Foto: popoffquotidiano.it
Emmanuel e sua moglie Chinyary sono fuggiti dal loro paese, la Nigeria, sconvolto dalle bande terroriste di Boko Haram, versione locale dell’Isis (con il quale hanno strette relazioni) e da sempre sottoposto al sistematico saccheggio da parte delle multinazionali occidentali le cui fondazioni, per lavarsi la coscienza (si fa per dire, per cercare di colorare e coprire ideologicamente e ipocritamente i loro interessi…), finanziano Ong varie, associazioni per il rispetto dei diritti umani oppure lgbt e/o femministe e via discorrendo.
Emanuel e Chinyery hanno perso tutti i loro familiari, massacrati durante un attacco ad una chiesa cristiana da parte di terroristi jihadisti.
Insomma, due profughi o immigrati come tanti (ma fa differenza?), due disperati in cerca di una vita appena più decente per loro e per il loro figlio in arrivo che però non vedrà mai la luce perché Chinyary lo ha perso, forse per lo stress della traversata in mare o forse per le percosse che entrambi hanno subito quando erano ancora in Libia, da parte di alcuni malviventi locali, prima di imbarcarsi per la Sicilia.
Sbarcati in Italia hanno trovato rifugio in una struttura dell’arcivescovato di Fermo e lì è finita la loro storia, per lo meno quella di Emmanuel. Perché il destino ha voluto che le loro strade, nel senso letterale della parola, si siano incrociate con quelle di una specie di pitecantropo postmoderno, cioè un “ultrà” della locale squadra di calcio, un tipico sottoprodotto del processo di decomposizione dei settori sociali più marginali di un contesto sociale a sua volta ormai completamente “svaccato”; uno di quei soggetti molto diffusi nelle “lande” sub metropolitane e provinciali (del “profondo nord” o del “profondo sud”), che riesce a trovare una qualche forma di identità, se così si può dire, ringhiando allo stadio, tatuandosi una croce celtica o il capoccione di Mussolini con l’elmetto sul braccio, pompando in palestra e “pippando” cocaina, che per la strada si è rivolto a Chinyary dandole della “scimmia africana”.
Le dinamiche dell’accaduto sono ancora da definire ma – voglio essere molto chiaro su questo aspetto – se anche fosse stato Emanuel, come qualcuno sostiene, a reagire agli insulti colpendo quella specie di esemplare di ramapiteco post-industriale con un paletto della segnaletica, avrebbe fatto non bene, ma benissimo. Anzi, troppo poco, per quanto mi riguarda, e non ho nessun timore di essere querelato da qualche benpensante per istigazione alla violenza. Purtroppo invece Emmanuel ha avuto la peggio e dopo essere stato gettato a terra è stato ripetutamente colpito con pugni e calci che gli hanno provocato un’emorragia cerebrale.
La morale di tutto ciò? Ce n’è più d’una. La prima: chi mena per primo mena tre volte, dice il proverbio. Vero, ma bisogna saperlo fare, altrimenti si rischia di avere la peggio, come purtroppo è accaduto ad Emmanuel. Allora, in tal caso, è molto meglio cambiare tattica. I gloriosi Vietkong presero a sonore legnate l’ esercito americano non affrontandolo in campo aperto, per ovvie ragioni, ma concentrando le loro forze e attaccandolo in massa nel punto in cui era più debole e numericamente inferiore.
Scherzi a parte (fino ad un certo punto…), mi rendo conto che questo discorso potrà sembrare a molti una boutade, ma non è così. Il sottoscritto, che non è nato e cresciuto a Beverly Hills ma in un popolare quartiere della capitale, sa perfettamente che purtroppo – e sottolineo purtroppo – non c’è altro modo per educare determinati soggetti, se non quello di un utilizzo sapiente e consapevole della forza. Non c’è altra via, perché non conoscono altro linguaggio e altra forma di comunicazione se non quella e perché, soprattutto, riconoscono e rispettano, nel loro misero setaccio psicologico e culturale, soltanto chi è in grado di far valere le proprie ragioni attraverso, appunto, l’uso della forza.
Soltanto in un secondo momento deve entrare in campo la ragione, e allora si possono ottenere anche grandi risultati. La ragione e la forza non possono mai essere separate. La forza senza la ragione si trasforma infatti in violenza, che può essere quella dell’esplosione cieca e irrazionale dell’abbrutito razzista o del sottoproletario marginale (o di qualsiasi altro soggetto), così come quella, ben più grave, repressiva e classista del potere. Ma anche la ragione, senza la forza, non avrà mai nessuna possibilità di affermarsi. E questo è un aspetto che può non piacerci ma che non può essere eluso.
La seconda. Mi pare abbastanza evidente che sia in corso un processo di disfacimento della nostra società che naturalmente colpisce in primis i ceti sociali più marginali, peraltro in drammatico aumento. Il bruto che ha assassinato Emmanuel non è un prodotto dello spirito, ma di un contesto sociale e culturale determinato. Per capire il livello di coscienza e di evoluzione di quell’uomo è sufficiente sapere che egli individua il suo nemico in un immigrato, ancor più se di colore (perché comunque il nero è inconsciamente identificato come “inferiore”, come uno che deve stare al suo posto, alla cuccia). Ma il comportamento di quel tizio è la punta dell’iceberg del “sentire” di una massa popolare post proletaria (dico post proletaria perché il proletariato moderno costituiva un soggetto sociale cosciente, portatore di una sua propria cultura, in grado anche di esercitare egemonia e di essere punto di riferimento per altri strati sociali marginali o piccolo borghesi, al contrario appunto dell’attuale massa popolare subordinata) abbrutita, perché priva di ogni coscienza e identità, smarrita, disgregata, frammentata in centomila rivoli, abbandonata a se stessa e da tutti, soprattutto da quella Sinistra che non esiste più da tempo e che una volta non solo la rappresentava ma ne costituiva il cuore, la testa e i polmoni. La fine di quella esperienza, l’esaurirsi del movimento operaio, la disgregazione del proletariato urbano, la distruzione (e l’autodistruzione) dei grandi partiti storici della Sinistra hanno prodotto gli effetti a cui tutti noi oggi assistiamo. E anche l’omicidio di Emmanuel, così come tanti altri simili episodi che accadono più o meno sistematicamente, sono parte di quegli effetti.
Nella società della mercificazione assoluta che riempie il deserto da lei stessa creato, con la merce, emergono figure e comportamenti sociali sempre più inquietanti. Ed emergono dalla nostra gente, dalle nostre “file”, dalla nostra carne e dal nostro sangue, anche se ormai non è più tale o non lo riconosciamo più, infettato com’è dall’ideologia dominante da una parte e dai rigurgiti reazionari dall’altra.
Appare quindi evidente come la ricostruzione di un soggetto politico di classe dotato di un suo solido orizzonte culturale e ideale non risponda a mere esigenze di natura ideologica ma si renda necessario a meno di non voler sprofondare nella barbarie.
Ora il governo, la “politica”, i media e tutti gli “addetti allo spettacolo” fanno mostra di orrore di fronte al tragico assassinio di Emmanuel, ma è una finzione. Il sistema dominante vuole masse abbrutite, non coscienti, vuole la moltiplicazione di soggetti come quello che ha ucciso l’immigrato nigeriano e lavora scientemente a tal fine.