Non c’è più spazio per il “terzismo”

A proposito del conflitto ucraino e delle relazioni giunte al punto di rottura tra “Est e Ovest” (formula questa che si adoperava quand’ero bambino) si confrontano quotidianamente in tivù e sui giornali due posizioni contrapposte: da un lato quella, largamente maggioritaria, degli occidentalisti assataNATO, che sostengono il diritto-dovere dei Paesi “democratici” di “difendere” l’altrettanto “democratica” (?) Ucraina dall’Impero del Male russo, guidato da un personaggio – Vladimir Putin – che assomma in sé la follia criminale di Hitler, la demoniaca spietatezza di Sauron e la perfidia di Nosferatu, e va quindi sputtanato, maledetto e distrutto; dall’altro quella dei cosiddetti “putiniani”, che sottolineano le responsabilità dell’Occidente nella genesi dell’attuale crisi, e per questo vengono (mal)trattati alla stregua di untori ed eresiarchi.
La prima opinione prevale sulla seconda non perché fornisca argomenti migliori, ma poiché l’arbitro (politicume e propagandisti mediatici) è sfacciatamente venduto; va tuttavia precisato che esiste una terza visione, che non viene pubblicizzata ma è espressa – magari sottovoce – da larghi strati della popolazione acculturata e pensante. Per definirla potremmo usare il termine terzismo: secondo questa interpretazione lo scontro in atto è stato provocato in egual misura dai due contendenti, cioè NATO e Federazione Russa, in quanto entrambi avrebbero tentazioni imperialistiche destinate inevitabilmente a confliggere.
Nella “notte in cui tutte le vacche sono nere” non è dato scorgere ragioni, ma soltanto torti reciproci. Tale giudizio mediano, quasi sempre formulato con pacatezza, suona accattivante perché conforme a un generico buonsenso e perché sembra coerente con l’idea che abbiamo della Storia come ininterrotta competizione fra popoli e nazioni. In questo perenne moto dialettico, che assomiglia più alle teorizzazioni del primo Fichte che all’hegeliano Grand Prix dello Spirito con traguardo finale, sono alquanto rari i casi di statisti mossi da intenti altruistici: pertanto, nella vicenda in corso, nessuno è innocente e tutti sono a priori colpevoli.
Stanno dunque così le cose? Il concetto di imperialismo è stato elaborato nel XIX secolo, cioè in tempi recenti, da pensatori marxisti del calibro di Hilferding e Lenin. Semplificando all’eccesso, detto “ismo” indica la spartizione del mondo, con annesso saccheggio, operata manu militari dalle potenze capitaliste al fine di procurarsi risorse da sfruttare e manodopera sostanzialmente gratuita, perché coatta e senza diritti: i principali protagonisti di questa sanguinosa epopea furono l’Impero Britannico, allora potenza egemone, la Francia, il Belgio, e solo in un secondo momento la Germania riunificata. Anche l’Italia, con il suo “imperialismo straccione”, si ritagliò un piccolo spazio in Africa e altrove, verso la fine dell’Ottocento; vittime della cupidigia europea furono i popoli autoctoni degli altri continenti, asserviti e talora sterminati senza riguardi. La Russia imperiale era, all’epoca, un paese tanto esteso quanto economicamente arretrato: non partecipò direttamente alla spoliazione, pur prendendosi un pezzetto di Cina dopo le infami guerre dell’oppio. D’altra parte, in un’accezione più lata per imperialismo può intendersi anche l’espansione oltremare di stati preindustriali quali la Spagna e il Portogallo a partire dal XVI secolo nonché la brutale politica di colonizzazione economica portata avanti in Asia dalla Compagnia delle Indie olandese durante il ‘600. Che dire allora della progressiva annessione della Siberia da parte degli zar? Si trattava allora (e in sostanza anche oggi) di un territorio immenso e quasi spopolato: la marcia verso est dei russi anticipa la conquista del West di qualche secolo dopo, con la differenza che i primi non manifestarono le intenzioni genocide messe in pratica dai coloni anglosassoni nei territori “indiani”. Anche il c.d. Grande Gioco ottocentesco che oppose in Asia gli eserciti zaristi ai britannici (ma senza che si addivenisse in loco a un cozzo diretto) rientra, almeno per quel che riguarda i russi, nella consueta, millenaria logica di ampliamento dei domini territoriali tipica degli imperi premoderni; stesso discorso per l’annessione nel ‘700 di parte della Polonia, spartita peraltro con austriaci e prussiani.
Nella “fase suprema del capitalismo” la Russia interpreta, in sostanza, un ruolo marginale; decenni dopo la rivoluzione del ’17 si parlerà sovente di “imperialismo sovietico”, ma a ben vedere l’occupazione dell’Europa orientale risulta piuttosto finalizzata alla creazione di una fascia di sicurezza, in un’ottica di divisione del mondo in blocchi, e il sostegno concesso ai movimenti di liberazione nazionale antioccidentali ha anzitutto una funzione di contrasto/contenimento del dinamismo statunitense. Come sottolinea Hobsbawm ne Il secolo breve l’URSS assume nel dopoguerra un atteggiamento prettamente difensivo, e difatti scatena assai meno guerre di aggressione rispetto alla controparte.
Ammettiamo comunque, per semplificare le cose, che l’Impero Russo e l’URSS abbiano esercitato un imperialismo “di prossimità”: può riferirsi questa valutazione anche alla Russia federale postsovietica? Gli anni ’90 sono un periodo oscuro, paragonabile per drammaticità alla seicentesca Età dei Torbidi: sotto Eltsin (in realtà al di sopra di lui e delle sue baldorie) gli imperialisti doc statunitensi spadroneggiano in un paese ridotto a protettorato, facendo incetta di aziende statali e riducendo il popolo in miseria. La speranza di vita cala drasticamente, le giovani vendono il proprio corpo per campare, l’armata è rotta ben prima che scoppi la rivolta cecena. L’avvento di Putin e del suo circolo di siloviki arresta la frana: con metodi spicci il neopresidente si riprende la Cecenia (che non si trova all’estero!), poi imposta una politica di dialogo con l’Occidente che, grazie anche all’impegno che va riconosciuto a Berlusconi, dapprincipio sembra dare frutti. La Russia chiede di essere partner con pari dignità rispetto ai suo interlocutori euroatlantici; si ventila persino un ingresso nella NATO, vengono allacciati significativi rapporti economici e commerciali con l’Europa, convenienti per ambo le parti. Gli Stati Uniti non hanno tuttavia rinunciato al progetto di ridurre all’impotenza l’ex nemico e brigano per insediare politici loro fedeli (magari formatisi negli States) ai vertici delle repubbliche sorte dalla disciolta URSS.
Alla Conferenza di Monaco del 2007 il Presidente russo denuncia i maneggi degli americani e la loro aggressivita militare, ammonendo che il suo Paese non tollererà soprusi e ingerenze – che puntualmente si verificano: il primo terreno di scontro aperto è la Georgia, dove Mosca chiude rapidamente la partita. Nel 2014 (ri)scoppia il bubbone ucraino: gli statunitensi organizzano un sanguinoso putsch contro il legittimo Presidente Yanukovich, colpevole di essere “filorusso”. L’accusa è falsa e tendenziosa: Yanukovich è un politico che si barcamena sforzandosi di non indispettire i due potenti vicini e di mantenersi “neutrale”. Primum vivere deinde philosophari. Il ricatto rivolto dal FMI all’Ucraina induce il presidente a intensificare i rapporti economici con la Federazione: è a questo punto che gli agenti USA inscenano.la seconda rivoluzione colorata sul suolo.ucraino. Per reazione alla rottura dell’ordinamento costituzionale la Crimea e il Donbass russofoni proclamano l’indipendenza da Kiev: incomincia così una guerra di cui l’invasione di due anni fa è solamente (per ora) l’ultimo capitolo. I terzisti non mancano di evidenziare che le citate secessioni sono state propiziate dall’aiuto militare russo: questo è senz’altro vero, ma se le operazioni hanno avuto (parziale) successo è per via del fatto che esse riscuotevano l’appoggio della stragrande maggioranza dei residenti, spaventati dal feroce nazionalismo esibito dal nuovo regime ucraino e scioccati da episodi orribili come la strage fascista di Odessa. In ogni caso la mossa moscovita è difensiva e, viste le circostanze, ragionevole, proporzionata e legittima.
Negli anni successivi Putin cerca in tutti i modi di normalizzare la situazione, ma i paesi NATO firmano gli accordi di Minsk con quella che in diritto si chiama riserva mentale, allo scopo di prendere tempo e poter riarmare il paese-strumento, sacrificabile locomotiva gucciniana. Il resto è storia recente: quella di una guerra calda voluta e provocata da Washington e dai suoi satelliti, amministrati da procuratori della Casa Bianca che degli interessi dei “loro” popoli non si curano affatto.
Domanda: qual è l’imperialista fra chi, dopo essersene impadronito con l’inganno e la forza, vuole utilizzare un paese lontano (ma vicinissimo, anche per cultura e composizione etnica, all’antagonista) come base missilistica avanzata per minacciarne o colpirne un altro e chi, costretto dalla necessità, difende con le armi la propria sopravvivenza a poche decine di chilometri dai patri confini? La risposta, a parer mio, è scontata, e lascia scarsi spazi di manovra al terzismo.
L’ennesima aggressione occidentale a un Paese sovrano certifica l’indole predatoria e guerrafondaia dell’Alleanza di cui siamo sudditi (consapevoli o meno): soltanto una sua evidente sconfitta offrirebbe ai popoli d’Europa la chance di riconquistare la sovranità perduta, e al mondo intero una prospettiva di pacifica coabitazione – quanto al voto europeo, è un’arma spuntata, poiché le regole del gioco sono state scritte per garantire la continuità. Esprimere la propria opposizione a un regime fondato su menzogna e sopraffazione è però un imperativo morale (in senso kantiano).

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