Carlo Formenti è attualmente l’unico intellettuale marxista pubblicamente, politicamente, mediaticamente e accademicamente riconosciuto – prima di lui soltanto Costanzo Preve, che però non era un accademico, la qual cosa va a suo merito, arrivò a tanto – che osa portare una critica, sia pur parziale (altrimenti verrebbe espulso con disonore da quel mondo politico, mediatico e accademico di cui pure fa parte, anche se da una posizione critica e minoritaria) al femminismo (a parte, naturalmente, il sottoscritto e pochissimi altri “brutti, sporchi e kattivi” raccolti attorno a questo giornale, che ovviamente non fanno parte di quel mondo accademico, mediatico e politico dal quale non vengono neanche presi in considerazione e quando ciò avviene è per essere esecrati o bollati come elementi spregevoli, da tenere alla larga come si fa con gli appestati).
E’ già qualcosa, forse anche molto, dato il contesto e lo “spirito dei tempi”, anche se un pizzico di audacia in più non guasterebbe. Ciò non scalfisce la stima che nutro nei suoi confronti e la critica che complessivamente egli porta nei confronti dell’ideologia politicamente corretta (non poteva, dunque, non occuparsi del femminismo, che di quell’ideologia è parte fondamentale) va comunque salutata positivamente.
Segnalo, dunque, nel merito, questo suo articolo (che invito caldamente a leggere, anche se lungo, anche per comprendere le critiche che gli muovo) dal titolo molto esplicativo e significativo, “Contro il femminismo di regime”.
Per essere quanto più possibile sintetici (l’articolo di Formenti è già lungo, e non voglio tediare i lettori), vado subito al nocciolo della questione.
Formenti, che è persona seria, per convinzione o per opportunità politica (ho scritto opportunità, non opportunismo…) o per entrambe le cose (questo lo sa solo lui…) compie una operazione, a mio modesto parere, abbastanza scontata. E cioè, per la necessità politica (che io ovviamente non condivido) di salvare il salvabile, opera la solita separazione tra femminismo “buono” e femminismo “cattivo”. Chi di noi si occupa di questi temi da un bel po’ di tempo (forse prima di lui), e non solo dal punto di vista teorico ma soprattutto da quello pratico, molto pratico (cioè gli effetti concreti del femminismo sulla vita degli uomini, pensiamo ad esempio alla condizione disumana di una gran parte dei padri separati, vera e propria carne da macello sacrificabile e di fatto sacrificata…) sa che questa distinzione è completamente priva di senso.
Tutti i femminismi sono infatti caratterizzati da un unico minimo comune denominatore che è la criminalizzazione del genere maschile tout court, anche e soprattutto quello che Formenti definisce come “anticapitalista” – per distinguerlo da quello “borghese” ed “emancipazionista” che sarebbe appunto quello di “regime” (quindi quello maggioritario e dominante…) – che oggi in Italia si incarnerebbe nel movimento “Non una di meno”, il cui programma “contro la violenza maschile” (che volutamente non linko…) è una sorta di progetto “orwelliano” (per non dire di peggio) di “femministizzazione” integrale della società. In quel programma si parla appunto di “violenza maschile” (non è neanche contemplata l’idea che possa esistere anche una violenza agita dalle donne, contro gli uomini e contro i minori) perché la tesi è che l’attuale società capitalista sia ancora dominata dalla cultura patriarcale e maschilista che pervade ogni spazio, materiale e immateriale, e quindi la violenza subita dalle donne non è episodica (per quanto numerosi possano essere i casi di violenza) ma sistematica, data dal fatto che i maschi, in quanto tali, si troverebbero in una condizione di dominio e di privilegio all’interno della società capitalista-maschilista-patriarcale (invito Formenti a leggere il programma di “Non una di meno” che la lista Potere al Popolo ha sposato in toto).
Ora, questa tesi, ribadita con forza in quel documento – il fatto cioè che i maschi, in quanto tali siano in una condizione di privilegio e di dominio all’interno dell’attuale società capitalista – oltre ad essere a dir poco priva di ogni fondamento (mi trovo ogni volta costretto a ripetere le infinite situazioni di discriminazione e di sofferenza subite dalla gran parte dei maschi, che muoiono in pressochè esclusiva sul lavoro, che svolgono i lavori più pesanti, usuranti e mortali, che vanno in pensione 5 anni più tardi e hanno una aspettativa di vita di 5 anni minore rispetto alle donne, che costituiscono il 100% dei suicidi per perdita del lavoro, il 95% della popolazione carceraria, il 90% dei senza casa, dei marginali, dei ricoverati alla Caritas, la maggioranza degli abbandoni alla scuola primaria e tanto, tanto altro ancora oltre alla già citata tragedia dei padri separati…quando vuoi, caro Carlo, possiamo approfondire…) è in totale contraddizione con quanto lo stesso Formenti afferma nel suo articolo. Cito testualmente i passaggi in cui l’autore conferma, forse involontariamente, la contraddizione che lui stesso sembra non cogliere:” Si potrebbe dire che, da un lato, il capitalismo come forma sociale “pura” – così come è evoluto nei suoi centri storici – non ha di per sé alcuna relazione necessitante con le gerarchie di genere: ha convissuto con il patriarcato finché questo è stato funzionale alla sua autoriproduzione, ma oggi può farne tranquillamente a meno (potrebbe persino convivere con inedite forme di matriarcato, anche se la verità è – vedi sopra quanto affermato da Luisa Muraro – che il suo interesse ultimo sarebbe la neutralizzazione della differenza sessuale e dei suoi effetti destabilizzanti)”.
E ancora:” Questo equivoco connubio (con il femminismo di “regime”), aggiungerei, esercita tuttora un’influenza negativa anche nei confronti di quell’ala femminista che pure, come sopra ricordato, sta riscoprendo i temi della lotta anticapitalista, nella misura in cui l’immaginario del “femminismo di regime” – come l’ho definito nel mio ultimo libro[xx], contribuisce a dirottare l’attenzione e le energie verso una lotta al “patriarcato” che suona anacronistica nel contesto di una società capitalista il cui immaginario dominante, scrive la Fraser, “è liberale-individualista ed egualitarista rispetto al genere: le donne sono considerate uguali agli uomini in ogni sfera, meritevoli di uguali opportunità per realizzare i loro talenti, compreso – forse in modo particolare – nella sfera della produzione”.
Non posso che essere d’accordo soprattutto con il primo passaggio di Formenti. Il sistema capitalista, oggi, non solo non sa cosa farsene del patriarcato, ma gli è addirittura di ostacolo per tante ragioni che ho già spiegato varie volte e in particolare in questi articoli:
Il Capitalismo all’offensiva su tre fronti
Il nuovo orizzonte del Capitalismo: la cancellazione delle identità sessuali
Ha ancora senso considerare il patriarcato come l’architrave delle società capitalistiche occidentali?
Il capitalismo, giunto al suo stadio più avanzato (per lo meno in questa fase, poi, non essendo dei profeti, come evolveranno le cose non ci è dato saperlo), ha necessità di mercificare non solo ogni spazio dell’agire umano ma addirittura dell’umano stesso (in questo senso va anche la critica di Formenti al femminismo genderista, una delle punte di diamante dell’offensiva ideologica del capitale). E’ quindi evidente che ha necessità di rimuovere ogni possibile forma di “auctoritas” che possa costituire un ostacolo alla sua illimitata e infinita riproduzione (ma, ripeto, in quei miei tre articoli, approfondisco meglio il concetto).
Possibile che un intellettuale lucido come Formenti non noti l’evidente contraddizione?…
Non solo. Nel documento di “Non una di meno” sposato da Potere al Popolo, viene ribadita un’altra delle grandi menzogne ripetute da tutti i media e da tutte le forze politiche, dalla Lega a Potere al Popolo, e cioè che le donne, a parità di qualifica e mansione, percepirebbero un salario inferiore a quello degli uomini. E’ evidente a chiunque abbia un briciolo di onestà intellettuale, che siamo di fronte ad una grave mistificazione, come ho spiegato in altri articoli che mi vedo costretto a segnalare:
L’insostenibile paradosso della sinistra “antagonista”
Islanda, laboratorio del femminismo europeo
Gender pay gap: come stanno realmente le cose? (questa è una intervista radiofonica).
Ora, se anche fosse possibile aggirare le leggi e i dettati costituzionali (cosa in effetti possibile e che avviene regolarmente ma non in questo caso per le ragioni spiegate negli articoli succitati e che mi accingo a spiegare) e se veramente fosse possibile, per prassi, usi, costumi e consuetudine, assumere una donna con un salario inferiore a quello di un uomo a parità di qualifica e mansione, è evidente, dal momento che viviamo in una società capitalista dove la sola e unica stella polare è il profitto (almeno su questo saremo tutti d’accordo), che ci sarebbe un tasso di occupazione femminile infinitamente più alto di quello maschile dal momento che tutte le imprese, piccole, medie o grandi (e il concetto sarebbe ancora più valido per l’economia sommersa…), potendolo fare, tenderebbero ad assumere solo donne. Le cose non stanno così, come ben sappiamo. Ma non stanno così non a causa di una discriminazione sessuale ai danni delle donne bensì perché l’ingresso massiccio di queste ultime nel mondo del lavoro è stato possibile solo relativamente di recente, in seguito alla rivoluzione tecnologica, che ha fatto sì che la gran parte dei mestieri che prima potevano essere svolti solo dagli uomini (per ragioni oggettive, fisiche e biologiche) potessero essere svolti anche dalle donne. Senza contare che a tutt’oggi i lavori più pesanti continuano comunque ad essere appannaggio dei soli uomini. E’ altresì ovvio che un lavoratore, sia esso un operaio o un tecnico, che lavora ad esempio su una piattaforma petrolifera, guadagnerà di più di una insegnante o di una impiegata, professioni meno (e neanche tanto) retribuite ma molto più sicure e confortevoli sotto ogni punto di vista (e comunque stiamo parlando di mansioni e qualifiche completamente diverse). Il presunto gap salariale (sarebbe sufficiente leggere gli articoli linkati ma spesso non si fa e quindi mi tocca ripetermi) viene misurato in un modo che definire ipocrita è un eufemismo. E cioè ci calcola l’intero monte salari maschile, lo si confronta con quello femminile, si scopre che c’è una differenza di tot punti in percentuale in favore degli uomini (chi dice del 12%, chi del 23%, chi dell’1,5%), determinata da quello che spiegavo prima (e dal fatto che le donne optano molto più degli uomini per il part time, fanno molte meno ore di straordinari, non sono disposte ad accettare qualsiasi lavoro, a differenza degli uomini, e tante preferiscono tuttora restare in famiglia, curare i figli e lasciare la “produzione” agli uomini), e si manipola e si deforma il tutto arrivando appunto a postulare la menzogna in base alla quale le donne, in virtù di una discriminazione sessuale (che se fosse vera sarebbe intollerabile e il sottoscritto sarebbe il primo a scendere in piazza contro una simile ignominia) percepirebbero un salario inferiore a parità di mansione e qualifica.
Lo stesso martellamento mediatico viene sistematicamente perpetrato per ciò che riguarda il fenomeno della violenza, ormai da tempo derubricata come maschile per definizione (se questo non è sessismo, non so cosa possa esserlo…). Il “femminicidio” (cioè una sorta di genocidio del genere femminile che sarebbe in corso) è l’altra grande manipolazione mediatica sostenuta anche in questo caso da tutti i media e da tutte le forze politiche. Se prendessimo le dichiarazioni nel merito della Bongiorno (Lega), della Boldrini (Liberi e Uguali), della Carfagna (Forza Italia), della Moric (Casapound), della Fedeli (PD), della Carofalo (Potere al Popolo), avremmo serie difficoltà nel trovare delle differenze, che in fatti non esistono. Tutte sostengono le stesse “tesi” (se così possono essere definite tali manipolazioni ideologiche della realtà). Ora, come ho spiegato in questo articolo: Chi è sordo, orbo e tace, campa cent’anni in pace…e nella menzogna
come è possibile che non sorga neanche un dubbio sul fatto che l’intero sistema mediatico suoni all’unisono lo stesso spartito? Come è possibile che quello stesso sistema mediatico accusato (giustamente…) da quelle stesse forze che si definiscono “antagoniste” di essere uno strumento di manipolazione lucida e scientifica della realtà diventi, come d’incanto, il depositario della Verità quando si affrontano tematiche di genere (in senso antimaschile, ovviamente…)? La contraddizione è anche in questo caso evidente, ma nessuno sembra volersene accorgere…
In conclusione (ma mi auguro che il confronto con Formenti possa continuare in altre sedi), è ovvio che queste manipolazioni della realtà, ripetute sistematicamente in ogni dove, da tutti i media, da tutte le istituzioni (comprese scuole e università), da tutte le forze politiche, nessuna esclusa, finiscano con il creare un immaginario del tutto virtuale e soprattutto nell’ingenerare nelle masse femminili una ostilità nei confronti dei maschi in quanto tali, e non certo nei confronti del sistema capitalistico e delle classi dominanti che salutano con gioia (e infatti la alimentano ad arte con tutta la potenza mediatica che hanno a disposizione) questa guerra fra i sessi, anzi contro il genere maschile. Una guerra che contribuisce (insieme e a quella fra poveri, cioè fra lavoratori autoctoni e immigrati, pompata ad arte dalla variante di destra del sistema) a disinnescare ed allontanare l’unica guerra che esse temono, quella di classe. Quella che oppone o dovrebbe opporre, sfruttati e sfruttate, contro sfruttatori e sfruttatrici.
Da “brutti, sporki e kattivi” quali siamo, dovremmo essere simpatici (e tutto sommato credo che lo siamo) al marxista e “populista” (lo siamo anche noi…) Carlo Formenti, che non dovrebbe avere timore di allacciare un confronto pubblico – meglio se dal vivo e in sedi pubbliche – con un gruppo di “operaiacci” (metaforicamente e anche in parte concretamente) e di “manovali del pensiero” (ma forse anche qualcosina di più, chissà?…) quali noi siamo.
L’ottimismo gramsciano della volontà non ci manca.
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