Enrique Dussel, “Marx e la modernità”

Nelle Conferenze di La Paz, nel 1995, il teologo e filosofo argentino, tra i pionieri della Teologia della Liberazione e in esilio dalla sua patria durante il regime fascista sviluppa la sua attentissima lettura di Marx dal punto di vista rivendicato dell’esternità e del lavoro ‘vivo’; ovvero della persona effettiva, reale, completa. Questo, declinato nelle sue diverse forme, marginali e ‘poveri’, stati subalterni e periferici, è il tema centrale della filosofia e della prassi politico-culturale ed etica di Dussel. Proviamo, dunque, a ripercorrere i temi principali che ancora ci parlano del testo. Intanto cosa è, nella sua essenza al tempo pratica e onto-teologica il “capitale”? per il Marx di Dussel: “il capitale è lavoro morto che si ravviva, come un vampiro, soltanto succhiando lavoro vivo, e più vive quanto più ne succhia[1]. In questa frase di Marx (dal Capitale[2]), che ha in sé il risuono di motivi ebraici, quello che chiama “l’istinto vitale” del capitale, che ha un’anima la quale sovrascrive quella del temporaneo agente possessore (ma che è, al più ed al contrario posseduto), si manifesta come istinto a valorizzarsi. Tecnicamente ad assorbire con l’azione della sua parte costante tanto più pluslavoro possibile (in modo da incarnarsi nel plusvalore che poi può, o meno, ‘realizzarsi’). Si tratta, ancora una formula evocativa, di una “cosa [che non] ha cuore che le batta in petto”[3].

Dicendo in altro modo il ‘capitale’ non è una cosa, ma lo spirito che informa dietro le spalle le ‘cose’ che sono create da esso (dal non-capitale, ovvero dal nulla per esso, come vedremo) e quindi feticisticamente. Tutte le esperienze nel suo ‘mondo’ sono feticci di questo movimento. Il ‘capitale’ è, infatti, un movimento. Ma non si manifesta solo nel materiale ma anche, se non più, nel simbolico. Come scrive Antonio Martone in un recente articolo[4], costruisce un simbolico che tutti sono chiamati ad imitare (se vogliono esistere).

Non stupisce che man mano si viene incorporati in questa logica, e quindi sussunti dalla pratica di valorizzazione del capitale, o, in altre parole, a livello sistemico man mano che il capitale si fa ismo e assorbe ogni dimensione della società estendendosi nello spazio e nei tempi della vita, esso la colonizza con tutti i suoi desideri[5]. La messa a disposizione di questo meccanismo impersonale, ma ‘animato’ nella forma di ‘lavoro vivo’ nel circolo della valorizzazione, ed agente a partire dalla vitalità e dalla natura (che sono nel Marx di Dussel i due apriori esterni), determina per questo il sacrificio. Sacrificio che riduce l’esistenza a produrre ed esistere per il capitale, il mercato, la realizzazione del valore[6]. Questo è un classico tema della “Teologia della Liberazione”[7], ripreso anche nel mio Classe e Partito[8]. Nel capitalismo, visto come pratica religiosa quale in fondo è (una forma di vita che attribuisce culto a dei valori e promette salvezza[9]), l’opera è del tutto distinta dalla eventuale imperfezione (e dai crimini) delle intenzioni. La cesura avviene separando drasticamente la natura di feticcio della merce, e l’alienazione del produttore, dal valore. Esso, il valore, diventa pienamente ex opera operato e non c’è più traccia di altro: persone, comunità. Ma c’è anche altro, il capitalismo include una particolare etica del merito e ideale di perfezione. È un’utopia di società perfetta, come tale fu visto ai suoi albori dai moralisti settecenteschi, e per ciò una cultura della colpa.

Poiché, come insegnava Polanyi[10], il “dono” insieme alla “gerarchia” erano gli ordinatori della società pre-capitalista, e sono rispettivamente uccisi e nascosti dallo spirito del capitalismo. La trasformazione del valore conduce il capitalismo ad essere essenzialmente gerarchia senza dono, ovvero senza impegno reciproco. La particolare logica sacrificale della quale la Teologia della Liberazione non cessa di parlarci è a senso unico. Non si sente mai in debito e quindi tradisce sempre.

In altri termini, il predominio inesorabile e vorace del profitto promette evangelicamente felicità e piacere, ma nasconde un sacrificalismo spietato travestito da promessa.

Tramite questi meccanismi, messi in luce da Marx, la vita pratica, comune, ed anche a livello simbolico, viene determinata dal capitale. “Determinazione” si legge qui, con Hegel, come negazione. Ovvero come esclusione di ciò in cui non si potrebbe determinare e negazione dei suoi potenziali altri. E ciò in cui la vita (vitalità e natura) viene, appunto, determinata è il “valore” come oggettivazione del lavoro. Natura e vitalità che nell’umano sono, per Marx, sempre comunitarie. Ovvero non sono date dall’accordo tra individui che esistono in modo antecedente ed indipendente, ma dall’essere-insieme che produce secondo una volontà comune che è in ricambio organico con la natura[11]. Si tratta di temi pietistici che gli arrivano via Hegel e che compaiono nel primo Marx per non più abbandonarlo[12].

Però bisogna capirsi: il capitale non è il denaro. In un certo senso, anzi, ne è la negazione (qui il paradosso, spesso rilevato, del continuo movimento di patrimoni enormi, che basterebbero per generazioni); si deve sempre trasferire in lavoro (“morto” e “vivo”), per ripresentarsi (determinandosi) come merce. Ma la merce è solo potenziale, essa stessa deve realizzarsi nella circolazione (il pluslavoro in plusvalore e quindi profitto). È un grande processo, un turbinio distruttore, nel quale da una parte si determina un ‘essere’, il valore, e dall’altro un ‘non essere’, la vita. Tuttavia, è dal ‘non essere’, tuttavia ‘reale’, che scaturisce tutto. Il valore quindi crea dal nulla. Ma il nulla del capitale, in questo rovesciamento di Hegel a partire da Schelling, è in effetti l’autentica soggettività e ciò che produce il ‘valore’. Sono le vite esterne, le porzioni ancora esterne delle nostre vite, ad essere ciò a partire dal quale si può dare ancora ‘valore’. Il sangue che può ancora essere estratto dal vampiro.

Ciò che accade è perciò la messa dentro (del circuito di valorizzazione) di ciò che è fuori. Dell’essere dal non essere[13]. Determinandolo al fine come “lavoro morto”. Per questo la critica della totalità del movimento del capitale, di Marx, è condotta a partire dalla sua esteriorità[14]. Da ciò che non ha prezzo.

Ciò che fa è trasformare la persona in strumento di valorizzazione, quindi in cosa, e la cosa in una nuova e ‘persona’ (il capitale stesso)[15].

Se si sposta tale tema sul piano del concatenamento dei capitali mondiali compare il tema della ‘Teoria della dipendenza”. Perché ciò che determina la crescita del capitale è proprio il trasferimento del valore a partire da ciò che nel mercato è ancora escluso (o sotto-valorizzato). E ciò avviene nel circolo tra produzione e consumo, ovvero distribuzione e realizzazione. Come scrive Marx nei Grundisse, la struttura della distribuzione è internamente determinata dalla struttura della produzione, e ciò va necessariamente e sempre visto a livello del sistema-mondo (al quale, solo, si chiudono gli anelli di valorizzazione nel tempo). “Se si considerano intere società, la distribuzione sembra ancora per un altro aspetto precedere e determinare la produzione; per così dire, come fatto pre-economico”[16]. Come scrive “produzione, distribuzione, scambio, consumo sono tutti momenti di una totalità”[17], denaro, capitale costante, capitale variabile, mezzo di produzione, lavoro, plusvalore, tempo necessario, prodotto, merce, sono in questa totalità determinazioni del ‘valore’.

E sempre, su un altro piano, vita umana (e natura) oggettivata.


[1] – Enrique Dussel, Marx e la modernità, Castelvecchi, Roma, 2024, p. 18.

[2] – Karl Marx, Il capitale. Vol. I, Editori Riuniti, Roma, 1980, (da ultimo 1890), p.267.

[3] – Ivi, p. 268.

[4] – Antonio Martone, “Il capitalismo perde il ‘pelo moderno’ ma non il vizio”, L’Interferenza, 2 aprile 2024 (www.linterferenza.info).

[5] – Questo è il tema centrale del lavoro di Karl Polanyi.

[6] – Enrique Dussel, op.cit., p. 49

[7] – Cfr. ad esempio, Gustavo Gutierrez, Teologia della liberazione, Editrice Queriniana, Brescia, 2012 (ed or. 1971), p.38.

[8] – Alessandro Visalli, Classe e partito. Ridare corpo al fantasma del collettivo, Meltemi, Milano, 2023, p. 104

[9] – Dando risposta alle stesse domande e radicandosi negli stessi tormenti ai quali dà risposta la religione.

[10] – Si veda, ad esempio, Karl Polanyi, La sussistenza dell’uomo. Il ruolo dell’economia nelle società antiche, Mimesis Edizioni, Sesto San Giovanni, 2020.

[11] – Cfr. l’interessante interpretazione di Kohei Saito, L’ecosocialismo di Karl Marx, Castelvecchi, Roma 2023.

[12] – Cfr. Enrique Dussel, Le metafore teologiche di Marx, Schibboleth edizioni, Roma, 2018, p. 72

[13] – Dussel, Marx e la modernità, op.cit., p. 85

[14] – Ivi, p. 113

[15] – Ivi, p. 129

[16]– Karl Marx, Lineamenti fondamentali di critica dell’economia politica, Einaudi, Torino, 1976 (1857-58), cit. in Dussel, op.cit., p. 66.

[17] – Marx, Ivi, p. 23.

3 commenti per “Enrique Dussel, “Marx e la modernità”

  1. armando
    8 Aprile 2024 at 22:03

    Credo si possa affermare che il “marxismo” ufficiale abbia in certo senso “tradito” il ” miglior ” Marx,, quello dei Manoscritti e quello dell’ultima fase della sua vita, quando ripenso’ lo schema rigido del susseguirsi necessario dei modi di produzione, e si spinse fino a rivalutare le antiche comunità rurali russe (OBSCINE), riconsiderarando in positivo i suoi rapporti coi “socialisti rivoluzionari”, ipotizzando la possibilità ,facendo leva appunto su quelle comunità, di un passaggio al comunismo “senza passare dalle forche caudine del capitalismo”. Voglio dire che c’è stato anche un Marx antimoderno, da cui un filone di pensiero che, su http://www.ilcovile.it, abbiamo definito “marxisti antimoderni”.;

    • Panda
      10 Aprile 2024 at 0:19

      In linea di principio sono d’accordo, ma non definirei l’evoluzione di Marx come “antimoderna”: in fondo l’idea di potersi trarre fuori dalla propria methexis storica è essa stessa molto moderna e del tutto illusoria. Più nel particolare, i “populisti” russi (l’etichetta fu inventata da Plekhanov con scopi denigratori ma loro la rifiutavano) sono stati un fenomeno moderno, imbevuto di cultura europea, come Venturi ha ampiamente dimostrato. Parlerei di una maggior profondità di riflessione storico-filosofica, meno subordinata a uno schema progressista-utopistico, ma la rivendicazione stessa della riflessione, e della democrazia, è moderna, non vedo modo di girarci attorno.

  2. L.Puddu
    10 Aprile 2024 at 6:40

    La TdL andrebbe letta dal punto di vista dell’eterogenesi dei fini. Il caso Leonardo Boff è emblematico.

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