Il risultato del PD è oltre ogni possibile dubbio analitico. Rispetto alle politiche di febbraio (anche se non è del tutto corretto metodologicamente confrontare le due scadenze) il PD ha preso 2,6 milioni di voti in più. E’ presto detto: ha recuperato un pezzo dell’elettorato PD che a Febbraio era fuggito verso il M5S, composto, essenzialmente, da piccoli imprenditori, artigiani, in breve quella piccola borghesia che, come bene ci illustra Marx, oscilla sempre, in funzione dei suoi interessi, fra ribellismo e conformismo. E che in un PD a guida Bersani, e dominato ancora dagli ex Ds, vedeva un ostacolo, sia pur in effetti molto blando, ai suoi interessi, perché la sua segreteria era ancora targata di un qualche residuo di socialdemocrazia che la rendeva ostica a smantellare lo Stato e la funzione pubblica, ed a trasformare il Paese in quella prateria dove il piccolo borghese italiano sogna, da sempre, di correre come il Generale Custer (salvo poi tornare da Mamma Stato per chiedere protezione, se le cose vanno male).
Questi elettori in fuga sono tornati non appena hanno visto che il PD era in grado di abolire le province, smantellare i sindacati, distruggere ciò che resta del sistema pubblico, e promettere soldi e regalie. E ha prosciugato il blocco sociale di Berlusconi, alla ricerca perenne di qualcuno che lo protegga da un pericolo insurrezionale più fantasmatico che reale, e che, nell’oramai evidente logoramento di Berlusconi (che quindi non poteva più brandire la spada contro i Comunisti) ha votato Renzi, per difendersi dai Grillini. A tutto ciò, si è aggiunto un compattamento senza precedenti di un partito di norma assai rissoso, tenuto insieme dal terrore di perdere elezioni e posti di lavoro (ancora alla vigilia del voto, io stesso venivo avvicinato da quadri del PD che mi pregavano di votare per il loro partito..perché avevano paura di perdere il posto). In sintesi: Renzi è riuscito a rimettere insieme il blocco sociale della Democrazia Cristiana: piccola borghesia e suoi addentellati nella piccola rendita, nel ceto medio impiegatizio e dei pensionati, che oscilla fra il terrore perenne di una ondata insurrezionale che le cancelli privilegi oramai ridotti al lumicino dalla crisi e viscerale odio e diffidenza per lo Stato e le sue espressioni (meglio avere la sanità privata che pagare più tasse, è ad esempio uno dei loro motti), nonché media e grande borghesia, incapace di promuovere la crescita autonomamente, senza capitali e senza idee, che da sempre vive di relazioni politiche, quadri intermedi e superiori della pubblica amministrazione e dell’impresa pubblica, che vivono di concessioni politiche. A questo blocco sociale, che rappresenta la componente sociale tradizionale del ventennio fascista, prima, e dei decenni democristiani, dopo, si aggiungono frange di proletariato e sottoproletariato precarizzato, trasportate, per traslazione lineare, dal vecchio Pds/Ds dentro il Pd, indotte a pensare che il PD sia ancora un partito “progressista”, in ragione delle sue formidabili doti mimetiche. Evidentemente, serviva un leader democristiano energico, “tambroniano”, e non il solito democristiano paludato, lento e concertante, come E. Letta, per rimettere insieme i cocci del blocco sociale democristiano, dopo la sua esplosione nel 1993 e la sua diaspora in una miriade di partiti, da FI fino alla Margherita.
Il M5S ha sbagliato a tenere alti i toni, a minacciare. La sinistra non esiste da decenni, e non è che il 4% risicato, ottenuto grazie all’effetto di traino di un leader straniero, la possa rivitalizzare. Gli spazi politici ormai sono molto ridotti e ad oggi è difficile capire quali potrebbero essere.