Crudo vero

Il capitalismo non è solo profitto e sfruttamento, ma è macchina per produrre lo spirito del consenso. Non ha un fondamento metafisico, esso risponde solo all’imperativo dell’espansione illimitata. Il sistema capitale per la sua espansione necessita di consenso allo scopo di rimuovere dallo sguardo e dalle coscienze dei dominati le contraddizioni che rischiano di renderlo dialettico. Lo spirito del consenso è il suo prodotto fondamentale e immateriale senza il quale il capitale nel suo processo imperiale corre il rischio di essere oggetto di critica e prassi rivoluzionaria. La macchina del consenso con i suoi messaggeri, gli oratores, il nuovo clero organico al capitale, è sempre in azione. Il capitalismo si  connota per la sua capacità di adattamento endogeno alle critiche e ai movimenti di opposizione. Un sistema senza metafisica, non ha spirito per cui deve produrre il consenso mutuando e mercificando in modo parassita le ideologie antitetiche. Il nichilismo amorale del capitale permette l’assimilazione e, specialmente, lo spirito prodotto dal capitale è costituito da innumerevoli veli di Maya che devono impedire la vista del crudo vero. Tale strategia permette a coloro che sono asserviti e sfruttati di diventare lo sgabello del sistema: il femminismo, il movimento LGBT, i diritti umani sono i  veli di Maya che consentono il consolidarsi del consenso.

La caduta del muro di Berlino e l’arretramento del materialismo storico con annessa scuola del sospetto favoriscono lo strutturarsi di una cultura acritica e dell’astratto. Per dominare e omologare il modo di produzione capitalistico si impossessa delle parole-concetto della cultura di sinistra e comunista per curvarle alla logica del profitto e dell’addomesticamento. L’ipnosi collettiva di massa è resa possibile dal lessico di sinistra filtrato e manipolato dai media del dominio.

I nuovi manuali dei manager si appellano alla fiducia per responsabilizzare i dipendenti ed indurli a “donarsi” all’azienda. Il sistema gerarchico capitalistico è rimasto più stratificato che mai, ma si utilizza la parola fiducia per introiettare nei dipendenti l’illusione di essere autonomi e nel contempo si “crea” una relazione etica tra padrone e dipendenti, la quale vale sono per i sussunti al dominio. L’aspetto disciplinare del potere cede il posto all’autocontrollo. I lavoratori sono controllati dall’esterno, ma anche dall’interno, obbediscono alle parole del capitale, percependole come vere.  Sono state inoculate reazioni pavloviane, per cui a parole come “diritti civili” e “libertà” vi è un immediato consenso senza concetto. I lavoratori-sfruttati e precarizzati, in tale cornice, sono obbedienti a chi li sfrutta ed estorce quotidianamente il loro potenziale lavorativo ed umano.

Il sistema capitale ha divorato le parole della sinistra, le ha rese endogene, il movimento di assimilazione è stato possibile con la complicità storica della nomenclatura di sinistra divenuta liberal con la caduta del muro di Berlino. Il lavoratore ritrova nei padroni le parole della sua gente, l’effetto disorientamento è enorme, il capitale sembra realizzare ciò che la sinistra ha tradito:

“Il concetto centrale di questi nuovi approcci è quello di fiducia, che abbiamo visto con quanta frequenza ritorni nel neomanagement. La fiducia è ciò che permette di concentrarsi meno sul controllo, puntando su un autocontrollo poco costoso per l’organizzazione che inoltre non sembra porre alcun ostacolo alla mobilità[1].”

 

Le competenze e le “gioie” della flessibilità

La fiducia nell’azienda e  l’illusione di contare spinge alla cultura delle competenze. Il lavoratore deve accumulare le competenze per sopravvivere in un mercato camaleontico. Il posto di lavoro stabile è sostituito dal portfolio delle competenze, già introdotto nelle scuole superiori, i futuri servi devono imparare il linguaggio dei padroni, non devono sviluppare un loro linguaggio. Il portfolio registra la capacità di resilienza e flessibilità ai cambiamenti. Il lavoratore non può che affidarsi con gratitudine ai progetti aziendali che gli consentono di crescere e formarsi. La cultura delle competenze implica il pubblico disprezzo verso il posto fisso e ogni forma di lungo servizio verso la comunità. Anche in questo caso si usa strumentalmente il linguaggio della sinistra comunista, la quale ha sempre criticato e denunciato le forme di alienazione, e specialmente il lavoro meccanico e ripetitivo nel quale il lavoratore non si riconosceva, ma si reificava. Il capitale giunge in soccorso, elimina il lavoro stabile, precarizza e rappresenta la flessibilità come un’opportunità perenne di crescita. La crescita professionale non può che concretizzarsi nella flessibilità e nel portfolio delle competenze. Il cambiamento conserva giovani e stimola la creatività. Lo sfruttamento è, dunque, una grande opportunità che si offre al lavoratore. La manipolazione ideologica sulla pelle e sul sangue degli ultimi non ha limiti. Il dramma diventa tragedia ideologica nelle nuove generazioni che non conoscono che le parole menzognere del capitale, per cui non hanno strumenti per capire la loro lenta discesa nel sottoproletariato e nell’inferno della globalizzazione atlantista. Senza corpi medi e senza una scuola degna di tale nome le nuove generazioni e i popoli sono senza pelle dinanzi alla violenza mistificatoria del capitalismo:

“Il riconoscimento delle “competenze”, acquisite tramite la formazione iniziale, la formazione permanente o l’esperienza, “accreditate” o “con il marchio di garanzia” di organismi pubblici o privati, sotto forma di capacità “nel contempo elementari e molto generali” (Thévenot, 1997), è così concepito come uno strumento di lotta contro l’esclusione in quanto permetterebbe agli individui di dotarsi di un bagaglio e di ottenere fiducia dagli eventuali datori di lavoro rispetto al loro “know-how” pur circolando in uno spazio esteso ed eterogeneo[2]”.

Le competenze sono il pedaggio per l’inclusione, il capitalismo si fa artefice del superamento di ogni marginalità sociale, è sufficiente obbedire e credere alle parole del capitale, che in quanto dio tutto è la manna divina che risolve ogni contraddizione sociale.

 

La nuova religione dell’inclusione

La religione del capitale ha le sue parole, i suoi dogmi e su tutto aleggia la fiducia nella divinità del profitto. Non solo le parole della sinistra, ma anche la religione è sostituita dalla fede nel capitale, al punto che  la fiducia nel mercato spinge masse di precari a sperare nel modo di produzione capitalistico, quindi il capitalismo produce non solo pensiero unico, ma anche la religione dell’inclusione miracolosa e della speranza mondana. Per poter rinascere a nuova vita il capitale esige lo sradicamento di  genere, dalla patria e  da ogni legame. La nuova religione del capitale usa le parole della sinistra in un contesto neo-religioso. Si deve rinunciare ad ogni radicamento, si deve sacrificare ogni specificità per diventare un essere generico ed indeterminato disponibile ad adattarsi agli imperativi del capitale, il sussunto dev’essere un niente disponibile ad assumere le forme che il capitale vuole.

La liberazione dall’oppressione della cultura tradizionale e da ogni vincolo è realizzata dal liberismo, esso si fa paladino dell’emancipazione da ogni legame di dominio, sradica gli individui dalla gravità dei legami e da ogni ruolo. Lo sradicamento è funzionale alla libertà delle merci e della guerra che non incontrano limite alcuno. Dove regna il “pensiero debole”. Non vi è libertà, non vi è capacità di resistenza.

La liberazione liberista comporta la disponibilità ad essere un atomo disimpegnato nel gioco della struttura economica. La cultura di sinistra ha sempre criticato il radicamento imposto e non voluto, ma voleva fondare una cultura e una pratica sociale della comunione dei beni e dei concetti. Il libero e consapevole radicarsi in un progetto politico è stato pervertito dal capitale nello sradicamento totale e  nell’anomia delle solitudini in competizione.

Senza una riflessione collettiva sull’uso delle parole del capitale la sinistra perde la possibilità di avanzare e di ritornare ad essere soggetto politico. Le destre del capitale posseggono l’ordine del discorso, usano demagogicamente le parole-valori della sinistra. La realtà materiale dei lavoratori non è sufficiente a far emergere l’uso ideologico delle parole, senza una sinistra capace di rimettere in gioco le sue parole, il capitale continuerà ad essere la religione maligna dei popoli, sempre più plebi e sempre meno disponibili alla lotta di classe. L’inquietudine, ciò malgrado, si affianca in modo sempre più palese alle promesse del capitale.

Dall’inquieta vita dei popoli bisogna ricominciare, poiché è in essa un potenziale critico che attende di essere portato in atto. Rimettere la critica al centro della prassi significa riportare il discernimento  della verità dove vige l’indifferenziato ideologico e l’anomia delle relazioni. Senza la trasformazione del reale in razionale ogni potenzialità dialettica non può che restare invischiata nella palude del linguaggio orwelliano del capitalismo assoluto. Ricominciare da Marx e dalle sue parole significa ricominciare dal nucleo metafisico del pensiero marxiano, per uscire dall’irrazionalità del presente ed elaborare l’alternativa rispetto ad un presente che ha messo la mordacchia al pensiero critico, alla prassi e, dunque, alla coscienza di classe dei lavoratori.

 

 

[1]LucBoltanski, ÈveChiapello Il Nuovo Spirito Ddel Capitalismo, Mimesis Milano 2014, paragrafo Verso regole più giuste di remunerazione

[2] Ibidem

Economia e religione: cosa abbiamo da imparare? - Sociologicamente

Fonte foto: Sociologicamente (da Google)

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