Ogni morte va pianta e quelle avvenute in prigione sono ancor più tragiche delle altre, ma la prematura scomparsa di Aleksey Navalny non è di certo un “affare” vantaggioso per il Presidente Vladimir Putin, la cui immagine internazionale era stata appena rilanciata dalla clamorosa intervista firmata Tucker Carlson (cioè, in primis, dai contenuti espressi dall’intervistato), oltre che dalla brillante conquista di Avdeevka. A un mesetto dalle elezioni presidenziali, con un’economia in salute e una ritrovata popolarità interna, il leader russo non aveva di sicuro bisogno di uno scandalo enfatizzabile a piacere dal nemico esterno né di eliminare un oppositore metamorfico, screditato e ormai pressoché inoffensivo, che soltanto per media embedded, opachi sponsor d’oltreoceano e politicanti occidentali costituiva una minaccia al suo potere.
Tralasciamo il particolare che il presunto delitto di Stato ha già un colpevole per “fatto notorio”: per condannare senza appello la Russia non occorrono prove e nemmeno indizi, come ampiamente dimostrato dalla vicenda North Stream e dall’operato di una sedicente corte internazionale messa in piedi per compiacere l’Occidente e agevolare spudoratamente le sue politiche aggressive, alle quali va addebitato il deflagrare della crisi ucraina (e non solamente di questa: serbi, iracheni, afghani, libici, siriani e gli stessi palestinesi hanno provato sulla propria pelle cosa comporti, in termini di lutti e distruzioni, la cosiddetta “esportazione della democrazia”).
In verità è a Washington e alla servitù inquadrata nella NATO che Navalny, in questo momento, è più utile da morto che da vivo: per rinfocolare nelle captured minds l’isteria antirussa, compattare le masse corrive in vista di un futuro e pianificato conflitto su larga scala e – in cauda venenum – nascondere sotto un lercio tappeto propagandistico il massacro in corso in Palestina, spudoratamente spacciato per legittima difesa degli occupanti, e la spietata persecuzione ai danni di Julian Assange, oramai prossima all’atto conclusivo.
Si potrebbe cinicamente chiosare che l’ex nazionalista osannato dagli USA è uscito di scena nel momento più opportuno per chi negli ultimi anni gli aveva scritto il copione e finanziava la sua “eroica resistenza al tiranno”.
Si dirà (lo si sta già dicendo) che lo Stato sarebbe comunque oggettivamente responsabile della morte di un “suo” prigioniero: l’osservazione non è del tutto peregrina, ma affinché non suoni stonata e strumentale va riferita a tutti quei casi – e sono frequenti pure nei paradisi “democratici” – in cui un recluso soccombe per mancanza di cure, sevizie più o meno premeditate oppure, per disperazione, pone fine da sé alla propria esistenza.
Temo però che se una simile sorte dovesse toccare (Dio non voglia!) ad Assange in un penitenziario statunitense i nostri zelanti agitprop si volterebbero disinvoltamente dall’altra parte, sulla scia di un Giuliano Ferrara che non si vergogna di affermare che il giornalista australiano “diffuse materiali sensibili sulla sicurezza nazionale degli Usa in guerra a Kabul e Falluja mettendo in piazza, con qualche serio rischio per l’incolumità di soldati e informatori della Cia e del Pentagono, le magagne dello stato e dell’esercito senza i quali la nostra libertà non esisterebbe proprio” e merita quindi la punizione che gli verrà inferta.
Nel vero mondo al contrario, che è il nostro, crimine e brutalità diventano virtù, onestà ed altruismo si convertono in colpe: non può perciò stupire che un uomo discusso e assai poco trasparente come Navalny assurga ad icona.
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