La mia risposta all’articolo di Elena Dalla Torre Dominio femminile, oppressione maschile: un nuovo secondo sesso? pubblicato su questo giornale, alcuni giorni fa.
Non sono un “tuttologo” e neanche uno specialista nè tanto meno un “intellettuale”, categorie nei confronti delle quali ho peraltro nutrito da sempre una profonda diffidenza per ragioni in parte simili e in parte diverse. Non sono quindi “esperto” di nulla o quasi (tranne forse un pochino di calcio e di boxe di cui però sono un appassionato, quindi sarebbe improprio definirmi un esperto).
Quel pochissimo che so lo devo ai miei studi universitari (lauree in Scienze Politiche e in Filosofia), alle mie scarse letture (a prezzo di non pochi sforzi sono addirittura riuscito lì dove neanche il “lider maximo”, Fidel Castro, è riuscito, per sua stessa ammissione, cioè a leggere fino alla fine il Libro Primo del Capitale di Marx…), a quel po’ di mestiere (ho una tessera di giornalista in tasca da qualche tempo…) che ho appreso cammin facendo e soprattutto alla mia esperienza di vita vissuta, cioè quella che alcuni definiscono come “l’università della vita”.
Di conseguenza la nostra nuova amica e interlocutrice, Elena Dalla Torre, ha ragione quando scrive che “dell’analisi di genere, sessualità, razza e classe gli (al sottoscritto) mancano gli strumenti essenziali”. Me ne mancano moltissimi di strumenti essenziali, se è per questo, dal momento che non so praticamente nulla di quasi tutto, e il fatto di essere in buona e numerosissima compagnia, anche e soprattutto della grande maggioranza dei cooptati appartenenti alle varie “tribù” accademiche, non mi consola di certo. Forse ha in parte ragione anche quando sostiene che generalizzerei (un articolo o un’intervista, seppur approfonditi, non possono essere delle enciclopedie) ma ha torto quando dice che non storicizzerei (peraltro sono sempre stato “accusato” del contrario), perchè sono da sempre un sostenitore della deduzione storico-sociale delle categorie (che è cosa ben diversa dallo storicismo) e quindi della necessità di storicizzare e contestualizzare le cose (che è cosa ben diversa dal relativismo della gran parte degli storicisti), a partire dal pensiero (anche e soprattutto di quello cosiddetto astratto, o presunto tale, che è poi sistematicamente il più storicizzato e contestualizzato rispetto a tutti gli altri) oltre che dalla prassi, cioè i fatti che concretamente e storicamente si determinano. E i due piani, ovviamente, non possono essere scissi.
Ma un conto sono la storicizzazione e la contestualizzazione (necessarie) e un altro il rifugiarsi in corner (come si dice in gergo calcistico, il campo dove sono indiscutibilmente più ferrato), come la stessa Dalla Torre a mio parere fa quando sceglie di citare la storica femminista della differenza, Carla Lonzi, per cercare di inserire delle contraddizioni nella mia analisi che pure mostra di condividere in alcune parti. Non si è però resa conto (non è una colpa…) che invece di buttare la palla in calcio d’angolo, se mi è consentita la metafora, se l’è buttata nella propria rete, e più di una volta. Mettiamo in azione la moviola e andiamo a vedere come nascono questi autogol. La contraddizione è, nel caso specifico, sia di metodo che di merito. Partiamo dal primo.
La Dalla Torre, citando (anche con una certa enfasi) la Lonzi, propone di fatto una sorta di ritorno al femminismo delle origini, quello “puro” (secondo il suo punto di vista), non quello post sessantottino, “istituzionalizzato” e contaminato dal potere (cioè quello attualmente dominante) bensì quello che opponeva, cito testualmente “resistenza all’assimilazione culturale per fini di promozione sociale e politica” (assimilazione che anche secondo lei, a giudicare dalle sue parole, sembrerebbe essere avvenuta, per lo meno per una parte del femminismo). In buona sostanza ci dice che quello della Lonzi (e/o di altre) è il femminismo “buono”, ed è a quello che dobbiamo fare riferimento, non a quello successivo (questo non lo dice espressamente ma la sostanza è questa…).
Ora, anche volendo ammettere la “buona fede” e la purezza ideologica di quel femminismo delle origini (cosa che io non discuto affatto, il problema è il merito, non la buona fede, anche il pilota che ha sganciato l’atomica su Hiroshima lo era…), questo modo di procedere fa acqua da tutte le parti.
La Dalla Torre distingue infatti un femminismo “buono” da uno “cattivo” (mi si passi la banalizzazione…) e ci invita a ragionare e a concentrare la nostra attenzione sulla natura del primo (cosa che faremo fra poco). Ma questo modo di procedere non ha senso per la semplice ragione che non è possibile separare l’ideologia, qualsiasi ideologia, dalla sua effettiva e concreta realizzazione pratica e storica. Non è possibile cioè separare la teoria dalla prassi a meno di non fare un’operazione di mera astrazione che può forse incontrare il favore dei cosiddetti “puristi” e delle “anime belle”, nel migliore dei casi, oppure della gran parte dell’attuale ceto accademico (cioè il nuovo “clero” secolarizzato interessato per ovvie ragioni a concepire il pensiero filosofico come una sorta di “oggetto ipostatizzato”, di entità metafisica completamente separata dalla realtà, a cui solo gli “addetti ai lavori” possono accedere), nel peggiore, ma non ci aiuta nella comprensione delle cose.
Il metodo da lei utilizzato assomiglia molto, infatti, proprio a quello di quegli accademici di cui sopra che scimmiottando (e manipolando abbondantemente) Kant considerano la filosofia come una sorta di sistema più o meno organizzato delle conoscenze razionali (Schulbegriff) separato dal concetto mondano, cioè da ciò che interessa necessariamente tutti gli uomini (Weltbegriff). Ma questa separazione è del tutto artificiosa e non c’è necessità di scomodare Marx (e ancor più, Lukacs) per capirlo. Ogni ideologia deve essere quindi vagliata e analizzata per quella che è stata ed è la sua concreta determinazione storica. Vale per tutte, per il liberalismo, per il capitalismo (non sovrappongo del tutto i due, anche se qualche amico marxista “ortodosso” resterà perplesso, ma questa è un’altra questione ancora che non posso affrontare in questa sede e a cui dedicherò un articolo ad hoc) per il fascismo, per il comunismo e via discorrendo.
Quindi anche per il femminismo. Si può ora discutere, a seconda dei punti di vista, sulla bontà o meno o sulla natura del “femminismo reale”, cioè quello realmente esistente e di cui ciascuno di noi ha fatto e fa esperienza, ma non si può operare quella cesura. Non esiste infatti un capitalismo “buono” (quello delle intenzioni) e uno “cattivo” (quello dei fatti), così come non è esistito un comunismo buono (quello delle intenzioni) e uno cattivo (quello dei fatti). O meglio, per essere più precisi, questa distinzione ha senz’altro una sua ragion d’essere dal punto di vista logico e concettuale (Marx non è Stalin e viceversa) ma non ne ha alcuna dal punto di vista pratico, storico e politico, che è ciò che in ultima analisi, conta. ll capitalismo e il comunismo (sono solo degli esempi) sono ciò che si sono storicamente ed effettivamente determinati. Ed è con la loro effettiva e concreta determinazione storica che dobbiamo fare i conti.
Da marxista, sia pure non ortodosso, quale sono, non mi nascondo dietro ad una foglia di fico. Posso e debbo elaborare l’esperienza storica del comunismo (prendo come esempio il comunismo per ragioni di onestà intellettuale ed evitare capziose accuse di faziosità…) nella sua totalità, nel “bene” e nel “male”, nelle sue conquiste e realizzazioni così come nei suoi errori e nei suoi orrori, ma non posso operare quella cesura che pure molti operano (per lo più in buona fede), nel (maldestro) tentativo di gettare l’acqua sporca e di salvare il bambino. Questo non vuol dire, sempre metaforicamente parlando, che il bambino non possa essere salvato, anzi, è giusto salvarlo (e non per ragioni ideologiche bensì logico dialettiche, quindi filosofiche), ma non ce la possiamo cavare rimandando chi quell’esperienza specifica e concreta ha esperito sulla sua pelle, alla dottrina originaria, magari dicendogli:”Guarda che quello che tu hai esperito non è l’ ”ismo” vero, quello che tu hai vissuto è la sua determinazione/degenerazione storica, ma l’ “ismo” vero è ben altra cosa, ecco, leggi questi libri, vai a vedere cosa dicono così capirai…”. Ma io credo – sempre se mi si passano i termini di paragone che mi rendo conto essere iperbolici (ma così ci capiamo…) – che un ebreo (o un polacco, uno zingaro ecc.) o un irakeno (o un vietnamita ecc.) sopravvissuti rispettivamente ai lager nazisti e ai bombardamenti “umanitari” del liberale e capitalistico occidente in tutto il mondo, non abbiano bisogno di leggere dei libri per sapere cosa siano il nazismo e l’imperialismo.
Mutatis mutandis, un uomo occidentale, non ha nessun bisogno di leggere i libri di Carla Lonzi o di chiunque altra, per sapere cosa è il femminismo, perché lo esperisce quotidianamente nella sua vita reale.
Ergo, quello testè descritto, non è un metodo, bensì un tentativo, a mio parere anche un po’ goffo (anche se il più delle volte genuino) di occultare la realtà per cercare di salvare il salvabile. Procedendo in questa maniera però, anche chi è in buona fede, finisce, suo malgrado, per non esserlo più e per produrre e alimentare quella falsa coscienza che in effetti il sottoscritto prende spesso in prestito dal “vocabolario marxiano”, come ha già scritto Elena Dalla Torre.
La quale sostiene che Carla Lonzi avrebbe rotto (e ha ragione) con la dialettica hegelo-marxiana, al punto che, cito testualmente “Lungi dal riprodurre una dialettica hegelo-marxiana, come afferma Marchi, Lonzi ci “sputava sopra” avendo intuito che il femminismo non poteva ridursi ad una semplice sostituzione della dialettica dei sessi con quella delle classi. Al contrario, Sputiamo su Hegel costituisce una critica del sessismo implicito nel marxismo, critica che, per altri versi, era stata intrapresa all’epoca anche dal femminismo materialista francese di Monique Wittig, Colette Guillaumin e Christine Delphy. Secondo Lonzi, “far rientrare il problema femminile in una concezione di lotta servo-padrone quale è quella classista è un errore storico” dal momento che il marxismo contemplava un’organizzazione maschile della società”.
Meglio di così Dalla Torre non poteva fare, un vero e proprio assist (magari volontario? Non azzardo tanto…) di cui la ringrazio, perché con queste sue parole conferma (soprattutto ad alcuni dei nostri avversari e delle nostre avversarie che sostengono esserci uno stretto legame fra il Marx pensiero e il femminismo e che anzi il secondo sarebbe una sostanziale filiazione del primo) quello che sostengo da tempo, e cioè quanto il femminismo (in questo caso quello della differenza) sia in realtà strutturalmente e ideologicamente distante dal marxismo accusato addirittura di percorrere e di riproporre logiche e dinamiche interne alla stessa cultura maschile e maschilista. Questo concetto è del resto ben sintetizzato in due fra i più famosi slogan femministi di sempre e cioè:”La storia del pensiero filosofico è una storia tutta maschile” e “Anche la lotta di classe è un affare privato fra maschi”. Chi, come il sottoscritto, ha attraversato tutti gli anni ’70, li rammenta perfettamente.
Quindi da una parte Dalla Torre cita la Lonzi per criticare la mia tesi in base alla quale il femminismo avrebbe (e in effetti ha) fatto un copia-incolla della dialettica hegelo-marxiana sostituendo il conflitto fra i sessi a quello fra le classi, dall’altra conferma involontariamente (o forse no? Chissà…) quanto sostengo, e cioè quanto il femminismo della differenza (né poteva essere altrimenti perché quello marxiano è un approccio alla totalità che parte da una parzialità per tornare alla totalità in seguito ad un percorso dialettico che prevede il superamento dialettico delle contraddizioni in esso presenti, mentre quello del femminismo della differenza parte da una parzialità, fa una passeggiata nella totalità per poi tornare alla parzialità assumendola come Verità Universale) abbia preso le distanze dal marxismo stesso.
Ma la Dalla Torre dimentica di dire che non esiste un solo femminismo, perchè ce ne sono diversi, e sono le femministe stesse per prime a ricordarcelo sistematicamente sostenendo addirittura che non ha senso parlare di “femminismo” bensì si deve parlare di “femminismi”. Fra questi, quello cosiddetto dell’eguaglianza è quello oggi largamente maggioritario ed è lo stesso che ha teorizzato e soprattutto praticato quel famoso copia-incolla della dialettica hegelo-marxiana di cui sopra (altrimenti, solo per portare un esempio, la logica, sessista e di potere, delle quote rosa, osteggiata da alcune correnti minoritarie del femminismo, da dove trarrebbe origine?…). La mia opinione è che fra queste componenti ci sia un sostanziale gioco delle parti, e a seconda delle situazioni e delle opportunità del momento, entra in gioco ora l’una, ora l’altra. Ma questo è un discorso che ci porterebbe lontani e l’oggetto della nostra riflessione è al momento un altro.
Da tutto ciò si evince quanto sia il femminismo della differenza che quello dell’eguaglianza (le due correnti storicamente più importanti anche se ora si sta pericolosamente affacciando e anzi si è già da tempo affacciata sulla scena, quella del genderismo) siano strutturalmente lontani da una logica marxista e di classe. Resta da capire come sia stato possibile che una simile ideologia (sessista) abbia potuto attecchire proprio a sinistra. Ma quello che ad un primo approccio appare come un fenomeno paradossale, ad una lettura più approfondita non lo è più.
Il femminismo infatti si è incistato in una “sinistra” post comunista, post socialista e post movimento operaio, che ha abbandonato ogni logica di classe per sposare valori, principi e ideologia del sistema capitalista dominante. E’ la “sinistra” dei “diritti civili” che non si rende neanche conto (alcuni/e facenti parte dei gruppi dirigenti si…) di fungere da strumento ideologico (ancora una volta la falsa coscienza…) di quel sistema capitalista che si è disfatto del vecchio apparato ideologico e “valoriale” vetero borghese, ormai non più funzionale se non di ostacolo al pieno dispiegarsi del capitalismo stesso e della “forma merce”, per assumere il nuovo (femminismo, “diritto umanismo”, relativismo assoluto ecc.). Ma anche questo è un altro discorso che ci porterebbe lontani e che peraltro ho personalmente affrontato più volte anche su questo giornale. Rimando per ora alla lettura di questo mio articolo: La nuova falsa coscienza dell’Occidente.
Secondo Dalla Torre (e anche in questo caso non si sbaglia) la Lonzi sosteneva che la donna clitoridea, liberatasi dal giogo fallico, quindi dalla presunta dipendenza dal maschile (e di conseguenza dal dominio maschile), avrebbe liberato anche l’uomo (non ce ne siamo accorti…). Questo modo di vedere le cose è quanto meno miope perché presuppone che soltanto le donne abbiano sviluppato e sviluppino una dipendenza (sessuale e psicologica) dal maschile e non anche (e soprattutto, aggiungo io) il contrario. La cosa è tanto più paradossale se pensiamo – sempre che mi sia permessa la battuta – che i maschi, a differenza delle femmine, non dispongono di clitoride.
Ergo, qualora non fosse già sufficiente il testosterone a porli in una condizione di dipendenza, anche se non dichiarata (per pudore, per vergogna, per timore di mostrarsi nella loro effettiva condizione di fragilità sia pur camuffata dietro una varietà di maschere sedimentatesi nel tempo), la loro dipendenza fisiologica (sessuale e psicologica) dal femminile è totale. Ma questa dipendenza, battute a parte, dovuta ad una naturale e fisiologica diversità fra i sessi, si traduce in una asimmetria dei bisogni sessuali che vede una polarità, quella maschile, in un una posizione, appunto, di dipendenza e di subordinazione nei confronti di quella femminile.
Il femminismo, non a caso, deve naturalmente negare questa diversità (o meglio, deve negare quella specifica asimmetria sessuale di cui sopra che determina la condizione di dipendenza sessuale maschile) perché se la confermasse dovrebbe conseguentemente ammettere che le donne in realtà dispongono di un’ “arma” molto potente che le pone nella condizione di esercitare un dominio oggettivo (sessuale e psicologico) sugli uomini o comunque sulla grandissima maggioranza di essi (non solo su una minoranza di emarginati, come scrive Dalla Torre). Dominio che in effetti esse esercitano e che comporta e produce inevitabilmente tutta una serie di conseguenze di ordine sociale, economico, culturale e quant’altro che vanno ben oltre la mera (e comunque fondamentale) relazione sessuale.
Ma ammettere ciò significherebbe minare alle radici l’ideologia femminista stessa, per ovvie ragioni. Perché ammettere il sostanziale dominio sessuale (e quindi psicologico, a meno di non separare i due aspetti ma sappiamo che ciò è impossibile) femminile sul maschile significherebbe ammettere l’esistenza di una sfera, quella appunto sessuale e psicologica (in senso ampio), quella che ho personalmente ribattezzato come “psicosfera”, in grado di esercitare un condizionamento potentissimo su tutti gli altri aspetti del vivere sociale. Ed è evidente –sempre ammesso di condividere questa analisi – che un soggetto non può essere dominante e dipendente nello stesso tempo. Delle due, l’una, i due aspetti non possono oggettivamente coesistere.
Nelle società capitalistiche cosiddette avanzate o mature (quelle che appunto, almeno in questa fase storica, sembrerebbero aver superato l’ “era del pane”, come la stessa Dalla Torre ci ricorda citando il sottoscritto) la cosiddetta “psicosfera” assume un importanza strategica nel determinare sia la struttura che la sovrastruttura. Rapporti di produzione (e il controllo di questi) e “psicosfera” (e il controllo di questa) costituiscono ormai, a mio parere, per lo meno in questa parte di mondo (che è quella dominante) un’unica grande struttura che a sua volta genera sovrastrutture (cultura, costumi, ideologia ecc.).
Alla luce di queste sia pur sommarie e ultrasintetiche considerazioni (non potrebbe essere altrimenti a meno di scrivere un libro) ci accorgiamo di come tanti aspetti che ci sono stati presentati in una determinata maniera, siano in realtà da capovolgere completamente per poterli comprendere nella loro veridicità. Prendiamo ad esempio il fenomeno della mercificazione sessuale di massa (psicologica prima ancora che pratica) che caratterizza le società capitalistiche occidentali. Ci viene ripetuto ogni giorno in tutte le salse che questo fenomeno sarebbe da attribuire a una presunta volontà maschile che vorrebbe la donna oggettivata al fine di poterla gestire a piacimento, di poterla comprare. Ma questa è una clamorosa falsificazione della realtà.
Qual è l’uomo che preferirebbe pagare per avere quello che potrebbe avere gratis (se potesse averlo gratis)? Solo un fesso o una persona con gravi problemi psichici potrebbe preferire il sesso mercenario ad un sesso libero, giocoso, ludico, vissuto nella spontaneità e nella reciprocità. Il sogno di ogni uomo è infatti quello di poter essere fermato per la strada da una donna che gli spalanchi un bel sorriso, gli proponga di andare a fare il bagno nudi al mare e poi di fare l’amore sulla spiaggia o direttamente nell’acqua (o in qualsiasi altra situazione simile…).
Se questo è vero, ed è vero (e sfido qualsiasi uomo intellettualmente onesto che non si ripari dietro quelle maschere a cui facevo riferimento poc’anzi, a negarlo), per quale ragione un uomo dovrebbe preferire pagare per fare sesso? E’ quindi evidente che se gli uomini “pagano” per fare sesso (direttamente o indirettamente) è perché non gli viene offerto “gratis” (cioè spontaneamente e liberamente).
Ergo, sono gli uomini ad essere le prime vittime e a subire gli effetti del processo di mercificazione sessuale, non certo le donne. O meglio, la grande maggioranza degli uomini che non ha nulla da guadagnare e tutto da perdere, sotto ogni punto di vista, in un contesto dove il sesso è mercificato. E’ evidente che questa situazione può essere ed è funzionale ad una minoranza di uomini, quelli che appartengono alle elite sociali dominanti, in grado di far valere il loro peso specifico (anche e soprattutto) nell’ambito della relazione con l’altro sesso, e a un più che consistente numero di donne che scelgono di vivere secondo le logiche (che hanno interiorizzato) della ragione strumentale capitalistica dominante (la gran parte delle rimanenti sono comunque ingabbiate nelle stesse logiche né potrebbe essere diversamente) perché ritengono di trarne dei vantaggi (e in effetti, sotto un certo profilo, ne traggono).
E’ ovvio poi che da un punto di vista marxiano (ma in modo infinitamente più modesto, anche dal mio) siamo di fronte ad un gigantesco processo di alienazione che coinvolge tutti e tutte proprio perché, per dirla sempre con Marx (nell’interpretazione che in questo caso ne dà Claudio Napoleoni e che personalmente condivido), nella società capitalistica, solo alcuni (la maggioranza) sono sfruttati, ma tutti vivono più o meno una condizione di alienazione (anche se con modalità diverse). E’ proprio la scelta di sottrarsi a questa alienazione, per quanto è possibile, interrogando la propria particolarità (alienata) all’interno dell’universo-mondo capitalista, nel nome della propria individualità (potenzialmente libera) che fa la differenza. Come disse il grande Lukacs, anticipando i pur meritevoli pensatori “francofortesi”, pur con le loro contraddizioni (del resto chi non ne ha?…):”Non parteciperò più alla mia stessa alienazione” (iche mache meine eigene Entfremdung nicht mher mit). Naturalmente Lukacs era ben cosciente – da marxista qual era – che questa non era una condizione dalla quale ci si poteva liberare con un semplice atto del pensiero autocosciente (qui la critica a Hegel, naturalmente, sostenitore di una concezione puramente logica e coscienziale del concetto di alienazione) e che fosse necessario l’intervento di un soggetto sociale e collettivo autocosciente in grado di trasformare lo stato delle cose (e di liberare l’intera società dall’alienazione). Ma a questo punto mi debbo nuovamente fermare, per ovvie ragioni.
In conclusione di questa mia breve riflessione su questo punto specifico, il mio consiglio a Elena Dalla Torre e in generale a tutte quelle donne (poche, per la verità) di “buona volontà” che forse hanno deciso di interrogarsi su queste questioni fuori delle vulgate ideologiche femministe di sempre, è quello di smettere di sputare su Hegel (che non serve a nulla se non ad impoverirci culturalmente e concettualmente più di quanto non lo siamo già), di provare a raccogliere quell’invito di Lukacs e invitare tutte le altre donne ad una vera autocoscienza ponendole di fronte ad un grande metaforico specchio per poi chiedergli:”Care amiche, chi siamo? Da dove siamo partite? Dove stiamo andando? Dove siamo giunte? Come ci stiamo comportando? Qual è il nostro ruolo all’interno della società capitalistica attuale? Come ci stiamo relazionando con l’altra metà della Terra? Secondo quali logiche e dinamiche? Era questo l’approdo desiderato? Era questa la “terra promessa” della liberazione del genere femminile? Quella terra promessa” dove anche gli uomini sarebbero stati liberi e liberati in virtù della riconquistata libertà femminile? Era questa la Libertà promessa dalla “Liberata”? Era questa (quale?…) la tanto decantata “specificità” femminile che avrebbe trasformato e superato l’ordine sociale (capitalista)? In cosa e come si è risolto il tutto?”…
Il femminismo (in tutte le sue correnti) non solo non fa nulla di tutto questo ma sceglie consapevolmente di deresponsabilizzare completamente il genere femminile che, purtroppo, in questa fase storica (senza naturalmente generalizzare), ha di fatto aderito alle logiche del sistema capitalistico dominante, e di responsabilizzare/colpevolizzare/criminalizzare il genere maschile, nella sua totalità. Per queste ragioni il femminismo è oggettivamente una falsa coscienza, perché è una ideologia nel senso più stretto del termine, cioè uno strumento di falsificazione-manipolazione della realtà per determinati fini.
Dalla Torre sembra condividere l’approccio di classe del sottoscritto, arrivando perfino “a darmi un po’ di ragione”, ma poi si contraddice quando ribadisce che negherei “sia la realtà della discriminazione di genere sia il processo di soggettificazione delle donne di cui il lavoro è componente essenziale”.
Ora, su questo aspetto specifico (ma determinante) ha già detto molto Armando Ermini nella sua risposta e, condividendo in toto la sua interpretazione, rimando quindi i lettori e la stessa Dalla Torre al suo intervento. Mi limito solo a portare qualche ulteriore considerazione, a mio avviso necessaria.
Il lavoro, per la stragrande maggioranza degli uomini, con l’esclusione di quelli (e quelle) appartenenti alle classi sociali dominanti che, non a caso, vivevano del lavoro (e dello sfruttamento) altrui, in tutte le epoche storiche, non è stata una libera scelta ma una dolorosa necessità. Non lo hanno fatto per “realizzarsi”, per la loro “soggettificazione” (decisamente una parolaccia…) in quanto uomini (ci si realizza di più scrivendo poesie e suonando l’arpa o spaccando pietre dalla mattina alla sera?…), ma per poter sopravvivere, e per dar modo di sopravvivere anche alle loro famiglie, ai loro figli e alle loro mogli.
La grandissima maggioranza degli uomini, dunque, lavorava (sfruttata) perché costretta e per senso di responsabilità (oppure per etica o per ideologia, più o meno indotta ad arte, o perché tentare di sfuggire al proprio destino di sfruttato avrebbe comportato il pubblico ludibrio e l’esclusione sociale), non certo perché trovasse gratificante passare la vita in una miniera, in una cava di marmo o in un’ acciaieria (questa era la condizione del lavoro fino ad una settantina di anni fa).
Fino a poco meno di un secolo fa, cioè prima della grande rivoluzione tecnologica che ha fatto sì che una gran parte dei mestieri potessero essere svolti indifferentemente da uomini o da donne (le prime avvisaglie di questo processo sono cominciate con la prima rivoluzione industriale dei primi anni dell’800 che ha portato in fabbrica anche donne e bambini) e che anche il lavoro domestico fosse “liberato”, nessuna donna ha mai rivendicato il diritto di andare a lavorare in una risaia o in una fabbrica tessile, tanto meno per potersi “realizzare”. Lo faceva perché era costretta. Se avesse potuto scegliere, non lo avrebbe mai fatto, né tanto meno avrebbe aspirato a raggiungere la propria “indipendenza” economica passando dodici ore al giorno nell’acqua a schiena piegata a raccogliere riso.
Nel momento in cui la rivoluzione tecnologica ha reso possibile l’intercambiabilità di uomini e donne (fermo restando che ad essere occupati nei mestieri più pesanti, nocivi e rischiosi per la propria incolumità fisica continuano ancora oggi ad essere gli uomini, e non c’è bisogno di ricordare quale sia il tasso di “mortalità di genere” sul lavoro per capirlo) e ha alleggerito di molto la fatica fisica da sopportare, le donne hanno fatto il loro ingresso massiccio nel mondo del lavoro e hanno cominciato a rivendicare il lavoro come una forma di “realizzazione” (come gli uomini, del resto, nessuno è mai andato per sua libera scelta a lavorare in una miniera per trovare la sua “realizzazione” o per scoprire il suo vero “se” …) oltre che di indipendenza personale. Prima di allora, questo non era oggettivamente possibile, ma per tutti/e, non solo per le donne.
E’ quindi evidente che ciò che viene presentata (dal femminismo) come una millenaria e storica discriminazione nei confronti delle donne, è stata in realtà una altrettanto millenaria e gigantesca divisione sessuale (oltre che sociale) del lavoro, data da condizioni oggettive, fisiche, ambientali, tecnologiche, che hanno reso inevitabile quella stessa divisione che ha portato – mi si passi sempre la semplificazione – a quella sorta di più o meno tacito compromesso, che ha visto la grande maggioranza delle donne adibite a mansioni di “cura” da una parte e la grande maggioranza degli uomini adibiti al lavoro pesante (forzato?) dall’altra.
Tutto ciò, come è stato già detto, è stato reinterpretato come un processo di discriminazione nei confronti delle donne. Il che è semplicemente privo di fondamento. Infatti, anche nelle fasi storiche più terribili, quelle che purtroppo hanno dominato la scena per lunghissimo tempo, quelle ad esempio in cui regnava la schiavitù, le schiave avevano comunque condizioni di lavoro e di vita migliori rispetto a quelle degli schiavi, per le stesse ragioni di cui sopra. Le schiave erano adibite a lavori di cura e domestici o tutt’al più a sollazzare gli appetiti sessuali dei nobili (non che sia piacevole, sia chiaro…del resto a questo genere di attività “ludica” erano adibiti anche gli schiavi, per la gioia delle donne dell’aristocrazia), mentre gli uomini erano destinati al lavoro (in condizioni disumane) nei campi, attaccati come bestie da soma ad un aratro, oppure nelle cave, nelle miniere o nelle galere (le navi), frustati, brutalizzati e sottoposti alle peggiori angherie.
Mi ha sempre lasciato stupefatto, devo essere onesto, come un pensatore “marxista” quale era Engels, non abbia colto questo risvolto fondamentale della divisione sessuale del lavoro nella storia. Ma nessuno è perfetto e tutti possono sbagliare. A sua parziale discolpa, va però detto che Engels ha vissuto in un periodo in cui in effetti, proprio in virtù di quella rivoluzione tecnologica e industriale di cui sopra, le donne (così come i fanciulli) cominciavano ad entrare in modo massiccio nelle fabbriche e che la famiglia borghese, grande o media, era all’epoca effettivamente a trazione patriarcale, mentre la famiglia proletaria era già stata distrutta dall’organizzazione capitalista del lavoro. Come spiegano gli stessi Marx ed Engels nella loro opera di più grande divulgazione, il Manifesto del Partito Comunista: “Su che cosa riposa l’attuale famiglia borghese? Sul capitale, sul guadagno personale. Non esiste nel suo pieno sviluppo se non per la sola borghesia; ma essa trova il suo complemento nella forzata mancanza della vita di famiglia presso i proletari”.
Contestualizzando e storicizzando il tutto, appunto, si può forse comprendere quello che a mio parere è uno degli errori storico-interpretativi più macroscopici di Engels (Marx non si è mai occupato, se non marginalmente, di tali questioni che, del resto, non si ponevano all’epoca o comunque non erano centrali, perché non c’erano le condizioni per porle).
Ma non è tutto. La rivoluzione tecnologica, oltre a far saltare completamente la divisione sessuale del lavoro, ha modificato ogni ambito della vita sociale fino a minare alle fondamenta anche quell’equilibrio, quella sorta di tacito compromesso che per tanti anni, fra mille contraddizioni, aveva in qualche modo garantito un “equilibrio”, sia pur precario, nella relazione fra i sessi. Con la rivoluzione tecnologica, infatti, e in virtù o a causa della asimmetria sessuale a cui ho già fatto cenno, la grande maggioranza degli uomini (quelli non appartenenti ai gruppi sociali dominanti), ha perso ogni peso specifico nella relazione con le donne, nel momento in cui non è più in grado di compensare in alcun modo quell’ asimmetria che vede la grande maggioranza degli uomini stessi nella condizione di “chi chiede” ed è costretto a chiedere, se vuole avere una vita sessuale (domanda e offerta).
La presunta eguaglianza che sarebbe quindi stata raggiunta oggi nella relazione fra i sessi è di fatto una truffa (né più e né meno di come lo è quella del presunto scambio fra eguali, in ambito economico, fra capitale e lavoro). Serve a camuffare la condizione di dipendenza e di subordinazione sessuale e psicologica (e di conseguenza anche sociale) in cui si trova la gran parte degli uomini, sprovvisti ormai di ogni peso specifico. Non è quindi un problema di identità perduta, come sostiene la Dalla Torre (questo aspetto esiste, eccome, ma non riguarda questo ambito specifico), ma la perdita oggettiva di una “capacità contrattuale” da parte della gran parte degli uomini con l’altro sesso, stante l’asimmetria di cui sopra. E in un contesto come il nostro, fondato sulle leggi dell’economia politica (capitalistica) dove la sessualità femminile viene “valorizzata” molto più di quanto non lo sia già in condizioni, diciamo così, naturali, è evidente che il peso specifico della grande maggioranza degli uomini andrà ancor più a scemare fino a raggiungere lo zero. Se il discorso non fosse chiaro a qualcuno/a posso sempre portare degli esempi, “terra terra”, come si suol dire, ma sicuramente efficaci.
Sul “femminicidio” dirò solo poche parole perché è un tema talmente inflazionato (hanno anche realizzato dei terrificanti e macabri format televisivi) e inventato ad arte che non vale neanche la pena perderci più di tanto tempo. E qui va detto che la Dalla Torre si lascia evidentemente irretire dal bombardamento mediatico sistematico e soprattutto sceglie di fare ricorso alla sempiterna tematica della violenza che fa sempre molta presa. E questa secondo me è una caduta di stile, se mi posso permettere, nell’ambito di una analisi che comunque presenta degli spunti interessanti di riflessione.
Si tratta, come dicevo, di un fenomeno inventato di sana pianta su numeri assolutamente, e purtroppo, “fisiologici”. Ogni anno (per restare in Italia) vengono assassinate circa 120/130 donne (il fenomeno peraltro è in netto calo ormai da molto tempo ma solo negli ultimi anni è stato portato in modo così morboso da parte dei media all’attenzione della cosiddetta opinione pubblica, cioè della massa dei semicolti e dei semi informati a cui è destinato il messaggio mediatico), di cui il 20% circa uccise da altre donne, a fronte di circa il quadruplo o il quintuplo (cioè 400 o 500) di uomini assassinati, di cui fra il 5% e il 10% uccisi da donne. Sono sufficienti questi numeri per capire che quello del “femminicidio”, cioè dell’omicidio di una “donna in quanto donna” è una bufala.
Soltanto la metà di quelle 120 o 130 donne vengono uccise in ambito domestico e/o intrafamiliare (il resto durante rapine o fatti di cronaca nera vari). La metà circa degli uomini che uccidono la propria moglie o la propria compagna si suicidano subito dopo. Questa non vuole affatto, ovviamente, essere una giustificazione, nel modo più assoluto. Dal momento però che si dice che gli uomini ucciderebbero le “proprie” mogli perché le considerano meri oggetti di loro proprietà, resta difficile poi da comprendere cosa spingerebbe un uomo a suicidarsi dopo aver soppresso un “oggetto” di sua proprietà. Avete forse mai visto un proprietario di schiavi suicidarsi dopo aver frustato fino alla morte uno schiavo? Io mai. Avete mai visto un nazista suicidarsi dopo aver sparato in testa a un ebreo o a un comunista? Io mai. Avete mai visto un trafficante di esseri umani suicidarsi dopo che il suo carico di carne umana è affogato nel Mediterraneo? Io mai. Tutt’al più si dispera perché ha perso il suo guadagno…
E’ evidente, dunque, che il fenomeno di cui stiamo parlando è di tutt’altro genere e natura e non può essere affrontato secondo la logica del carnefice, maschio, proprietario, privilegiato e oppressore, per definizione, e della vittima, femmina, oppressa e discriminata, sempre per definizione.
Per non parlare della logica dei due pesi e delle due misure con cui i media trattano l’omicidio di una donna da parte di un uomo e l’omicidio di un uomo da parte di una donna. Nel primo caso non ci sono né possono esserci attenuanti, nel secondo la donna quando uccide, lo fa per reazione, dopo anni di violenze e vessazioni subite (come nell’ultimo recente caso nei pressi di Catania dove una donna ha ucciso il marito a bastonate mentre questi dormiva e poi ha inscenato una rapina. Il titolo della Repubblica è eloquente:”Rapina in villa, ucciso dalla moglie”. Sottotitolo “Era violento, non ne potevo più).
Il fatto criminoso, quindi, viene di fatto quasi giustificato e addirittura in qualche modo legittimato. E’ ovvio che questa giustificazione-legittimazione è possibile grazie alla narrazione femminista, diventata ormai Verità Assoluta, in base alla quale il genere femminile è vittima fin dalla notte dei tempi di ogni sorta di vessazione da parte di quello maschile. Partendo da questo Assunto (la A maiuscola non è casuale), è ovvio che ogni forma di violenza che un uomo può subire da parte di una donna, diventa un nonnulla, anzi, quasi una sorta di risarcimento per tutte le nefandezze e le violenze che le donne avrebbero subito nella storia da parte degli uomini. Tutto ciò ha come obiettivo quello di instillare in questi ultimi un senso di colpa inestinguibile, una sorta di “fine pena mai”, finalizzato a paralizzarli psicologicamente. Con quali effetti e soprattutto chi possa essere interessato a questo processo di paralizzazione psicologica, lo lascio immaginare a voi…
Tornando all’oggetto, la verità (i numeri ce la forniscono sempre…) è che nella grandissima maggioranza dei casi la violenza degli uomini è agita e rivolta quasi sempre nei confronti di altri uomini. Allora sarebbe qui necessario aprire una riflessione sulle ragioni di questa “modalità” maschile di stare la mondo (fermo restando che la violenza appartiene all’umano e non solo ad un genere), ma questo è argomento che non posso affrontare ora in questa sede anche perché sono stato fin troppo prolisso, e che necessita di una riflessione specifica.
Mi rendo conto che questa mia analisi complessiva può far impallidire e gridare allo scandalo tanti miei compagni e compagne, talvolta di una vita, di lotte, militanza e vita personale, ma è ciò che penso e non posso farci nulla. “La verità è rivoluzionaria”, diceva uno che se ne intendeva. Io non so se questa mia opinione corrisponda al vero o sia rivoluzionaria; so solo che è la mia. E la dico.