formata da tante diverse etnie e nazionalità, così come gli altri stati socialisti anche se di fatto e poi anche formalmente sottoposti a sovranità limitata (come, del resto i paesi europei occidentali aderenti alla NATO e non solo).

A mio parere questa questione è mal posta dagli stessi amici e compagni della “sinistra sovranista” che, in questo caso, così come sul modo di leggere e affrontare il nodo dell’immigrazione (ma su questo aspetto mi sono già pronunciato più volte e non voglio tornarci in questa sede per non ripetermi…), rischiano di essere contigui alla “destra (solo a parole) sovranista”.

Sembrerebbe quasi – per come la questione viene posta – che sia in atto uno scontro fra capitale transnazionale e liberista da una parte e stati sovrani e “statalisti” o comunque non liberisti dall’altra. Da una parte, quindi, il grande capitale che tutto vuole dissolvere, in primis gli stati nazionali, e dall’altra la resistenza di questi ultimi, come dei bastioni dell’anticapitalismo e dell’anti neoliberismo.

Ovviamente, se così stessero le cose, non resterebbe che schierarci dalla parte degli stati nazionali per contrastare la furia dissolutrice dell’ ”impero” capitalista sovra e transnazionale. Non sono uno sprovveduto e capisco che forse la posizione degli amici sovranisti sia diversa da questa semplificazione (in tal caso, si spiegassero meglio perché se non l’ha capita il sottoscritto è probabile che anche tanti altri siano nella mia stessa situazione…). E tuttavia, stando alla loro rappresentazione, sembrerebbe essere proprio questo lo scenario.

Ora, un conto è la critica (che condivido) all’antistatalismo anarcoide di una certa sinistra, ormai peraltro ridotta ai minimi termini, che individua nello stato solo e soltanto una istituzione repressiva e totalitaria sempre e comunque, e un altro è considerare lo stato stesso e gli stati come i bastioni, per definizione, della resistenza al capitalismo e all’imperialismo. Possono esserlo (e lo sono stati, a volte, nella storia), ma possono, ovviamente, anche non esserlo, come il più delle volte è invece accaduto.

E’ senz’altro vero che il capitalismo, specie in questa fase storica, tende a spogliare di autonomia e sovranità, spesso a sottomettere e talvolta a distruggere (con la guerra e/o processi di destabilizzazione violenta) gli stati nazionali, ma questo avviene solo in determinati casi, e comunque nella “periferia” (più o meno vicina o lontana) dell’ “impero”. Perché è proprio attraverso gli stati (naturalmente quelli dominanti) e i loro apparati militari, burocratici, mediatici e repressivi che il capitale afferma e consolida il suo dominio. A meno di non pensare che il capitalismo sia una sorta di entità astratta che vive e prolifera in una dimensione altra.

Forse pensiamo che il capitale abbia intenzione di dissolvere gli USA, la Gran Bretagna o Israele? Ma non scherziamo neanche. Questi tre stati (ma anche altri, ovviamente, seppur con funzioni talvolta relativamente minori) costituiscono la cabina di regia del capitalismo e dell’imperialismo mondiale e sono del tutto sovrapposti e identificati con il capitalismo stesso di cui sono lo strumento principale. La funzione degli stati resta, dunque, fondamentale, sia per quanto riguarda il mantenimento dell’ordine sociale (capitalistico) all’ interno agli stati stessi, sia per quanto riguarda il controllo, la “prevenzione” e la eventuale repressione (guerra imperialista, colpi di stato, destabilizzazione ecc.) di guerriglie, movimenti di liberazione nazionali o semplici rivolte sociali, in tutto il mondo. Insomma, non credo di dire chissà quale novità se dico che lo stato è sempre stato lo strumento e l’espressione del potere delle classi dominanti. Il punto non è la sua dissoluzione (utopisticamente auspicabile, in linea molto teorica, in un ipotetico futuro remoto che, personalmente, non riesco neanche a concepire con la mia mente…) ma il suo controllo. O meglio, di chi lo controlla e lo rende strumento del proprio dominio.

Chi scrive è convinto altresì che il capitale (e quindi gli stati capitalisti e imperialisti), tende, soprattutto in questa fase (ma è accaduto anche nel XVIII, XIX e XX secolo, solo con strumenti e modalità meno sofisticate) a distruggere o comunque indebolire ogni forma di identità, a partire da quella di classe, naturalmente (quella che il capitale stesso teme di più), ma anche quelle culturali (e, oggi, addirittura sessuali…). E’ normale che sia così. Un popolo privato della sua storia, della sua cultura, dei suoi usi e costumi e, quindi, della sua identità, è più facile da sottomettere. Ma questo vale, appunto, per i popoli, i paesi e gli stati che devono essere posti in una condizione di sottomissione, non per gli stati dominanti. Pensiamo, ad esempio, agli USA e ad Israele. La forza di questi stati è data, oltre che dalla potenza economica e militare, dalla sovrastruttura ideologica che costituisce il collante con la “società civile”. La forza di questi stati – pensiamo soprattutto ad Israele (ma anche agli USA) – affonda le radici proprio nella loro identità culturale e religiosa, alla quale non potranno mai rinunciare, pena la loro scomparsa.

Sembrerebbe una contraddizione ma non lo è affatto. Se la storia, infatti, ci ha dimostrato una cosa, è che il capitalismo è un sistema (un modo di produzione ma non solo, perché provvisto di una fortissima capacità di penetrazione ideologica e di costruzione del consenso…) estremamente flessibile in grado di incistarsi e convivere con pressochè qualsiasi contesto culturale purchè questo non costituisca una fattore di disturbo o di ostacolo alla sua in linea teorica illimitata riproduzione (in tal caso lo si distrugge con la guerra o lo si sottomette con la forza). Ecco dunque, che abbiamo visto e continuiamo a vedere il capitalismo sposarsi e convivere serenamente con sistemi liberali così come con orrende dittature, con società fortemente laicizzate così come con contesti religiosi ultra fondamentalisti.

Quindi, anche in questo caso, sbaglia chi dice che il capitalismo ha nel suo DNA la distruzione delle identità a prescindere (così come chi pensa che capitalismo e libertà e democrazia siano indissolubilmente legati), perché così non è.  Il capitalismo distrugge quelle forme identitarie che ostacolano, per varie ragioni, il suo dominio, ma ne preserva gelosamente altre.  La realtà va sempre osservata e analizzata nella sua complessità; molto spesso, però, per ragioni fondamentalmente ideologiche, non lo si fa. Ma è un grave errore.

Anche per queste ragioni, mi sembra che l’eccesso di enfasi attribuito dai “sovranisti di sinistra” (li definisco tali, anche se impropriamente, per distinguerli da quelli di destra di cui non me ne importa assolutamente nulla perché li considero degli avversari diretti…) ai concetti di patria e di nazione sia decisamente fuori luogo. Mi pare che siamo di fronte ad un (maldestro, se devo essere sincero) tentativo di rincorrere la destra sul suo stesso terreno cercando di ricostruire un proprio profilo ideologico su presupposti, peraltro, anche molto datati. Il tentativo è ancora più maldestro se pensiamo che quella parte maggioritaria dei ceti popolari che ha votato sia per il M5S che per la Lega, non lo ha fatto certo per difendere gli ideali di patria e nazione, ma per cercare di trovare qualcuno che rappresentasse in qualche modo i loro bisogni e interessi sociali. Questa strategia assume contorni addirittura grotteschi se pensiamo che la Lega, che secondo i sondaggi ha già scavalcato il suo partner di governo (ancora per quanto?…) è un partito che per anni ha sputato sulla patria e sulla nazione italiana sostenendo (e continuando a sostenere) il secessionismo delle regioni ricche del paese all’insegna dell’egoismo sociale, del particolarismo localistico e degli attacchi costanti e continui alla Costituzione (che, oggi ipocritamente, sostengono di voler difendere…).

Se i sovranisti di sinistra credono quindi di poter ricostruire un dialogo con le masse popolari parlando di patria e nazione sono veramente fuori strada.

La vera questione che una nuova forza socialista dovrebbe porre al centro della sua analisi e della sua prassi politica, è quella di classe, naturalmente con la capacità e l’intelligenza di riproporla nelle forme nuove e adeguate che la realtà (cioè le trasformazioni del sistema capitalista, sia dal punto di vista economico e sociale che da quello ideologico e culturale) impone. Ed è proprio l’aver abbandonato questa questione – con la conseguente adesione al paradigma ideologico neoliberale – che ha portato la Sinistra (quella con la S maiuscola e senza virgolette) ad autodistruggersi ed a lasciare inevitabilmente campo libero alle forze populiste (che, ovviamente, non sono omogenee ma non posso entrare ora nel merito altrimenti dovrei scrivere un altro articolo ad hoc) nei confronti delle quali la neonata “sinistra sovranista” ha un atteggiamento fin troppo debole.

Mi pare, quindi, che in questo sforzo di ridefinirsi e di prendere le (doverose) distanze dall’attuale “sinistra”, sia nella versione liberal che in quella radical, questa area politica stia commettendo degli errori decisamente gravi, sia di ordine politico che analitico, interpretativo e ideologico.

L’ultima – ma non certo secondaria (direi anzi, clamorosa) – contraddizione degli esponenti (o di gran parte di essi) di questa area politica è la posizione nei confronti dell’ideologia politicamente corretta che in linea teorica sostengono di voler combattere in quanto funzionale e organica al sistema capitalista ma alla quale restano intimamente e indissolubilmente legati. Accettano di buon grado di essere tacciati di “rossobrunismo” per le loro posizioni sull’immigrazione o sul “sovranismo” ma non hanno il coraggio di mettere in discussione il femminismo che di quell’ideologia è uno dei mattoni fondamentali, a parte qualche tiepidissima e compatibilissima critica che lo stesso Formenti ha formulato in un suo libro nei confronti del neo femminismo attualmente dominante, mantenendo però intatta e anzi riconfermando la narrazione femminista in tutto e per tutto (fa eccezione l’amico e compagno Alessandro Visalli, dirigente di Patria e Costituzione, che ha recensito il mio libro e lo ha anche presentato a Roma insieme agli amici Pierluigi Fagan e Antonio Martone: http://tempofertile.blogspot.com/2018/11/fabrizio-marchi-contromano.html ). Se lo facciano per convinzione, opportunismo o codardia o per tutte e tre le cose insieme è del tutto irrilevante dal punto di vista politico e rimanda soltanto all’opinione personale che ciascuno di noi si fa degli altri.

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Fonte foto: Vermi di Rouge (da Google)

 

 

14 commenti per “Dove sbaglia la “sinistra sovranista”

  1. 13 gennaio 2019 at 13:31

    largamente condivisibile: riportare il dibattito sulla “classe sociale” 🙂 ma vale anche per il genere sessuale 🙂
    non so la tua esperienza ma vedo che le timide aperture in ambito di momas a sinistra vi sono comunque tra i sovranisti e in ambito liberal tra i radicali. Per il resto il nulla. Sul fronte conservatore invece sono aperture ingannevoli: vorrebbero semplicemente ripristinare il patriarcato che, credo condividerai, non è ormai una cultura necessaria alla sopravvivenza della specie ed è oppressivo anche sugli uomini.

    • Fabrizio Marchi
      13 gennaio 2019 at 13:53

      Senz’altro d’accordo anche se io, come sai, non credo affatto che il patriarcato abbia agito da solo ma con il tacito assenso del matriarcato che ha avuto i suoi vantaggi e i suoi benefici (e anche i suoi privilegi) dal “dominio” patriarcale (di una peraltro estremamente esigua minoranza di uomini) della sfera pubblica (peraltro, pagato ad un prezzo altissimo…). Entrambi sono stati funzionali al mantenimento e alla perpetrazione del dominio di classe.

  2. Antonio Martone
    13 gennaio 2019 at 13:52

    Sono d’accordo con questa analisi. Una sinistra autentica – storicamente e filosoficamente è un dato non confutabile – non può che essere internazionalistica e universalistica.
    Il sovranismo e il nazionalismo, se non è meramente strategico, se rappresenta cioè un fine in sé, nel migliore dei casi fa (comunque) il gioco del capitalismo globale, nel peggiore porta dritto alla volontà di potenza nazionale (e dunque al fascismo).
    Grazie Fabrizio

  3. Gian Marco Martignoni
    13 gennaio 2019 at 15:18

    Ho seguito Costanzo Preve costantemente sul piano teoretico, ma disponendo di una autonomia di giudizio non ho condiviso più volte i suoi giudizi politici.Nel deserto attuale Carlo Formenti è una boccata d’ossigeno, soprattutto quando demolisce il paradigma post-operaista e affronta seriamente le nuove forme di sfruttamento del mondo del digitale ( e non solo ).Ma vale per lui lo stesso ragionamento che ho sintetizzato per Preve. Provenendo da una cultura che non ha mai separato la questione nazionale da quella internazionale, credo che il giudizio di Fabrizio sia largamente condivisibile.Tra l’altro, riprendendo un intervento di Walden Bello : ” Comprendere l’ascesa globale dell’Estrema destra “, appare chiaro come il controllo del cyberspazio, la diffusione delle false notizie e lo scatenamento dell’odio contro il ” nemico ” non sono fatti, assolutamente, casuali per quanto concerne il modo di operare delle deste.Insomma, che ci sia un regista, tal Steve Bannon,
    e che i sovranisti mirino a costituire una loro internazionale, la dice lunga sul loro approccio tutt’altro che approssimativo alle questioni politiche. Che dopo l’appassimento dei Social Forum non sussista un’internazionale della sinistra – non arresasi alla logica del capitale – , mi pare il tema su cui riflettere.Dopodichè le lotte, per il momento, si sono sempre sviluppate e si sviluppano, quando si sviluppano , in una cornice nazionale. Ma l’azione del movimento operaio e delle sue organizzazioni ha sempre considerato e fatto i conti con la dimensione globale del capitale.

  4. Vincenzo Cucinotta
    13 gennaio 2019 at 15:46

    Lo stato-nazione non è certo una garanzia di difesa dei popoli, ma è una possibilità, l’unica esistente. Senza stato-nazione, il predominio capitalistico neoliberista non incontrerebbe più alcun ostacolo, neanche potenziale. Sta a noi sfruttare questa possibilità.
    Anche il fatto che rimarchi l’importanza dello stato nel caso di USA e Israele non mi pare cambi in alcun modo la situazione, nel senso che se si accettasse di ridimensionare il ruolo dello stato-nazione ciò come è ovvio, non comporterebbe automaticamente il crollo di quelle due nazioni, esse come tu giustamente dici continuerebbero a guidare le sorti del mondo, ma in questo scenario trovando una situazione più favorevole.
    Ultima notazione semantica, il termine “internazionalismo” presuppone le nazioni, e sennò inter che cosa sarebbe? L’internazionalismo impegna le nazioni a una convivenza pacifica e a rapporti reciprocamente fruttuosi. Altra cosa + il cosmopolitismo e l’universalismo che è ovviamente indispensabile sul piano dei principii, ma non sul piano politico che si basa sugli stessi principii, ma anche su tante altre condizioni di fattibilità e di contesto storico e geografico.

    • Fabrizio Marchi
      13 gennaio 2019 at 18:01

      Veramente ,se vogliamo essere precisi, l’internazionalismo di cui parla Marx non è quello fra nazioni ma fra i proletari, è appunto l’internazionalismo proletario, cioè l’unità e la solidarietà fra le classi proletarie di tutto il mondo. La vulgata neo sovranista (ha cominciato Fusaro da questo punto di vista…) parla invece di inter-nazionalismo, cioè fra nazioni, deformando completamente la concezione marxiana.
      Dopo di che, come ho già, credo, ampiamente spiegato, non ho un pregiudiziale ideologica nei confronti dei concetti di patria e nazione né tanto meno di stato. Il problema sono i contenuti e non il contenitore. Lo stato può essere liberale, democratico, socialista o fascista, capitalista o comunista, e lo stesso vale per il concetto di patria. Dipende appunto dai contenuti e dal contesto. E’ per la destra che i concetti di patria e nazione costituiscono un elemento fondativo ideologico a prescindere. Fermo restando che farebbero di tutto per rovesciare uno stato comunista e non riconoscerebbero mai come patria un paese comunista. Ma questo fa parte delle loro enormi contraddizioni che mai risolveranno, perché non è nella loro vocazione né nella loro stessa ragion d’esser porsi il problema della risoluzione delle contraddizioni, con le quali convivono tranquillamente (è uno dei loro punti di forza). Dopo di che sostengo da tempo la necessità di rompere con l’UE e di ricostruire una sia pur parziale sovranità nazionale, perché questo ci consentirebbe, pur restando un paese a sovranità limitata (facciamo parte della NATO) di fare delle politiche sociali che oggi ci viene oggettivamente impedito di fare perché si devono rispettare i diktat di Bruxelles (e Berlino).

  5. ARMANDO
    13 gennaio 2019 at 23:37

    Il tema è complesso da decifrare, tante sono le contraddizioni di cui è intessuto. Comunque, scusandomi per la brevità e la sicura approssimazione:
    1) Sulle classi: certo che esistono ancora, anche più di prima, sfruttati e sfruttatori, ma non esiste più (o meglio è in via di scomparizione tendenziale) , la classe operaia come l’aveva definita Marx, ossia gli operai dell’industria, soggetto rivoluzionario e liberatore in sè, ancorchè non anche automaticamente per sè. Quella classe, necessariamente legata anche fisicamente alla fabbrica fordista, è in via di sparizione, almeno nell’occidente. E già questo pone un problema non da poco. Non basta essere sfruttati per costituire il soggetto rivoluzionario come lo pensava Marx. Esso necessita di presupposti oggettivi nel senso di posizionamento nella struttura produttiva. Altrimenti anche il sottoproletariato, su cui Marx aveva pessima opinione, sarebbe potuto essere tale. Oggi, e senza entrare nel difficile tema di lavoro produttivo e improduttivo in senso marxiano, le masse sfruttate appaiono più come un immenso sottoproletato che come il proletariato in senso classico; insomma come moltitudini genericamente definite da precarietà, sottosalari, parcellizzazione, instabilità ecc.. Ma, checchè ne pensi Negri, questa situazione disperata non ne fa affatto il soggetto rivoluzionario.
    2) la seconda questione è quella, su cui Fabrizio ha scritto più volte, del rapporto venuto modificandosi fra struttura e sovrastruttura, là dove ormai la seconda, intesa classicamente come espressione sul piano culturale, antropologico, psichico, della prima, ha acquistato, diciamo così, sempre più ampia autonomia e indipendenza. Il che anche, credo, per la questione dello Stato e del suo senso.
    3) terza questione. Il capitale, scrive Fabrizio, ” distrugge quelle forme identitarie che ostacolano, per varie ragioni, il suo dominio, ma ne preserva gelosamente altre”. Questo è vero solo in parte, o meglio solo in senso strettamente politico e geopolitico, ma non è vero in senso antropologico. La distruzione delle identità, in primo luogo quella sessuale in favore del genderismo o dell’omosessualismo così tenacemente voluti e perseguiti dal femminismo e dai movimenti lgbt, avviene prima di tutto e con la più grande violenza, proprio nei paesi capitalistici più sviluppati, in primo luogo in Usa e in Ue, ma anche in Israele. Soltanto dopo, per così dire dall’esterno, si tenta la stessa operazione nei paesi periferici su cui il capitalismo allarga la sua presa. Le identità religiose a cui accenna Fabrizio, se ancora esistono (come in Israele, ma sempre meno in Usa), sono largamente deviate e usate strumentalmente per progetti politici. Nella misura in cui qualsiasi religione è anche antropologia, etica, morale, concezione della famiglias, ecc, il venir meno di queste determinazioni implica di necessità che quelle identità religiose siano svuotate dall’interno e di esse rimanga solo l’involucro esterno usabile, appunto, strumentalmente. (aggiungo, ma non è il tema, che probabilmente accadrà a breve/medio periodo, anche al cattolicesimo romano).
    Ne discende che è verissimo che il capitalismo tende oggi a distruggere ogni identità culturale solida perchè è un ostacolo insopportabile all’affermarsi incondizionato della forma merce, mentre non è così, e in questo ha ragione Fabrizio, per quanto riguarda le identità politiche, ma questo in senso relativo. Il suo ideale sarebbe un mondo unificato sotto un unico comando politico e senza “noiose” frontiere in modo che persone e merci possano fluire “liberamente” , nel senso funzionale alle sue esigenze di valorizzazione; questo obbiettivo lo persegue , mi pare, facendo leva su quegli Stati che teoricamente possono costituire il nucleo forte di quel governo mondiale unificato, Usa i e satelliti in primo luogo.
    Ora, a) scartato l’anarchismo antistatale per “principio” come generosa e ottimistica ma inattuabile utopia, b) detto che anche il concetto di sovranismo è equivoco se preso in senso assoluto e soprattuto se il sovranismo sul proprio paese non si accompagna ad una altrettanto vigorosa difesa del sovranismo altrui, ossia se fuoriesce del tutto dal nazionalismo, c)che di lotta di classe internazionalista non si vede l’ombra proprio perchè è sbiadito il concetto stesso di classe in senso marxiano,
    non mi sembra affatto scartabile l’ipotesi che, almeno nel presente, la contraddizione principale si manifesti sotto la forma di conflitto fra entità statali. Ma non fra stati capitalistici e stati non capitalistici (inesistenti), bensì fra quegli stati (ma potremmo anche dire quei popoli) che intendono resistere alla deculturazione/distruzione delle forme e delle culture tradizionali che impone il capitale,e quelli che invece l’accettano o la promuovono in prima persona. Credo che l’appoggio ai primi e il contrasto ai secondi, sia il modo “obbligato” nel quale cui possa oggi concretizzarsi l’internazionalismo, similmente a quanto avvenne fra le due guerre quando, nonostante tutte le pesanti critiche che potevano essere rivolte contro l’Urss, l’appoggio ad essa, perfino pensando che non fosse uno stato autenticamente socialista, fu un passaggio obbligato; a meno di pensare che la vittoria senza condizioni dell’impero Usa fosse un modo (alquanto strano, direi) di accelerare verso il comunismo in quanto ne avrebbe creati i presupposti “oggettivi” tanto sul piano economico quanto su quello politico, e perchè no anche su quello antropologico, elemento quest’ultimo niente affatto secondario. Questo mi sembra un punto cruciale: resistere o accelerare? dalla risposta scaturiscono conseguenze molto diverse sul piano concreto, ma anche su quello teorico perchè nel caso che si riconosca che occorre resistere, ne consegue anche la rivalutazione di tutto ciò che il capitale intende scardinare.

  6. Panda
    14 gennaio 2019 at 22:47

    Mi pare che da parte dei c.d. sovranisti ci sia molto poca chiarezza. Et pour cause.

    Proviamo a precisare meglio la definizione di Stato in una società capitalistica: si tratta della forza concentrata che garantisce, se possibile con mezzi pacifici (costano meno), sennò con l’impiego della violenza, l’imposizione della separazione Stato-società civile. E’ evidente che si tratta di un fascio di funzioni, che non necessariamente devono essere tutte svolte direttamente dallo Stato. Insomma, quel che non può sparire finché esiste il capitalismo – aspetto di essere smentito dalla storia – è l’esigenza di esercitare quelle funzioni, ma è evidente, l’UE lo dimostra, che queste possono essere parzialmente ricollocate presso organismi che nemmeno soddisfano i criteri di legittimità e responsabilità del liberalismo. Non sarò io a sostenere che la democrazia rappresentativa sia un’orizzonte salvifico, ma costituisce, o dovrebbe costituire, un minimo sindacale (la famose “regole del gioco” di bobbiana memoria): una posizione netta e chiarissima su questo punto la riterrei indispensabile, ma mi pare che anche tra i “sovranisti” ci siano molte esitazioni ad assumerla e allora ci si inoltra in pensose disquisizioni su Stato e nazione, che impegnano molto meno.

    Sul resto, tendo ad essere abbastanza d’accordo con Armando. Non trovo però esatto dire che la classe lavoratrice di Marx non esiste più: quella al livello di astrazione del Capitale esiste ancora, quella della politica concreta no. Il problema è che fra le due c’è un vero e proprio buco teorico, che, tramontate le illusioni sociologiste (coltivate ancora, non so con quanta buona fede, dagli accelerazionisti), è diventato una vera e propria voragine. E’ il caso di non nascondercelo.

  7. gengiss
    15 gennaio 2019 at 21:25

    I sovranisti di sinistra hanno due buone ragioni per difendere lo Stato nazionale:
    1) Lo Stato può svolgere (può, non è una necessità, esistono anche realtà come gli USA e la Ue) una funzione di resistenza e contrasto al capitale globale, in nome dei diritti del proprio popolo. Viceversa l’assenza o debolezza dello Stato lascia spazio al mercato, che per definizione è sempre capitalista
    2) L’esperienza storica dimostra che lo spazio nazionale è il teatro di guerra, della guerra Capitale-lavoro, più favorevole ai lavoratori, dove questi ultimi hanno più opportunità e strumenti per vincere. O qualcuno pensa che le lotte operaie del secolo scorso sarebbero state possibili se fosse esistita la globalizzazione? (come libera circolazione dei capitali e delle merci)
    Un saluto

  8. Alessandro
    17 gennaio 2019 at 9:55

    Mi limito a qualche osservazione terra terra rispetto alle argomentazioni dotte di chi mi ha preceduto.
    A sinistra, in Occidente, si ha troppo timore a mettere in discussione certi “dogmi”. Ovviamente il dogma numero uno è il sacro femminismo, ma anche il rapporto con il proprio Paese che deve apparire sempre come qualcosa di profondamente distaccato.
    C’è chi a sinistra sta imboccando una strada diversa, che è l’unica che può rinnovare e rilanciare quest’area politica, sia nella critica al politicamente corretto, e quindi necessariamente al femminismo, sia nella riflessione sul secondo tema, uscendo dalle solite parole d’ordine, che poi lasciano campo libero alla destra nel monopolizzare certi temi.
    E’ sempre il solito dilemma: rimanere fedeli alle proprie “origini” in toto, oppure imboccare strade nuove, mantenendo fermi alcuni principi-ideali, ma accettando anche di rivisitare concetti a lungo abbandonati o stigmatizzati.
    D’altronde, e io ne conosco una marea, gli “anti-patrioti” di sinistra, lasciamo stare il nazionalismo duro e puro che ovviamente non può essere di sinistra, sono poi quelli che spesso celebrano il regionalismo qua e là, dalla Catalogna, passando poi per la Scozia, fino al regionalismo nostrano. Non parliamo poi del sacro Donbass. Insomma, va bene qualsiasi “nazionalismo” basta che non si chiami Italia, anche perchè altrimenti fascista divento ( io sono diventato anche mio malgrado “patriota” in contrapposizione al fastidiosissmo regionalismo-nazionalismo così greve dove vivo, rappresentato anche a sinistra) .
    Va anche aggiunto che queste problemtiche riguardano esclusivamente la “celebrale” sinistra occidentale, visto che in sud America, dove ancora resiste una qualche forma di sinistra anticapitalista e anticolonialista al governo, quindi diversa dalla fighetta sinistra europea buona al massimo per fare opposizione, non si pongono minimamente la questione, visto che è normale fare gli interessi di quello Stato che mi conferisce il potere, pur sempre tendendo la mano a quelle altre realtà statali amiche o a gruppi amici all’interno di Paesi “nemici”, ciò che è sempre stato l’internazionalismo comunista d’altronde. A questo proposito un esempio apparentemente sganciato con il ragionamento in verità sintomatico: ricordo ancora Mujica dare degli imbroglioni a tutti gli italiani per una partita di calcio contro la sua Uruguay, certo una caduta di stile per il mito Mujica, ma anche la testimonianza di adesione, sia pure rozza, al sentimento nazionale, quando un nostro rappresentante della medesima area politica avrebbe tifato contro la squadra del suo Paese perchè non si sa mai che questo accresca il nazionalismo nostrano, perchè il “proletario” Uruguay,ecc., ecc..)
    Il potenziale rappresentante politico, di chiunque area esso sia, è sempre visto come una sorta di “padre”: quest’ultimo è colui da cui si accetterà di ricevere rimbrotti e anche qualche schiaffone, ma non di essere considerato uno dei tanti.

  9. Renato
    22 gennaio 2019 at 19:37

    Ipse (Mao) dixit: “Un comunista, che è internazionalista, può essere nello stesso tempo un patriota? Noi pensiamo che non soltanto può, ma deve esserlo. Soltanto le condizioni storiche determinano il contenuto concreto del patriottismo. Esiste il nostro patriottismo ed esiste il “patriottismo” degli aggressori giapponesi e quello di Hitler, al quale i comunisti devono opporsi risolutamente”.
    Negli ultimi decenni, in Italia, i comunisti sono stati “diversamente patrioti” praticando un attivo disfattismo e ridicolizzando chi si ispirava alla patria, evidentemente considerata un paese imperialista.
    Ma non è sempre stato così. La guerra partigiana si definiva guerra patriottica, c’erano le sap (squadre d’azione patriottiche) il giornale dell’ANPI si intitola tutt’ora “Patria”, le brigate comuniste si chiamavano “Garibaldi” e Garibaldi era anche l’emblema del Fronte Popolare, ecc.
    Oddio, anche nei decenni di disfattismo qualche piccolo segnale controcorrente c’è stato quando si trattava di contestare il colonialismo militare e culturale degli USA o quando Bossi invitò a pulirsi il culo col tricolore.
    Ma veniamo all’oggi. Settori della sinistra vogliono tornare al patriottismo propriamente detto perché una specie di patriottismo è divenuto popolare tra i ceti che sono gli interlocutori della sinistra: proletari, precari, piccoli commercianti impoveriti.
    Certo, trattasi di un patriottismo xenofobo, fatto di slogan grossolani e non certo dovuto ad un improvviso interesse per i testi mazziniani ma a due ragioni fondamentali: l’impoverimento causato dalle politiche europee e il disagio creato dall’immigrazione.
    Mi soffermerei su questo ultimo punto perché è quello che ci crea maggiori problemi di coscienza. Innanzi tutto c’è chi nega che l’immigrazione sia un problema reale: il popolo si sarebbe fatto imbrogliare dalla propaganda. Ma la propaganda è tutta “buonista”,il politicamente corretto è (ipocritamente) per l’accoglienza. L’ostilità nei confronti dell’immigrazione si è diffusa autonomamente nei ceti popolari ed i fascio-leghisti hanno avuto buon gioco a soffiare sul fuoco. E’ di tutta evidenza che l’immigrazione ha creato svantaggi e vantaggi distribuiti in maniera ineguale nella società determinando l’arricchimento di alcuni settori e l’impoverimento di altri. Tra gli svantaggi non dobbiamo nemmeno trascurare quelli non direttamente economici determinati in alcune aree urbane come degrado, acutizzazione della mancanza di servizi, perdita di punti di riferimento sociali, ecc..
    Agli italiani che soffrono per questa situazione possiamo raccontare che gli immigrati sono degli sfruttati, che non vanno visti come nemici ma come alleati per creare un fronte comune al fine di annientare il capitalismo, vero responsabile della miseria e della conseguente immigrazione. Il problema è che di questi tempi, dopo l’implosione dei regimi socialisti, un discorso del genere suonerebbe un po’ come “sarete ricompensati nel regno dei cieli”. E’ chiaro che appare loro più concreta la propaganda fascista che sentono dia risposte più semplici e immediate.
    Da parte della sinistra urge dare risposte concrete e non ideologiche a questi settori popolari. Una politica che sia di sinistra e che tenga conto delle esigenze dei lavoratori italiani è possibile proprio puntando sul non transigere sui diritti dei lavoratori, sul creare un mercato del lavoro rigido, con regole precise e controlli puntuali, che scongiuri il lavoro nero; questo scoraggerebbe l’immigrazione clandestina, entrerebbero solo quelli con un regolare contratto di lavoro ma, dobbiamo essere chiari, chi ne è sprovvisto verrebbe rimpatriato (che brutto!).
    D’altro lato sostenere una politica estera amichevole con quei paesi che ora invece sfruttiamo biecamente.
    Si tratterebbe di un programma fortemente controtendenza ma sicuramente è più realistico dell’alzare muri mantenedo però un mercato del lavoro così ricettivo per i clandestini o del buonismo ipocrita dei no – borders.
    La politica del caro vecchio PCF sempre poco incline a sostenere l’immigrazione potrebbe servirci da modello.

  10. Gian Marco Martignoni
    22 gennaio 2019 at 22:14

    Penso che sia sbagliato quest’approccio alle questioni dell’immigrazione, poichè il diriito ad emigrare per motivi economici è sacrosanto su scala mondiale, e non vedo come possa essere negato. Mi sorprende che tu creda che ” l’ostilità nei confronti degli immigrati si è diffusa autonomamente nei ceti popolari “, perchè ” la propaganda buonista è tutta per l’accoglienza”. Come è noto c’è una bella differenza tra realtà concreta e la realtà percepità.Infatti, da Trump a Salvini, passando per la Le Pen e Orban, l’internazionale della destra sfrutta cinicamente e disumanamente il capro espiatorio dei migranti per ampliare la sfera dei loro consensi, giacchè non sono dotati di alcuna pars costruens.

  11. ARMANDO
    25 gennaio 2019 at 10:38

    Giann carlo Martignoni: ” il diriito ad emigrare per motivi economici è sacrosanto su scala mondiale, “. Già, ma non fermiamoci agli effetti, vediamone le cause, che stanno nella rapina sistematica perpetrata dal capitalismo nei confronti dei paesi africani, beninteso con la complicità della loro borghesia compradora. E’ sbagliato e fuorviante un dibattito fra buonismo indiscriminato e securitarismo duro. Quanto all’ostilità nei confronti degli immigrati, è del tutto inevitabile, direi persino ovvio, sia spontanea. Gli immigrati, con i loro costumi, i loro usi, il loro modo di vivere che è sacrosanto come il nostro ma diverso, vengono dislocati nei quartieri popolari già degradati ampiamente, non ai Parioli da cui pontificano i buonisti di sx, e nemmeno in Vaticano. Anche al netto della quota di immigrati propensi a delinquere (che pure non credo sia bassissima, quali che ne siano le ragioni), la convivenza fra diversi non è mai facile. L’accoglienza e i processi di osmosi culturale sono cose feconde ed anche auspicabili, ma necessitano di tempi lunghi e in dosi omoepatiche. Nè i buionisti di sx nè i securitari di dx hanno interesse a tentare di rimuovere le cause dell’immigrazione, perchè sono le due facce della stessa medaglia del capitale, quella culturale gli uni, quella economica gli altri.

  12. ARMANDO
    25 gennaio 2019 at 15:52

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