Achille Mbembe e la piantagione

Guardare il mondo dall’Africa significa osservare l’Occidente da un altro punto di vista. Decentrare lo sguardo cognitivo ed emotivo è  esperienza veritativa. La verità non giunge con un colpo di pistola, improvvisa ed intuitiva, la verità è mediazione, terra di conquista che si offre al ricercatore disponibile a guardare diversamente, a metter tra parentesi l’appartenenza, per inoltrarsi in nuove territorializzazioni teoriche. Con il filosofo Achille Mbembe[1] è possibile conoscere l’Occidente dall’Africa che smette, in tal maniera, i panni del continente povero per essere opportunità per capire la verità storica dell’Occidente, la sua perenne illusione di essere il luogo dell’emancipazione. L’analisi storica di A. Mbembe ci guida a decodificare le strutture comportamentali occidentali e la loro trasmissione. Dai mali dell’Occidente non ci si libera con la fine materiale della colonizzazione; non ci si emancipa con la semplice liberazione formale. L’emancipazione reale è collettiva e necessita di concettualizzare il passato per aprirsi al futuro. Il passato ritorna in forme nuove, ma con la stessa sostanza, con le stesse gabbie  invisibili,  che si riproducono in forma diversa. La critica dev’essere radicale, essa deve svolgere uno scavo archeologico delle stratificazioni concettuali che ci determinano e ci parlano. Senza tale “lavoro dello spirito” nessuna liberazione è possibile. I sussunti nella storia sono parlati dai colonizzatori e dominatori. Non è sufficiente, dunque, la liberazione materiale, essa è solo l’inizio dell’emancipazione.  I colonizzati hanno subito la violenza della piantagione, metafora e verità della pratica politica dell’Occidente. Nella piantagione i colonizzati sono oggetto del potere, la loro soggettività appartiene ai padroni, pertanto si autopercepiscono secondo l’immagine dei colonizzatori. Il padrone è il dio in terra che plasma le sue vittime, è il carnefice che in modo vampiresco priva i sussunti della loro autonomia politica e rielaborativa. La piantagione non consente alla  violenza subita di trasformarsi in consapevolezza, anzi l’assenza della mediazione razionale porta ad un’ultima e terribile vittoria, i colonizzati  ragionano come i carnefici. La piantagione è uno spazio in cui la crescita è impossibile, ogni relazione è attraversata dall’oggettualità della violenza, nella piantagione non ci sono soggetti, ma solo oggetti che imparano a relazionarsi secondo modalità oggettuali. Il confine della piantagione disegna l’antiumanesimo dell’Occidente, il suo radicarsi nelle coscienze e nella storia dei colonizzati. La storia del post-colonialismo insegna che i popoli liberati, in realtà sono mimetici, ripetono la violenza dai colonizzatori, al punto da non essere capaci di pensare e vivere secondo modelli altri:

Haiti e la Liberia avevano in comune il fatto di essere entrambe delle repubbliche uscite direttamente dall’esperienza della piantagione. Il processo di emancipazione di cui divennero simbolo nella coscienza nera era segnato da una tara originaria. Aveva conservato, al proprio interno, quel qualcosa di oggettuale che aveva sempre caratterizzato l’esistenza sotto il regime della piantagione. Da qui, ad esempio. il pessimismo riguardo la possibilità di una vita democratica di cui ritroviamo i segni anche in Blyden. Queste due esperienze fallirono perché erano ossessionate e persino abitate dallo spirito della piantagione, che non smise di essere attivo al loro interno come qualcosa di morto, come un osso: duplicazione e ripetizione, ma senza differenza[2]”.

Piantagione-banlieu                                                                                                                          

Le esperienze democratiche falliscono, perché i popoli contaminati dalla violenza diventano il corpo infetto veicolo di relazioni di potere errate e dunque non possono concepire, non credono nella libertà, perché non l’hanno conosciuta, né pensata e specialmente da sempre oggetto nelle relazioni non giudicano reale che possano essere artefici della loro storia. Le strutture restano, si radicano, malgrado a livello fenomenico la storia muti. Le categorie mentali viaggiano con gli esseri umani, ecco che la piantagione ricompare in modo meno netto nelle città dell’Occidente. Le banlieu parigine, le periferie delle città europee riproducono la piantagione, il confinamento degli ultimi in spazi dai quali non possono uscire mentalmente, dove si riproduce la gerarchia razziale apparentemente volatilizzata, ma in realtà viva nel quotidiano di ciascuno:

Oggi, la piantagione e la colonia si sono spostate e si sono impiantate proprio qui, fuori delle mura della città (nella banlieu). Questo spostamento rende più complicato di quanto non fosse in passato la definizione della linea di demarcazione tra il dentro e il fuori e provoca, per altro, una messa in discussione dei criteri di appartenenza, “ dato che non è più sufficiente essere cittadini francesi per venir considerati a tutti gli effetti francesi ed europei, e trattati come tali[3]”.

Stando così le cose, il prossimo e il lontano, esattamente come la colonizzazione, il mondo che essa ha creato e quel che viene dopo si intrecciano.(..) L’impotenza della Francia a pensare la postcolonia si spiega proprio con la reticenza a trasformare questo passato comune in storia condivisa”.

Pensare il passato

La Francia, simbolo dell’Occidente, non ha pensato il proprio passato, per cui riproduce la logica della piantagione nelle proprie città e nelle relazioni internazionali. L’emancipazione esige una lunga operazione di archeologia dei saperi per liberarsi dalle gabbie d’acciaio invisibili, tale processo non può essere svolto dall’Occidente. L’Africa, invece, ha le potenzialità per rileggere la storia, estrarne la verità occultata dallo scollamento tra presente e passato operativo in Occidente, ed avviare un’autentica rivoluzione. Il primo passo, affinché ciò possa essere, deve portare gli africani a liberarsi dalle categorie con cui gli occidentali leggono la storia, per cominciare a far emergere il mondo silenzioso delle differenze e delle comunità in cammino negate dalla lettura ideologica occidentale:

Ora, i nazionalismi africani hanno ripreso, in maniera mimetica, due elementi centrali dell’ideologia coloniale e razzista: hanno aderito all’idea, diffusa per tutto l’Ottocento, che la colonizzazione fosse un processo di conquista, di asservimento e di”civilizzazione” di una razza ad opera dell’altra. Del resto, la maggior parte dei movimenti armati che ha combattuto per l’indipendenza dell’Africa ha interiorizzato la favola secondo cui la storia stessa era riconducibile ad uno scontro tra le razze[4]”.

Universale concreto

L’Africa può diventare motore della liberazione globale, poiché la logica della piantagione con l’economicismo della globalizzazione si è estesa all’intero pianeta. E’ necessario ripensare l’universale, non più l’astratto universale della cultura europea, ideologico ed organico agli interessi di una parte, ma l’universale concreto, in cui la comune umanità concretamente vive nelle differenze e nella abbondanza delle forme della soggettività. L’Africa ha subìto la violenza dell’economicismo, l’Africa può pensare la violenza, passare per l’esperienza della morte per testimoniare la liberazione, la riconciliazione delle comunità affrancate dai fantasmi del passato. Non più continente perennemente vittima, ma nuovo soggetto che testimonia un nuovo umanesimo plurale

Dall’altra parte, per aver trascurato l’importanza di queste riflessioni venute da altrove (e che, ciononostante, si ispiravano al contributo della filosofia), la Francia si è spesso trovata nell’incapacità di approfondire la sua riflessione sui rapporti tra la memoria e la nazione. Ad esempio, come non vedere che la piantagione e la colonia costituiscono al contempo luoghi della memoria e dei luoghi testimoniali? Qui, forse, più che altrove, si mette alla prova ciò in cui consiste il tentativo di diventare soggetti, o ancora, di prendersi cura di sé (autosoggettivizzazione). Come non vedere che la piantagione e la colonia rifiutano radicalmente l’ipotesi di appartenenza di una umanità comune, fondamento dell’idea repubblicana?

Dietro la maschera dell’umanesimo e dell’universalismo, i colonizzati non scoprono solamente un soggetto quasi sempre sordo e cieco. Si tratta, soprattutto, di un soggetto segnato della propria morte via quella degli altri. Si tratta, ancora, di un soggetto ai cui occhi il diritto non ha praticamente nulla a che fare con la giustizia; è invece un certo modo di provocare la guerra, di gestirla e di renderla perenne. Si tratta, infine, di un soggetto per il quale la ricchezza è soprattutto un mezzo per esercitare il diritto di vita e di morte sugli altri, come diremo più avanti.

Dunque, ormai sappiamo che in parte la retorica dell’umanesimo e dell’universalismo è stato spesso utilizzata come paravento per la forza, una forza incapace di ascoltare e trasformarsi[5]”.

Smascherare la logica bellicosa dei diritti umani, dietro i quali si cela il paradigma ipostatizzato dell’uomo bianco che vuole imporre, in nome di una verità non condivisa, l’ateismo dell’economicismo. In tal modo l’Africa è mutilata della sua capacità rielaborativa e creativa. Ad essa è impedito di sviluppare la via africana allo sviluppo che può felicemente divergere dalla logica proprietaria e crematistica dell’Occidente. La comunità potrebbe essere la via nuova per lo sviluppo identitario dell’Africa, la quale è unità nella pluralità di storie, geografie e culture che il capitalismo ha imbavagliato e neutralizzato. L’Africa ha l’opportunità di sciogliere le violenze del passato con la liberazione degli assediati e degli assedianti, essa può liberarci dallo spettro del totalitarismo neoliberista, mostrandoci la vera pluralità del pensiero e delle pratiche sociali. L’Occidente ha bisogno dell’Africa,  ma il capitalismo nella sua forma “assoluta” con la migrazione  la svuota per renderla terra di conquista e in questa corsa sono coinvolte Russia e Cina. L’Africa è privata della sua gioventù, si mette in atto un doppio sfruttamento. Gli africani sono negati e sfruttati in occidente e nella loro terra d’origine:

Il riconoscimento delle differenze non è per niente incompatibile con il principio di una società democratica. Un simile riconoscimento non significa neppure che la società funzioni ormai priva di idee e credenze comuni. Infatti, questo riconoscimento costituisce un presupposto affinché queste idee e queste credenze siano veramente condivise. Dopo tutto, la democrazia significa anche la possibilità di identificazione con l’altro. Senza questa possibilità di identificazione la Repubblica è inoperosa. Peraltro, il processo di soggettivazione, che abbiamo detto  essere pienamente partecipe del divenir-cittadino, passa anche attraverso particolarismi liberamente rivendicati[6]”.

Democrazia e differenza

Liquefare i confini sclerotizzati dall’economicismo non può che portare coloro che sono stati oggetto di un’azione di confinamento e sfruttamento a mostrare la verità della loro soggettività per insegnare ad accogliere la  differenza, lo straniero.  La soggettività deve ritrovarsi nell’universale concreto, ma ciò può materializzarsi con un lungo e comunitario lavoro di archeologia dei saperi, delle estetiche e  delle politiche economiche:

Molto presto però ci si accorse che la rigenerazione di un soggetto dotato di un viso, di una voce e di un nome proprio non era semplicemente  un obiettivo  pratico-politico. Presupponeva un enorme lavoro epistemologico e perfino estetico. Si pensava che per liberarsi una volta per tutte  dall’alienazione coloniale e per curarsi le ferite inflitte dalla legge della razza fosse necessario conoscere se stessi.

La conoscenza di sé e la rinnovata cura di sé diventavano, da quel momento, le condizioni preliminari per staccarsi dagli schemi mentali, dai discorsi e dalle rappresentazioni che l’Occidente aveva utilizzato per fare man bassa dell’idea del futuro[7]”.

Le sorti della democrazia sono nelle mani dell’Africa, se riuscirà ad uscire dalla lunga notte delle dipendenze e dell’accettazione della violenza come fosse l’unica modalità espressiva della storia umana, riuscirà a difendere le sorti della democrazia di tutti. Il grande scoglio contro cui rischia di infrangersi la dolorosa esperienza africana è la riproduzione dello logiche occidentali. I padroni vincono, perché inoculano nei subalterni le loro insidiose grammatiche e annichiliscono la possibilità di pensare forme grammaticali di vita differenti. La Rivoluzione è nell’esodo dalla forma mentis economicistica occidentale:

“Terza conclusione: come a partire dall’Ottocento la sorte della democrazia si è giocata intorno alla figura dell’individuo dotato di diritti indipendentemente da qualità quali lo statuto sociale, così la democrazia a venire dipenderà dalla risposta che daremo alla questione di sapere chi è il mio prossimo, come trattare il nemico e cosa fare dello straniero[8]”.

L’Africa può donare la  creatività, la forza plastica per innovare e trascendere l’economicismo, ma non saranno gli europei a salvarla, solo gli africani possono  rinunciare alla piantagione per essere veicolo di libertà. L’esperienza del negativo dev’essere esperienza collettiva, senza di essa l’Africa continuerà a dipendere dai vecchi e dai nuovi padroni come l’esperienza degli ultimi decenni dimostra. La liberazione dev’essere degli africani e non può che avvenire con un razionale distacco dall’universale astratto dell’occidente, altrimenti continueranno ad essere “la copia”  dell’occidente ed a ripeterne gli errori e gli orrori in una condizione si sottomissione:

La borghesia occidentale ha drizzato sufficienti barriere e parapetti per non temere realmente la competizione di coloro che essa sfrutta e disprezza. Il razzismo borghese occidentale nei riguardi del negro e del bicot è un razzismo di disprezzo; è un razzismo che minimizza. Ma l’ideologia borghese, che è proclamazione di uguaglianza tra gli uomini, trova il modo di restar logica con se stessa invitando i sottouomini ad umanizzarsi attraverso il tipo di umanità che essa incarna[9]”.

L’emancipazione degli africani avverrà quando l’ideologia dell’uguaglianza, dell’assimilazione inclusiva nel mercato dello sfruttamento, sarà valutata non come opportunità, ma come neocolonialismo che vuole perpetuare il dolore dei dominati ed il loro silenzio: la piantagione è la verità nascosta dell’universale astratto.


[1]Achille Mbembe (Camerun, 27 luglio1957) è un filosofo, africanista e storicocamerunese, considerato uno dei più importanti teorici viventi del postcolonialismo.

[2] Achille Mbembe Emergere dalla lunga notte Meltemi Milano 2018 pag.

[3] Ibidem pp. 134 135

[4] Ibidem pag. 272

[5] Ibidem pag. 152

[6] Ibidem pag. 157

[7] Ibidem pag. 94

[8] Ibidem pag. 158

[9]FrantzFanon, I dannati della terra,  Einaudi, Torino 2007, pag.  105

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