Questa che pubblichiamo di seguito è la seconda parte di una analisi (la prima è già stata pubblicata alcuni giorni orsono) che l’autore, Alessandro Visalli, ha sviluppato in tre parti (la terza e ultima la prossima settimana) e che costituisce l’intelaiatura della relazione che terrà al convegno promosso da L’Interferenza dal titolo “Pianeta Cina. Appunti per il futuro” che si terrà sabato 17 Maggio a Roma presso il Roma Scout Center (Largo dello scautismo 1). Alessandro Visalli interverrà nella sessione pomeridiana che inizierà alle ore 15,30 e che ha come titolo “La Cina tra marxismo e tradizione: questioni filosofiche e ideologiche”.
Scopo del testo e articolazione
Questo articolo è diviso in tre parti, di cui il presente
rappresenta la seconda. Si tratta di una riflessione che attraversa e mette a
confronto due diverse forme di universalismo, riassumibili (pur con le
commistioni storiche che si sono date nel tempo) in “Occidentale” e “Orientale.
Prestando la dovuta attenzione al carattere politico e ricostruttivo di queste
due etichette, come insegna Said, affrontare questo nodo richiede valutazioni
sulla filosofia della storia, le diverse ontologie sottostanti e antropologie
filosofiche, la teoria politica e culturale, la geopolitica e i diversi
pensieri critici che nel tempo sono stati prodotti intorno ai due centri
tematici, quello marxista e quello decoloniale. Naturalmente sullo sfondo di
tutto ciò è da considerare il conflitto ibrido in corso tra i due principali
egemoni dei due campi, gli Stati Uniti e la Cina.
Nella Prima Parte abbiamo definito il difficile obiettivo della
leadership cinese come sforzo per promuovere nel paese una “modernizzazione
selettiva”, nel contesto di un crescente confronto ideologico, culturale,
economico e di potenza con l’Occidente e la sua nazione-leader, gli Stati Uniti
d’America. Si tratta di una sorta di “guerra ibrida” senza risparmio, che ha
come posta la forma che il mondo prenderà in questo secolo.
La battaglia di Xi per il “Grande ringiovanimento” della
nazione cinese, e quello per la conquista del cuore della modernità attraverso
una “decolonizzazione dell’immaginario” e l’orizzonte universalista della “Comunità
umana dal futuro condiviso”, è rivolta all’interno, per sconfiggere le
correnti “liberali” nel Partito e nella società, oltre che per dare una
prospettiva diversa della modernizzazione che contrasti il ‘soft power’
Occidentale che passa attraverso le sue merci glamour, le immagini e stili di
vita connessi. Ma anche all’esterno, per proporre una nuova logica
post-coloniale alle relazioni internazionali intorno a progetti
strategico-epocali come i Brics e le “vie della seta”.
Si tratta di costruire una sorta di barriera selettiva alla
modernità occidentale nel quadro di una guerra “ibrida” che segnerà il destino
del secolo. Ma anche di innestare nel corpo del marxismo uno spirito
‘confuciano’ che per molti versi gli è profondamente alieno.Si tratta di
interpretare lo spirito dialettico-materialista dell’hegelo-marxismo con
elementi relazionali ed armonici di matrice confuciana che sono profondamente
alieni alla logica del conflitto.
Universalismi a confronto. Dalla via della salvezza al Tianxia.
Ma vediamo quindi a cosa si oppone questo progetto: nella tradizione
Occidentale, che si è affermata non per caso durante l’epoca degli
imperialismi, dalla fine del XVIII secolo, mentre in India si espandeva il
traffico di droga (oppio) verso la Cina a partire dal Bengala inglese (e gli
enormi profitti defluivano in Europa[1]),
una compatta filosofia della storia trovò una sistemazione in Fichte e Hegel.
questapresumeva la direzione dell’umanità e quindi della sua storia verso
l’espansione della “libertà”, l’affermazione della “ragione” e quindi del
“progresso”[2].
Tutto andava giudicato a partire dalla posizione rispetto a questa direzione,
in termini quindi di “avanzamento” o “arretratezza”.
L’essenza di questo schema concettuale potente, e altamente utile
alla giustificazione dell’evidentemente necessaria violenza praticata, è una
concezione del tempo derivata dalla scienza newtoniana: cumulativo, lineare,
orientato. Nel suo complesso è un’idea per la quale solo l’Occidente è la casa
della Ragione e gli altri sono ‘barbari’ che possono divenire solo occidentali,
se vogliono evolvere. L’idea, in altre parole, che la storia universale è quel
processo in cui alla fine tutti sono europei (o, con Hegel, prussiani).
D’altra parte, bisogna riconoscere e tenere sempre presente, e ci
torneremo ancora al termine, che la dinamica di sviluppo della modernità
europea (scienza, tecnica, diritto, macchinismo e capitalismo)è espressione di
un’interna ambiguità: da una parte ha visto sé stessa come universale e in ciò
fatto violenza agli altri pensieri della generalità o dell’universale; al
contempo ha, nella dialettica verso gli infiniti tradimenti dell’ideale
proclamato, agiti da parte dei deboli e degli sconfitti, ispirato lotte di
liberazione e continua a farlo. Questa contraddizione interna, tra la
liberazione e la conquista, l’universale e la violenza, la critica ed il
superamento, è sia potenziale politico come evento storico. Sulla base di
questo lascito occorre, con doppia mossa, evitare sia l’universalismo imperiale
sia il multiculturalismo astratto e identitario. Tenere insieme, in altre
parole, la memoria delle lotte, la consapevolezza delle contraddizioni, e l’apertura
a un mondo in cui ogni cultura è sempre già ibridata, e ogni verità è sempre
cercata da un punto di vista altro, o per meglio dire dove l’io e l’altro
sono rimando.
Per esplorare questo nodo sarà necessario, da una parte esplorare ancora
il particolare movimento della ispirazione universalista cinese, così intenzionalmente
e strategicamente diversa da quella occidentale, dall’altra ritornare sulla
relazione interna tra l’universalismo astratto occidentale e le tradizioni
critiche che pure ne promanano. In quanto si tratta di una sfida da assumere.
L’universalismo cinese
Il punto di vista orientale, e cinese in specie, è al contempo
meno ambizioso e più paziente. Un cinese ritiene tradizionalmente di essere già
al centro del mondo, ma anche che ogni parte di questo sia “sotto il cielo”.
Come sotto il medesimo cielo sono anche le altre tradizioni, quella indiana,
islamica, il buenvivir sudamericano, le tante civiltà africane o del pacifico
orientale. Tutte vie che non si lasciano ridurre ad ombra della via Occidentale-cristiana,
e ordinare sulla strada di un maggiore o minore “avanzamento” verso l’unico e
comune progresso. Progresso che quindi coincide con la modernità e questa,
infine, con il possesso della tecnica.
La tradizione cinese vede le cose in modo del tutto diverso. Le civiltà
non sono “stadi”, parti di uno sviluppo unico rispetto al quale giudicarle, ma
forme co-esistenti di espressione del Dao, forme di espressione di una
“armonia senza conformità”. Lo stesso soggetto non è realmente autonomo,
ma immerso in una rete di interdipendenze e relazioni. La “verità” non è
uno stato, un modello, che può essere contemplato e rivelato, un essere cui
corrispondere, ma il processo nel quale emerge un’armonia da una situazione. Il
tempo non assomiglia ad un piano liscio, ad una macchina o
all’espressione di una formula matematizzabile, ma anche esso un processo, che
ha come modello la crescita di organismi. In conseguenza gli eventi non vanno
prodotti e forzati, esercitando forza e ragione, ma occorre piuttosto un
adattarsi (wuwei, non-azione secondo il flusso), il cui scopo è la
massimizzazione del potenziale (shi). Se pure la formula citata
appartiene alla tradizione daoista (o taoista), e altre scuole (come quella
confuciana, moista) hanno diverse accentuazioni, esprime una sorta di comune
per differenza dalla tradizione occidentale.
Uno dei concetti centrali da contemplare per provare a intuire
questo diverso universo è il concetto di tianxia (天下), tutto
sotto il cielo, che non è fondato su norme astratte e quindi
generali/universali, ma su una sorta di interdipendenza “io sono in te, tu sei
in me”, e quindi su un’armonia come coesistenza di diversità. Quindi l’universo
appartiene a tutti (tianxiawei gong) per un movimento di appartenenza
reciproca. Una radicale differenza rispetto all’ontologia occidentale dell’Uno
come fondamento, in favore della contemplazione di un molteplice in relazione. Un
molteplice che alcune scuole vedono sinteticamente come un Dao, 道, che è vivente ed in mutamento. Dao (o Tao) è termine
intraducibile[3] che ha avuto
significativo riverbero sullo stesso Occidente.
Ciò al quale invita questo pensiero è di superare la visione
egemonica della storia come conquista e uniformazione senza rinunciare per
questo alla verità o al progresso, ma ridefinendoli come processi plurali,
relazionali e situati. Articolando quella che non è una metafisica del dominio,
dell’Uno, piuttosto una sorta di cartografia dell’interdipendenza.
Secondo il detto confuciano ripreso da Sun Yat-sen:
「天下為公」
Quando prevarrà la Grande Via, l’Universo apparterrà a tutti.
Anche in molti discorsi della leadership cinese contemporanea[4] vengono ripresi queste antiche immagini
confuciani, come quello di he erbutong (和而不同): armonia nella diversità[5], senza annullamento delle differenze.
Nel quale la differenza è condizione dell’incontro, la ‘razionalità’ diventa
per questo situazionale, e la ‘verità’ deriva da un equilibrio dinamico, senza
soggiacere ad una logica binaria. La vera universalità,perciò, non si raggiunge
imponendo una forma unica, sia essa la libertà individuale e la democrazia
liberale, ma attraverso la moltiplicazione delle forme, un po’ come in
un’orchestra in cui strumenti diversi suonano insieme, senza fondersi. Anche la
‘modernità’, in questa lettura, non è un destino comune, ma una possibilità
storica tra altre, che ogni civiltà può assumere secondo il proprio ritmo (shi勢) e la propria forma di vita (li禮 – i riti).
Dunque, volendo sintetizzare, secondo questa posizione si può dire
che:
- La temporalità storica non va considerata una sola, allineata sulla freccia del
progresso o la strada della libertà, ma pluralità di tempi incarnati e
trasformazioni;
- La soggettività storica non è né individuale né universale, ma piuttosto collettiva,
situata e relazionale;
- L’universale non è dato (e da raggiungere secondo il movimento di conformarsi
ad un modello), ma costrutto nel dialogo tra diversi, quindi mondi, pratiche,
civiltà;
- La razionalità non è astratta, ma è inscritta nel vivente;
- L’armonia può essere un principio generativo della storia, alternativo alla
lotta per l’egemonia.
Non si tratta più di imporre un ordine al mondo, secondo un suo
telos[6], ma riconoscere
i molteplici ordini e aprire lo spazio per una co-esistenza creativa,
trasformativa e dinamica.
Nel pensiero confuciano ciò ha implicazioni non solo etiche e
politiche, ma anche cosmologiche. L’universo è concepito come una rete dinamica
di relazioni (tra cielo, terra e uomo), dove l’ordine (zhi) e il
disordine (luan) sono continuamente bilanciati da un processo di armonizzazione.
Non c’è una “legge dell’essere” eterna o trascendente, come nella tradizione
ontologica greca, ma una via del mezzo (zhongyong) che si rinnova
continuamente nel tempo e nello spazio. In questo senso, il concetto di he
entra in tensione con la pur raffinata e complessa dialettica hegeliana o con
la logica binaria greco-occidentale (vero/falso, essere/nulla,
soggetto/oggetto), e propone invece una logica della co-differenza e
dell’inclusione. La diversità non è ostacolo da superare, ma la condizione
necessaria per l’armonia. La virtù del junzi (il “nobile”) non consiste
nel dominare o assimilare, ma nell’ascoltare, bilanciare, accordare, come un
direttore d’orchestra che fa emergere l’armonia tra strumenti diversi, senza
fonderli in un suono uniforme. Nel Lunyu 13.24, Confucio afferma: 君子和而不同,小人同而不和。(“Il nobile è armonioso ma non identico; il meschino è identico
ma non armonioso”).
In altre parole, dove la tradizione post-illuminista europea – in
particolare quella idealista (Hegel, Marx) – ha posto il conflitto (di classi,
idee, forze produttive) al centro del processo storico (la verità come
processo, aufhebung e negazione determinata), il pensiero cinese ha
privilegiato la trasformazione graduale (hua化), la risonanza (ganying) e l’integrazione dinamica dei
poli opposti.
Ci sono assonanze nel progressivo movimento della coscienza verso
il sapere di Hegel, e nel suo negare e conservare, oltre che la famosissima
formula per la quale “il vero è l’intero”[7],
però l’impresa del nostro è comunque inserita in una concezione della verità
come ottenimento e possesso, sia pure attraverso un “sistema”[8].
Anche se, per Hegel, secondo una formula sintetica e potente, “la
proposizione deve esprimere cos’è il vero. Il vero, però, è essenzialmente
soggetto, e in quanto tale non è altro che il movimento dialettico, questo
cammino che produce se stesso, si proietta in avanti e ritorna entro sé”[9],
alla fine si resta entro i termini di possesso della verità propri della
‘filosofia del soggetto’ (razionale) occidentale.
Mentre per Hegel, concludendo una tradizione che origina in
Plotino[10],
la storia è la realizzazione dello Spirito attraverso la negazione, per
Confucio è il processo interminabile di coltivazione dell’umanità (ren)
nella costruzione relazionale ed armoniosa dell’ordine sociale. Mentre la
tradizione che ascende a Platone, nella filosofia occidentale (se pure Platone
non è strettamente e solo occidentale[11])
vede l’ente assoluto, possessore degli attributi di perfezione, bontà,
spiritualità, si distingue dagli altri enti nel senso in cui l’unico e
necessario, eterno e vero, si distingue dal molteplice, contingente, quindi
apparente e passeggero, questa relazione (che è paradossalmente ancora tra
‘cose’ e ‘cose’) viene da Hegel per così dire fluidificata dialetticamente la
tradizione della filosofia orientale (da Confucio a Mozi, nel contesto
pre-buddista) non conosce e concepisce nessuna frattura ontologica tra
trascendente e immanente. Quindi non vede l’Assoluto come ente separato (al
quale la storia deve conformarsi, se pure in senso variamente secolarizzato),
perfetto ed immobile, rispetto al mondo dei fenomeni, delle azioni e del
molteplice. Nella filosofia cinese originale il riferimento cosmico è il Tian (天), che volendo
si può tradurre come “Cielo”, ma non è affatto una “cosa” o un “ente”;
piuttosto è processo vitale, ordine morale e naturale insieme. Una sorta di
trascendenza immanente, una legge profonda, alla quale ci si può connettere
tramite l’introspezione e coltivazione del sé (il saggio). Vivere in modo
morale, divenire saggio, significa in sostanza risuonare con il cielo ed
armonizzarsi al suo ritmo, non ascendere, piuttosto accordarsi tramite l’etico,
il quotidiano, il rituale(li禮). Ci sono sfumature,
naturalmente, ad esempio il Maestro Mo (Mozi) vede il Tian, in polemica con
Confucio, di poco più anziano, come principio personale più attivo e fondamento
di un amore imparziale (jian ai兼愛).
Provando una sintesi, nel pensiero cinese classico, non si cerca
di superare il mondo per raggiungere il divino (come nella maggior parte della
tradizione Occidentale): il mondo è già sacro, se abitato correttamente.
L’alterità radicale dell’Essere non si impone,il Dao, il Tian, il Ren sono
forme diverse con cui si nomina una medesima presenza silenziosa, diffusa,
attiva nella relazione, non un Essere assoluto distinto dai fenomeni.
- Non ente tra enti, né oltre gli enti: ma trama del divenire,
vuoto fertile, ritmo.
- Per questo, il divino non si contempla, si segue; non si
conquista, si incarna.
- Il sapere non è conquista della verità, ma
trasformazione del sé in accordo con ciò che è.
In altre parole, laddove la tradizione post-illuminista europea —
in particolare quella idealista, da Hegel a Marx — ha collocato il conflitto
(di classi, idee, forze produttive) al centro del processo storico, concependo
la verità come movimento dialettico, negazione determinata e Aufhebung,
il pensiero cinese ha privilegiato invece la trasformazione graduale (hua化), la
risonanza (gǎnyìng感應), l’integrazione dinamica dei poli opposti. Scrive Zisi, nipote
di Confucio: “la verità è la via del cielo. Conseguire la verità è la via
dell’uomo”[12].
Non si tratta di negare il conflitto, ma di collocarlo in un
orizzonte di mediazione e non di superamento violento. Questo permette di
concepire un altro tipo di universalismo, non gerarchico né centrato su un
punto di vista unico, ma orizzontale, pluralista e orientato alla convivenza.
Il particolare universalismo del Tianxia, poiché non esclude il
diverso ma lo integra gradualmente attraverso la coltivazione di relazioni
etiche e rituali, induce a concepire il centro (ovvero il Zohongguo, “paese del
centro”) autoattribuito alla Cina, ovviamente, come una funzione di
equilibrio e non come il principio del possesso e della uniformazione.
Funzione che non può essere imposta, pena l’autocontraddirsi. Si raggiunge
l’unità (e quindi l’universalità) tramite una risonanza e non tramite una
uniformazione (se pure “conservante/superante”)[13].
Continuando la nostra esplorazione[14],
secondo la grande scuola Daoista (o Taoista) la “virtù” (De) confuciana deve
piuttosto essere sostituita dal non-agire (wuwei). Mentre la dottrina
confuciana implica una critica politica, ed una spinta a cambiare il mondo (se
pure non dispone di una nozione di male assoluto, come le religioni
occidentali), il taoismo (come il buddismo) insegna il distacco dalla politica
e il ritiro dal mondo.
Come si può leggere nella Stanza 47[15] del Dao De
Jing[16],
(道德經), attribuita a Laozi:
1. Non serve varcare la porta di casa
2. per comprendere ciò che sta sotto il Cielo;
3. né dalla finestra scrutare
4. per comprendere il dao del Cielo.
5. Più esci e più t’allontani,
6. meno comprendi.
7. Il Saggio, pertanto, comprende [le cose] senza muoversi [verso di loro],
8. [le cose] nomina, senza bisogno di averle prima scorte.
9. [Agli esseri] assicura piena realizzazione, senza farne oggetto delle
proprie mire.
Questa stanza esprime una concezione del sapere radicalmente
diversa da quella occidentale, ed opposta anche a quella confuciana o moista[17],
entrambe più attive e soprattutto rivolte al sociale ed al politico. La
conoscenza non avviene attraverso l’esplorazione esterna, la conquista,
l’estensione del dominio (come nella scienza moderna o nell’episteme
coloniale), ma attraverso l’interiorità, l’intuizione, la consonanza con il Dao,
il distacco.
Il termine
zhi, che ricorre più volte in questo brano (conoscere, sapere, agire nel
mondo) indica un esperire integralmente, dislocando la vera conoscenza (che
passa anche per il linguaggio) attorno e non dentro il soggetto, perché nel
Laozi a questo, al soggetto, non è riconosciuto il privilegio di detenere un
sapere in senso esclusivo. Più che comprendere oggetti, secondo la tradizione
Occidentale, qui si tratta dell’insieme delle relazioni che rendono gli oggetti
tali, in un circolo che comprende il soggetto. Il Dao (il mondo nella sua
totalità di destini che interagiscono) è esperibile solo perdendosi ed
abbandonandosi. Il riferimento al “senza muoversi”, indica una forma di
comprensione che non dipende né da esperienze cognitive precedenti o da dati
empirici; una comprensione che deriva dall’essere connessi al Dao. Per questo
il ‘Saggio’ si può estraniare dal governo del mondo secondo una caratteristica
linea di non-ingerenza, la quale, proprio per questa profonda immersione (ma
originaria) assicura la piena realizzazione delle predisposizioni delle cose
stesse. Cose, per così dire, lasciate a sé stesse. L’immobilismo produce contemporaneamente
il massimo di armonia. È così che il saggio può ‘nominare’ le cose(v. 8).
Si
tratta, peraltro, ancora di un’idea che ha riverberi anche nella recezione
occidentale. In particolare, nella riflessione di Heidegger[18],
il quale ad esempio in “La questione della tecnica”[19],
nel 1953, distingue tra la techné come poiesis, che porta alla luce delle
relazioni, e la tecnologia come gestell che appresta in una sorta di telaio ed è
letta come conseguenza necessaria della metafisica occidentale[20].
Questa critica, pur nei suoi limiti, fu accolta da diversi pensatori orientali,
in particolare nella Scuola di Tokyo e nella critica taoista della razionalità
tecnica. In quest’ultima il gelassenheit (serenità, tranquillità, opposta alla
volontà di potenza[21])
heideggeriano viene riletto come wuwei (non-azione)[22].
La trascrizione reciprocadi questo pensiero deriva, in entrambi i paesi,
dallo sconcerto per gli effetti destabilizzanti e distruttivi della tecnica (in
occidente guerra, industrializzazione di massa ed estensione degli effetti
anomici del consumo, in oriente le rapide trasformazioni industriali ed il loro
effetto sulla cultura tradizionale e popolare).
Questa idea ha profonde implicazioni:
- L’universale non è fuori, ma dentro, o meglio: l’universale è
presente ovunque, ed è accessibile ovunque, perché ogni cosa è parte della
totalità.
- La conoscenza non è accumulazione di dati (episteme), ma riconoscimento
di un’armonia pre-esistente. In questo senso, è simile alla aletheia
greca (disvelamento), ma priva della tensione tragica dell’Occidente.
- Il movimento verso l’esterno (conquista, viaggio, missione
civilizzatrice), tipico della storia occidentale, è qui visto come distorsione,
allontanamento dalla comprensione vera.
Dunque, non c’è bisogno di dominare il mondo per comprenderlo,
bisogna piuttosto risuonare con esso, e per questo esercitare la “virtù”.
[1]
– Si veda il bellissimo Amitav Ghosh, Fumo e ceneri. Il viaggio di uno
scrittore nelle storie nascoste dell’oppio, Einaudi 2025 (ed. or. 2023).
[2]
– Un
movimento, della Storia, il cui soggetto è l’individuo razionale e quindi
libero in Kant o lo Spirito Assoluto in Hegel. Spirito che poi Marx trasfigurerà
nel “Capitale” e nella “classe universale” del proletariato.
[3]
– Come scrive Chow yin-Ching in La filosofia cinese, (Ghibli 2015) il
Tao (o Dao, secondo il sistema di trascrizione) è un principio immanente che
non agisce dall’esterno, anima e trasforma gli esseri senza sforzo o scosse.
Granet, in Il pensiero cinese (Adelphi 1971) fa notare che sia
concepibile più come forza che come essere, la ricerca di una forza latente nei
mutamenti delle cose.
[4]
– XiJimping, “Gli scambi ed il mutuo apprendimento rendono le civiltà più
ricche e variopinte”, discorso al quartier generale dell’Unesco, 27 marzo 2014,
in XiJimping, Governare la Cina, Giunti Editore 2016.
[5]
– Dialoghi di Confucio, “Zilu”. Si veda anche Lunyu 13,24, “he
erbutong”, dove “he” indica la corrispondenza tra i suoni, nella quale
ognuno esprime pienamente la propria potenzialità articolandosi in perfetta
sintonia con gli altri, questa parola implica consenso (gongshi) che
tiene tutti in gioco. Esclusione e conflitto sono l’opposto del concetto di ‘armonia’
(una traduzione possibile di “he”) che implica l’impegno di mediazione tra
tutte le parti in gioco allo scopo di realizzare una società che incontri il
massimo consenso di tutti, dando ascolto anche ad istanze diverse e
contraddittorie, senza indulgere né nell’autoritarismo di sceglierne una né nel
libertarismo di lasciarle senza armonia. La tensione tra ordine (zhi) e
disordine (luan), sia a livello sociale sia individuale e spirituale, è alla
radice del perseguimento dell’armonia nella ricerca costante del miglior punto
di equilibrio tra le forze in gioco.
[6] – Per una messa
in discussione delle premesse antropologiche dell’uomo liberale si può
guardare, tra i tantissimi, il testo classico di Michael Sandel “Il
liberalismo
e i limiti della giustizia”, Feltrinelli
(ed. or. 1982). Nella tradizione contrattualista liberale (Kant), la legge
morale deve essere fondata sull’essere fine in sé. Ovvero non nell’essere
ancorata a qualche fine o scopo buono per qualcuno di specifico. Solo così
diventa possibile una società nella quale “le esigenze di ciascuno siano in
armonia con i fini di tutti”. Si tratta di trovare una base antecedente a tutti
i fini concreti e particolari. Proprio perché scaturisce da un soggetto che è
capace di volontà autonoma, o, come scrive Sandel, un “soggetto che precede i
suoi fini”. L’unico modo di essere libero è quello di essere antecedente e
indipendente dall’esperienza (sempre particolare). Per Sandel questa concezione
in primo luogo è impossibile, ogni volta che si individuano dei diritti e dei
valori, come universali, si è inevitabilmente soggetti ad un autoinganno, si
tratta infatti sempre di alcuni valori di qualcuno. La relazione
storicamente fondata del liberalismo con l’egemonia della forma di vita
borghese occidentale, e con l’immediatamente presente colonialismo (con
conseguente accumulazione originaria e creazione delle condizioni di esistenza
ed affermazione del capitalismo), poi tradotto in imperialismo, e sempre in
sciovinistica affermazione della presunta superiorità della forma di vita
occidentale sulle altre, è parte e movente di questa illusione. D’altra parte,
il liberalismo in sostanza non capisce la natura “sociale” dell’uomo. E quindi
attribuisce una priorità all’individuo, e quindi ai valori individualisti, che necessariamente
determina la neutralizzazione dei più importanti valori di altruismo e
benevolenza propri della natura sociale dell’uomo. L’uomo non è, come
voleva Hume, un mero e semplice “fascio di percezioni”. D’altra parte, la mossa
economizzatrice e parsimoniosa del liberalesimo si fonda sempre sulla ipotesi
antropologica (di derivazione Hobbesiana) che gli uomini siano portati verso
l’egoismo, che si tiene a freno con l’interesse economico e la conseguente
cooperazione di mercato. un’antropologia filosofica che presume una
pluralità ed individualità delle persone e per questo necessita di postulare
l’Io come “soggetto di possesso” e capace del più radicale “disinteresse
reciproco” (p.68). Un soggetto di possesso, individuato antecedentemente
e che si trova anche sempre ad una certa distanza dai suoi interessi. Un
individuo per il quale “nessun impegno dovrebbe coinvolgermi così profondamente
da non potermi riconoscere senza di esso”. Ciò significa che la teoria liberale
deontologica non ammette tutti i fini, ma esclude anzi in anticipo qualsiasi
fine “la cui adozione o il cui perseguimento possa impegnare o trasformare
l’identità dell’io, e respinge in particolare la possibilità che il bene della
comunità possa consistere in una dimensione costitutiva di questo genere”. Ciò
nega in radice la stessa possibilità di una comunità sociale che sia sopra
l’individuo, postulando, per Sandel, un’esistenza separata di ciascuno.
[7]
– “Il vero è il tutto. Il tutto, però, è solo l’essenza che si compie mediante
il proprio sviluppo”, George Wilhelm Friedrich Hegel, Fenomenologia dello
spirito, Rusconi 1995, p.69
[8]
– Nella Prefazione alla Fenomenologia della Spirito, Hegel scrive che
“la vera figura nella quale la verità esiste può essere soltanto il pensiero
scientifico”.
[9]
– Hegel, Fenomenologia, cit., p. 131.
[10]
– Nel cosmo di Plotino, un intellettuale egiziano alessandrino vissuto in epoca
imperiale e turbolenta, le energie vitali spirituali, reciprocamente
contrapposte, partono dall’Uno e si riversano sulle ipostasi dello spirito,
dell’anima e della natura, dalle quali poi, invertendosi, rifluiscono. Il
movimento del mondo ha natura processuale (una energeia ed una dynamis). Cfr.
Jurgen Habermas, Una storia della filosofia, Vol II, Feltrinelli 2024
(ed. or. 2019), p. 73.
[11]
– Nel senso di essere il ricettore di influssi e tradizioni di pensiero anche
medio-orientali, che gli giungono per via dell’influenza della grande
tradizione egiziana, a sua volta intrecciata da millenni con le tradizioni assira
e babilonese, poi persiana.
[12]
– Cit. in Jurgen Habermas, Una storia della filosofía, Vol I, Feltrinelli
2022 (ed.or. 2019), p. 360.
[13]
– Si veda anche l’importante filosofo cinese Zhao Tingyang(赵汀阳),
professore all’Accademia cinese delle scienze sociali, celebre per il libro Il
sistema Tianxia, del 2005 (The Tianxia System: An Introduction to the
Philosophy of a World Institution,Polity, 2021), ed il suo concetto di “governare
il mondo come una famiglia” (治天下如一家). Concetto che prevede una
nuova architettura globale, anche se centrata sulla tradizione cinese come
“luogo di maggiore responsabilità” per la tenuta del mondo (in una espressa
critica sia dell’ordine westfaliano, sia della egemonia occidentale).
[14]
– Il periodo classico è detto anche delle “Centro scuole”, nel quale, secondo
la più antica lista di libri del periodo Han (25-220 d.c.) vede nove scuole
principali, tra le quali: confucianesimo, taoismo, mohisti, legisti, logici e
dialettici.
[15]
– Laozi, Daodejing. Il canone della Via e della Virtù, Einaudi, Torino,
2018, p. 127 e seg.
[16]
– “Il classico della Via e della Virtù”, è un testo poetico e politico
ad un tempo, che viene normalmente letto come critica al potere autoritario,
all’interventismo nelle cose del mondo. Predilige il lasciar fare, il
valorizzare la debolezza come forza, in echi che alla luce della tradizione
Occidentale si direbbero simili ad un Tolstoj, ad elementi anarchici e per
certi versi stoici. Si tratta dell’altra grande corrente del pensiero cinese,
quasi coeva a quella di Confucio ed a esse opposta.
[17]
– Una terza grande scuola politico-filosofica cinese classica è quella del
Maestro Mo (Mozi) che enfatizza per la prima volta il rifiuto della tradizione
in favore della discussione razionale (bian), la quale, tuttavia, non ha
lavorano sull’ordine epistemologico, quanto sul piano pratico e
comportamentale. Cfr, Anne Cheng, Storia del pensiero cinese, vol I,
Einaudi 2010, p.84.
[18]
– E poi, anche tramite questi il pensiero post-moderno di Derrida, Deleuze e
Foucault, ma anche, ed ovviamente la cultura della non-violenza in molte sue
declinazioni.
[19]
– Martin Heidegger, Saggi e discorsi, Mursia 1991, “La questione delle
tecnica”.
[20]
– Per Heidegger l’essenza della
tecnologia moderna non è a sua volta tecnologica, ma filosofica, nel senso che
consiste nell’imporre una trasformazione della relazione tra uomo e mondo per
la quale ogni essere è ricondotto ad essere ‘fondo’ o ‘riserva’, ovvero è
ridotto ad oggetto che può essere misurato, calcolato e sfruttato. Questa linea
di riflessione, che può essere compresa come riferita alla tecnica nella
modernità (in quanto la tecnologia è antica come l’uomo, ma questi ha vissuto
per quasi tutto il suo tempo in un mondo ‘incantato’ al quale sarebbe temerario
proiettare le nostre categorie e comprensioni) è stata pensata come propria
dell’Occidente. Conseguenza necessaria della metafisica occidentale.
[21]
– Martin Heidegger, L’abbandono, Il melangolo, Genova, 1983
[22] – YukHui, Cosmotecnica. La questione della tecnologia in Cina, Nero 2021