Pier Paolo Pasolini, 40 anni dopo

Morte dell’intellettuale organico e anarchia del potere.

Sono trascorsi 40 anni dalla morte di Pier Paolo Pasolini ma la sua figura esemplare e controversa, non smette di dialogare con noi, con il nostro critico e triste presente, non smette di interrogare i nostri tempi alla ricerca di quella “lucida” poesia in grado di scuotere le coscienze e riattivare un’alternativa – almeno riflessiva – alla fase attuale.
Sulla sua morte si è scritto tanto. Libri, film, documentari sono stati realizzati per tentare di dare luce alla sua misteriosa scomparsa. Ma a noi non deve interessare il Pasolini morto, “quella specie de cadavere lunghissimo”, parafrasando un bellissimo spettacolo teatrale di Fabrizio Gifuni, bensì ciò che ci ha lasciato in eredità, ciò che ha saputo con forza e coraggio mostrarci, facendoci entrare fin nelle più tenebre e infernali profondità dell’uomo e del sistema politico ed economico che lo governa.
A mio avviso, se vogliamo rintracciare una testimonianza viva della sua attualità poetica e letteraria, dobbiamo riprendere in mano il suo ultimo film, quello forse più odiato e vituperato, ovvero Salò o le 120 giornate di Sodoma.
Li, piuttosto che nella sua sterminata e ricchissima produzione poetica – basti pensare alle “Ceneri di Gramsci”, si coglie, come scrissi già in un articolo su Pasolini (1), l’amara constatazione della fine di un modello di sviluppo, l’esaurirsi di una forma d’intellettuale, l’annichilirsi di un complesso e seppur limitante e contradittorio progetto pedagogico iniziato all’indomani della liberazione dal nazi-fascismo e con l’imporsi di una democrazia imperfetta che aveva bisogno della cultura e di una nuova alfabetizzazione di massa.
Un’utopia questa, che per tutti i trenta gloriosi (1945-1975), segnò la nascita e l’evoluzione della cultura politica italiana d’opposizione (basti pensare a personaggi come Vittorini, Calvino, Morante, Pavese, Cassola, ecc.) e che rappresentò per Pasolini stesso, oltre che un preciso impegno, una necessità politica e sociale. E’ impossibile qui entrare nella complessità di questo progetto e del ruolo che il PCI ha avuto in esso e nella sua diffusione e realizzazione ideologica (2). Ma quel che è certo è che tale era il progetto e cioè quello di educare “ai valori democratici” e costituzionali (con tutte le dovute critiche e limiti identificati dal pensiero marxista alla democrazia e al liberalismo borghesi) le masse urbane e contadine, uscite distrutte e dilaniate, moralmente e culturalmente, dalla guerra e da vent’anni di regime fascista.
Inscritto in questo processo vi era inoltre la ricollocazione storica della figura dell’intellettuale organico, concetto di derivazione gramsciana, e della sua reale possibilità di svolgere ancora una funzione progressiva all’interno di un partito, come quello comunista, già all’epoca, in profonda e rapida trasformazione, da partito di quadri rivoluzionari (Gramsci) a partito elettorale di massa, democratico-borghese imposto da Togliatti e dall’Internazionale comunista a guida staliniana fin dal 1943-1944.
In tale senso, al di là dei teorici di partito e degli ideologi del culto “marxiano”, gli intellettuali “critici” civettavano si nell’alveo del partito ma come figure e coscienze indipendenti (basti pensare alla creatività eclettica e spudorata di Guttuso e alla libertà narrativa di Calvino), capaci nei momenti di forte tensione morale di lasciare addirittura il partito, e con esso, tutto il portato di storie, amicizie e scelte di vita. Ciò significò dire per Pasolini, come per altri, essere organici non al Partito, al suo apparato e alle sue politiche, ma essere organici alla realtà, ai processi esistenziali e psicologici in atto, alle mutazioni antropologiche che il ritrovato benessere e la “pax democratica” (mai veramente tale) imponevano alle masse e al “popolo”, fin dall’immediato dopoguerra. Analizzare dunque i fatti e da essi trarre spunto per narrare le profonde e spesso irreversibili trasformazioni in atto, divenne l’obiettivo di molti intellettuali dell’epoca, compreso lo stesso Pasolini. Non solo; il poeta friulano, sceso a Roma, scoprì un mondo fatto di silenzi e musica, di ombre e innocenza che poteva (forse) rappresentare quell’umanità non ancora assorbita, quella passione di vivere al di là di tutto e nonostante tutto, quell’eros inesauribile del sottoproletariato delle borgate e del paleo-capitalismo contro cui il thanatos della civiltà dei consumi e della massificazione iper-capitalistica delle coscienze e dei gesti, così come delle parole, tentava incessantemente e razionalisticamente di imporsi.
La sua era una battaglia umanistica, di “resistenza” spesso idealistica e ingenua (come ebbe a dire in una famosa polemica Italo Calvino), di lottare affinché la poetica e lirica “sopravvivenza degli ultimi” potesse riattivare una nuova egemonia culturale, ripristinare i veri e “sacri” valori dell’eguaglianza e del rispetto, della libertà e della crescita, a dispetto dell’aridità del consumo culturale allora, ed ancor oggi, egemone e dell’intellettuale come aedo di tutto questo, come il cantore-testimone non solo di una resistenza ma di una nuova e più ampia valorizzazione di ciò che non muore e che non può morire perché vive e anima l’essenza più autentica del popolo. La sua, se vogliamo parafrasare Bloch, era una lucida sebbene disperata utopia concreta, quel famoso “sogno di una cosa”, che fin da Marx, ossessiona e appassiona milioni di militanti e scrittori di sinistra di tutto il mondo.
Tutto questo “muore” con Salò. Mentre ancora in Teorema e nelle su ricordate “Ceneri di Gramsci”, vi era ancora la tenue speranza di una rivoluzione culturale e di una politica all’altezza del compito immane di educare gli italiani al civismo e al rispetto delle regole e delle prerogative costituzionali ma ancor più alla libertà di critica e dissenso, alla crescita onnilaterale dell’individuo come “uomo onnilaterale”, la speranza cioè nel sottrarsi del sottoproletariato al “dominio” egemonico borghese rivendicando un suo orgoglio, un suo “mitico” passato, una “forza tradizionale” de-feticizzante e dis-alienante (3) capace di ricostruire un soggetto critico, autenticamente culturale in quanto autenticamente politico, rappresentante di tutti i più veri e vivi valori dell’umanità oppressa.
In Salò c’è la drammatica presa d’atto non solo della totale sussunzione del sottoproletariato e del “popolo”, alle leggi e ai valori dominanti, e in sé totalitari, del consumismo di massa, che vedevano come il modello di benessere e di integrazione alla società da imitare e a cui aspirare (4), ma il tragico, patetico fallimento del progetto politico inaugurato nel 1945 di “educare” il popolo ai valori della resistenza e della costituzione, e con esso, il ruolo e la funzione critica e progressiva dell’intellettuale come guida e compagno di viaggio di tale soggettività. Il soggetto si è ormai irrimediabilmente distaccato dal suo “profeta” e dai partiti che avevano l’ambizione di rappresentarne gli interessi e le battaglie. La crisi conseguente del “marxismo ” e l’audace, machiavellica politica del compromesso storico fecero il resto, consegnando il paese in mano al populismo craxiano, berlusconiano e infine renziano.
Nel circo infernale del boudoir sadiano, nell’abbrutimento e nella vergogna di servi e padroni, non vi è più neanche la rivendicazione di una dialettica “progressiva”, per così dire hegeliana, tra sottomesso e dominatore. La Herrschaft (la signoria) borghese non è più “illuminata”, non porta con sé la consapevolezza di essere storicamente ed economicamente dipendente del proprio servitore, non coglie più la necessità di organizzare\gestire il dissenso, di cooptare la critica, di arginare la protesta, annichilire il rivoluzionario (che si auto annichilisce da solo), ma si dispiega come anarchico insuperabile irrimediabile potere su tutto e tutti, cieco e incosciente strumento di una brutalità quotidiana che vanifica e nullifica ciò che solamente tenta di alzare lo sguardo sul mondo per capirlo e trasformarlo.
Nell’efferata eleganza dell’orrore, nell’annientamento dei corpi e delle parole, vi è la fine di un movimento epocale e di un soggetto antropologico che si riconosceva, lottava per una comunità storica alternativa; ciò che rimane, vivo ed inalterato, è il potere. E’ lui, l’unico soggetto che rimane attivo, pronto sempre a cambiare, ad usure il bastone o la carota quando è necessario ai suoi scopi.
Nella ridda oscena dei banchetti a base di escrementi e di ingiustificate, feroci punizioni corporali, nella a-civile ignominia, nella consapevole disumanità a cui tende l’anarchia di chi ha e detiene il potere, emerge la drammatica, crudele, tragicomica, grottesca presa d’atto che l’unico soggetto presente, vivo ed attivo, mutevole e “rivoluzionario” alla bisogna (che rimane però sempre tale nei suoi progetti e negli interessi di fondo), è il potere stesso, senza volto né nome, senza storia né futuro, ma che si esercita e si spiega in tutta la sua ferocia (palese ed occulta) qui ed ora, con la sua nichilistica brutalità senza alcuna possibilità di risveglio né ribellione. Il partigiano catturato e torturato, alza il pugno, a mò di sprezzante ed orgogliosa sfida; viene fucilato senza pietà. I ragazzi prelevati a forza dalle loro case utilizzati come brandelli di carne da stuzzicare, manichini da abbellire o disgraziare, alla totale mercé di chi possiede il potere e lo utilizza, non esclusivamente a proprio vantaggio o per il proprio piacere, ma per far capire chi comanda a chi deve obbedire, decretando una gerarchia di ruoli e funzioni, neo elité autocratiche senza intermediari, una sfera geo-politica rigidamente classista (altro che società aperta) tendente – diremmo oggi – ad una nuova egemonia su scala mondiale.
Mai come oggi, nel deserto di soggettività critiche ed alternative in cui siamo immersi, la lezione pasoliniana di un potere anarcoide senza volto né nome, ma che si imprime sulle vite quotidiane degli uomini con la sua pingue e crudele “naturalità”, dato di fatto inestinguibile ed insuperabile, che spazza via tutto senza pietà, senza lasciare traccia né testimonianza del “possibile”, di una utopia concreta, di un sogno di una cosa, resta un dato inequivocabile della disumanità dei nostri tempi e di come un potere così anti democratico e neo elitario possa nascondersi e proliferare perfino dietro le insegne della democrazia e dell’eguaglianza, dimenticandoci sempre che i anche i fascismi salirono al potere con libere elezioni.

1 Rimando al mio articolo Pasolini-Gramsci: crisi e declino dell’intellettuale organico, apparso su Critica impura
https://www.google.it/url?sa=t&rct=j&q=&esrc=s&source=web&cd=3&cad=rja&uact=8&ved=0CCsQFjACahUKEwjry9-Q7s7IAhXCVxoKHfo4Bow&url=https%3A%2F%2Fcriticaimpura.wordpress.com%2F2012%2F04%2F17%2Fpasolini-gramsci-crisi-e-declino-dellintellettuale-organico%2F&usg=AFQjCNF4VPyi4W0Xh34U955j19TAHY3tkw&sig2=LtzxF1NZgEkUlXJJinenlw

2 Rinvio al bel libro di Nello Ajello, Intellettuali e PCI, Laterza editore, Bari 1979

3 Qui però Pasolini confonde quello che Marx chiamava il socialismo medioevale, il “sogno” di una comunità organico-tradizionale sottratta alle derive egemoniche del capitale con la lotta per il socialismo che nasce proprio dalla presa d’atto della scomparsa di tale contesto paleo-capitalistico per costruire sulle sue macerie il passaggio alla società senza classi.

4 Lo stesso Pasolini scrisse negli ultimi anni della sua vita e negli scritti corsari, che i giovani erano stati non solo espropriati – dall’egemonia dominante – della capacità di comprendere a fondo i fenomeni che erano chiamati a vivere ma che erano talmente ormai assuefatti al consumismo e alle icone che esso porta con sé, che era difficile distinguere i ragazzi di sinistra da quelli di destra; qui forse Pasolini cede all’idealismo; le differenze anche fisiche e di costume c’erano eccome. Altra cosa fu l’acculturazione portata avanti dalla società borghese-industriale nei confronti del sottoproletariato, che lo rese passivo e complice – altro che rivoluzionario (sebbene sporadici episodi di disperata lotta armata) – della trasformazione totalizzante della società capitalistica italiana.

5 Una crisi inaugurata già nel biennio ‘73-‘74 da Lucio Colletti e ratificata nel ’76 da alcuni suoi famosi articoli su L’espresso e certificata anche da un intellettuale “organico” come Asor Rosa nel suo libro “Le due società” del 1977.

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