Sulla relazione della Corte dei Conti

“Un ambiente macroeconomico espansivo sarà necessario per un effettivo allentamento della pressione fiscale. Non possono infatti sottovalutarsi le incertezze che riguardano la possibilità di realizzare pienamente il programma di spending review, a motivo degli ampi risparmi già conseguiti per le componenti più flessibili (redditi e consumi intermedi) e per il permanere di un elevato grado di rigidità nella dinamica delle prestazioni sociali. E’ questo un punto di snodo che deve portare all’attenzione il fatto che un duraturo controllo sulle dinamiche di spesa può ormai difficilmente prescindere da una riscrittura del patto sociale che lega i cittadini all’azione di governo e che abbia al proprio centro una riorganizzazione dei servizi di welfare”.

Queste sono, testualmente, le parole utilizzate dalla Corte dei Conti nella presentazione del suo rapporto sul coordinamento della finanza pubblica, oggi, nel Senato. Da un punto di vista formale, mi viene da chiedermi come si possa invocare l’indipendenza della funzione giudicante dalla politica, e poi consentire ad un organo della magistratura di fare politica, lasciando delle indicazioni molto precise di politica economica e sociale nel tempio del potere legislativo, ovvero il Senato. Comunque lo ha sempre fatto, ed è inutile interrogarsi su questioni come queste, in un Paese corporativo come il nostro.

Da un punto di vista sostanziale, invece, queste poche parole condensano il più puro estratto di un articolo di fede liberista. La crescita si ottiene con l’abbassamento della pressione fiscale media, che libera quote di salario dal versamento di imposte e contributi. Gli spazi per la diminuzione della pressione fiscale media devono provenire dalla riduzione della spesa pubblica. Poiché i margini di spending review non ci sono più (è vero, ma non del tutto, io ad esempio proverei a vedere quanto si risparmia tagliando del 70-80% la retribuzione dei brillanti autori di questo rapporto, più le spese di stampa, di organizzazione della presentazione di questo capolavoro, ecc.) allora occorre tagliare con la mannaia il welfare pubblico.

Questo assunto è sbagliato su due aspetti:

– su quello della crescita;

– su quello dell’equità distributiva.

sotto il profilo della crescita: non è vero che un euro in meno di spesa pubblica ed un euro in meno di pressione fiscale generino un effetto espansivo. Non generano nemmeno un effetto neutrale. Generano un effetto recessivo. Perché? Perché il funzionamento economico di uno Stato è più complesso di quello di una bottega di un artigiano del ferro battuto. Non funziona con il principio della partita doppia, dell’equilibrio fra Dare ed Avere. Vediamo perché. Quando si toglie un euro alla spesa pubblica, l’effetto recessivo sul PIL dipende da un coefficiente che lega gli andamenti della spesa pubblica al PIL, e che si chiama “elasticità della spesa pubblica” o, più impropriamente, moltiplicatore della spesa. Questo coefficiente è stimabile mediante semplicissimi modelli econometrici che schematizzano il funzionamento dell’economia, che il grande professor Carlucci spiegava a teste di rapa ventenni, quindi si tratta di modelli davvero molto semplici. Esso misura l’effetto che la riduzione della spesa pubblica esercita sulla domanda (per esempio, a causa di minori stipendi pubblici o minori pensioni, o per minori acquisti di beni e servizi da parte della PA) e da lì, sul PIL. Quando quello stesso euro risparmiato viene utilizzato per ridurre la pressione fiscale, cioè l’aliquota media sui redditi, l’effetto espansivo sul PIL dipende da un altro coefficiente, chiamato “elasticità delle entrate”. Detto coefficiente misura l’effetto dell’aumento della domanda derivante dall’incremento del reddito disponibile medio, per effetto del minor prelievo fiscale.

Adesso, vi svelerò il Terzo Segreto di Cip e Ciop. L’elasticità della spesa è sistematicamente più alta di quella delle entrate. Quindi, se riduco di un euro la spesa pubblico e uso quell’euro per ridurre il carico fiscale medio, l’effetto recessivo del calo di spesa prevale su quello espansivo della riduzione fiscale, e come saldo netto, il PIL – Maremma Ragioniera! – diminuisce, anziché aumentare. E non serve, per dimostrarlo, fare una stima con i minimi quadrati ordinari dei semplicissimi modelli che il grande professor Carlucci spiegava a noialtri teste di totano ventenni. Basta un ragionamento intuitivo. Il decremento di spesa pubblica incide immediatamente sulla domanda e quindi sulla crescita, perché si traduce in una riduzione immediata di redditi (stipendi pubblici, pensioni, indennità assistenziali) o di acquisti di beni e servizi da parte della PA (oviamente, per schematizzare, faccio riferimento ad un concetto di spessa pubblica per cassa, non per competenza). Il calo della pressione fiscale, invece, genera un effetto differito, perché l’aumento del reddito disponibile che può generare un aumento della domanda per consumi, o per investimenti, deve essere percepito, e ciò si realizza nel periodo di imposta successivo a quello della manovra. Quindi esercita un effetto ritardato sulla crescita. Ovviamente stiamo parlando di un vero alleggerimento fiscale, alla Laffer, cioè di una riduzione dell’aliquota fiscale media sui redditi. Non ad un bonus tipo gli 80 euro che, dispiace spiegarlo ai renziani, tronfi di una inesistente riduzione della pressione fiscale: i bonus fiscali tipo gli #ottanteuriottantatuttiinsiemenientepopodimeno# sono tecnicamente un aumento di spesa pubblica, non una riduzione di pressione fiscale.

Effetto ritardato e anche inferiore: infatti la riduzione dell’aliquota fiscale e contributiva media beneficia soprattutto chi ha un reddito medio-alto. Chi ha un reddito basso ne beneficierà di meno. Chi non ha reddito, e quindi non paga imposte, perché incapiente (povero) oppure perché è una impresa in perdita, non ne beneficia affatto. Quindi, mentre un intervento espansivo di spesa pubblica può far contribuire tutti, anche (e sorpattutto) i più poveri al meccanismo che aumenta il PIL, una riduzione fiscale è selettiva, fa partecipare solo pochi al meccanismo espansivo della crescita, i più poveri non hanno alcun beneficio, e quindi non aumentano la loro domanda. Inoltre, chi ha il reddito più basso ha una propensione a spendere per consumi più alta di chi ha un reddito più alto, quindi un euro dato al povero (tramite la spesa pubblica in Welfare, che serve proprio a trasferire risorse ai poveri) genera un effetto sulla crescita proporzionalmente maggiore di un euro di risparmio fiscale concesso a chi povero non è.

Quindi prima considerazione: è sbagliato pensare di alimentare la crescita riducendo la spesa in welfare (la spesa per i poveri) e le tasse. Secondo elemento critico: dove sta l’equità in tutto questo, secondo i magistrati contabili? Quell’equità che loro stessi, con alate parole, pongono alla base del “patto sociale” fra cittadino e governo? Sta tutta in una ipotesi teorica, che ha lo stesso grado di realismo dell’ipotesi che io possa uscire a cena con Belen Rodriguez. Ipotesi che passa con il nome di “teorema di Eulero”. In questo teorema, se la funzione di produzione è a rendimenti di scala costanti (in termini tecnici, se è una funzione di Cobb e Douglas) cioè l’aumento della produzione avviene nelle stesse proporzioni dell’aumento dell’utilizzo dei fattori produttivi (lavoro e capitale) e se ci troviamo in un regime in cui le remunerazioni dei fattori (salario per il lavoro e profitto per il capitale) eguagliano la produttività di tali fattori (cioè ogni unitàaggiuntiva di lavoro o capitale immessa nel ciclo produttivo viene pagata in base a quanto rende, in termini produttivi) allora la produzione incrementale si distribuirà secondo le produttività marginali di tali fattori. In altri termini, si raggiungerà una specie di “giustizia naturale” in cui ognuno verrà pagato in base al suo effettivo apporto produttivo.

Peccato che i rendimenti di scala costanti non esistano, se non in casi molto ipotetici, e peccato anche che, comunque, le funzioni di produzione a rendimenti di scala costanti, abbiano una conseguenza estremamente sgradevole in termini distributivi: la produttività del lavoro, il parametro che serve per determinare la misura dei salari (poiché abbiamo ipotizzato eguaglianza fra salario e produttività) viene a dipendere dall’intensità di accumulazione del capitale: più investo e più capitale creo in rapporto al lavoro, più alta sarà la produttività del lavoro. Se infatti l’output cresce nella stessa proporzione della crescita dell’input di lavoro e capitale (rendimenti costanti di scala) la produttività marginale del lavoro, cioè la produttività dell’ultima unità di lavoro immessa nel ciclo produttivo, deve diminuire progressivamente, mantenendo costante l’impiego di capitale. Altrimenti avremmo rendimenti di scala crescenti, e non costanti. Per mantenere il rendimento totale costante, l’aumento produttivo derivante dall’immissione di una unità aggiuntiva di lavoro viene compensato dalla riduzione del “rendimento” specifico di tale unità aggiuntiva rispetto a quelle precedenti. Quindi: più il lavoro aumenta a parità di impiego del capitale, più diminuisce la sua produttività marginale, e quindi il salario marginale. Viceversa, se invece aumenta l’utilizzo del capitale, cioè l’intensità di uso dello stesso, più si riduce l’uso del lavoro, e quindi aumenta la sua produttività marginale ed il suo salario marginale.

Se però aumenta l’uso del capitale rispetto al lavoro, si genera un effetto distributivo molto spiacevole, spiegato da un tale con la barba, un certo Marx. Se aumenta la composizione organica del capitale (cioè il rapporto fra capitale e lavoro) nel breve periodo le imprese devono o aumentare il saggio di sfruttamento (cioè il plusvalore estratto dal lavoro), oppre ridurre il monte-salari, altrimenti son ocostrette a vedere diminuire i loro profitti (e lasciamo perdere la tendenzadi lungo periodo di questi a cadere, che è una questione non pertinente in questa sede). Nella sostanza, rendimenti di scala costanti provocano o disoccupazione, o nel migliore dei casi una crescita dei salari inferiore a quella della produttività. Con buona pace dei cantori della “redistribuzione dei guadagni di produttività” che albergano anche nel sindacato.

Per finire, esiste una vita oltre le sciocchezze contabili. O si fa i ragionieri Fantozzi oppure, se si vuole dire qualcosa in termini di politiche, occorre fare gli economisti, e guardare oltre. Applicando alla lettera i consigli dei magistrati contabili, otterremo meno crescita con maggiori diseguaglianze. Cioè l’Uruguay degli anni Ottanta. Che non era invidiabile.

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