Managerialità sociale. Il caso Kasselakis

Il neoliberalismo è in crisi. Non è riuscito a compiere quel miracolo promesso, quell’equilibrio spontaneo derivato dallo sprigionamento della creatività o dal coraggio individuale. Troppo evidente appare la distanza tra chi ha saputo cogliere le occasioni prodotte dalla grammatica di mercato rispetto alle mentalità arcaiche e ottuse impantanate nei grovigli novecenteschi della richiesta di protezione sociale. Questo ritornello è piuttosto in voga negli ultimi anni, soprattutto dopo la nebbia pandemica. E se da un lato è vero che il modello economico/sociale mostra le crepe della propria ideologica irrazionalità non riuscendo a garantire lo sviluppo annunciato, è altresì vero che l’immaginario neoliberale, la sua pedagogia antropologica è più viva che mai.
Non sorprende affatto dunque che al vertice di Syriza in Grecia, partito della sinistra radicale formatosi a contestazione delle politiche di austerità imposte dalla celebre troika, sia stato eletto l’imprenditore ed ex trader di Goldman Sachs, Stefanos Kasselakis. Con la sua storica affermazione “la società non esiste” Margaret Thatcher non intendeva semplificare un concetto ribadendo superate considerazioni del liberalismo classico sull’indifferenza dei pubblici poteri rispetto all’iniziativa privata; voleva molto di più. Quell’enunciato corrispondeva a un imperativo sociale nuovissimo: l’individuo si sarebbe liberato non solo economicamente ma anche moralmente attraverso il proprio cammino verso l’autosufficienza.
Il messaggio appariva a suo tempo rivoluzionario. Il soggetto, finalmente disarcionato dalle costrizioni etiche del vivere in comune, avrebbe potuto conquistare ciò che desiderava grazie alla razionalità delle proprie scelte. Il merito personale quindi sarebbe stato misurato nella ponderazione continua e asfissiante tra costi e benefici delle varie iniziative che l’individuo avrebbe intrapreso nella vita. L’intera esistenza si trovava sottomessa al culto d’impresa. L’evoluzione personale verso il progresso civile coincideva con la raggiunta consapevolezza delle strategie di mercato. L’Altro si trasformava in accessorio.
La “buona novella” fu accolta allora con entusiasmo, con i sospiri di sollievo della popolazione occidentale affrancata finalmente dai doveri seriosi e accigliati della lotta di classe o dell’impegno politico. E fu cinicamente adottata dalle “intelligenze diffuse” – obbrobrio linguistico da posa assembleare – intrise di personalismo edonistico della sinistra. Anche di quella radicale. Le piazze svuotate del conflitto pian piano si riempivano di aspiranti manager di sé stessi, colpiti massicciamente dalle commistioni raziocinanti tra pubblico e privato, dalle taumaturgiche capacità divinatorie degli anarchici incappucciati che fregavano il sistema con le loro start up parassitarie.
Il buon impiego pretendeva improvvisamente un saper essere civilizzato; ridefiniva i contorni della giustizia sociale. A un popolo minuto ancora sudato nello stendere i panni nei vicoli faceva da contraltare un’avanguardia illuminata, soggiogata alla performance, che si nutriva di spazi asettici, levigati e irradiati dal bagliore fioco dei personal computer. La pretesa autosufficienza del singolo trovava un proprio agio nel passaggio dalla militanza all’attivismo. Non più lunghe discussioni tra compagni in scantinati reumatici ma un’occasionale cultura del fare mutuata direttamente dalla nuova organizzazione aziendale. Nasceva la politica del progetto, dell’iniziativa civilizzatrice, dei gruppi di lavoro, della fattibilità mediatica tutta protesa nello scoprire il prossimo shock situazionista. Il marketing si avvera politicamente nel flash mob.
Tutto si conformava a questo nuovo spirito imprenditoriale solipsistico. L’urbanistica, l’architettura, la letteratura, la moda, il consumo culturale, gli spazi comuni. Ogni contorno visivo doveva riprodurre il loculo della propria cameretta. La musica si è sintonizzata all’interno dei padiglioni auricolari isolandosi dal chiasso dei metalli cittadini, le case si sono pian piano ridotte in urne monolocali o in ampi quadrati senza barriere dove appariva superfluo il senso del pudore, le postazioni degli uffici venivano ammassate in alveari con le loro isole conformi al controllo delatorio del vicino nel caso di calo della produttività, la viabilità riempita di monopattini silenti con sguardi protesi all’orizzonte che sfrecciano incuranti dei passanti.
Anche i locali che vorrebbero agganciare socialità e tempo di lavoro, quei bar postmoderni ornati con piante sempreverdi e arredamenti da sauna finlandese, sono composti da arroganti solitudini. Il silenzio di sottofondo non vive di rispetto per il vicino e non è mai spezzato da una chiacchiera curiosa. Si dà una prova muscolare della propria capacità prestazionale. Le posture rimandano ai vecchi cow boy in cerca della frontiera, pronti ad aprire il fuoco se si minaccia la proprietà.
È questo individualismo progressista, questo neoliberalismo culturale a generare i mostri alla Kasselakis. Un diretto protagonista del capitalismo predatorio che si erge a paladino della sinistra. Fa da sfondo un intento correlato alla crisi del modello liberale. Da qualche anno le grandi aziende multinazionali agganciano le proprie mire di profitto a campagne di sensibilizzazione sociale. Si esibiscono come una governance globale che presenta una responsabilità sociale d’impresa. Capitalismo woke, così lo chiamano. In questo modo vorrebbero gestire in prima persona il brand diseguaglianza in accordo con gli Stati. Si pubblicizza un agire responsabile pronto a sedare sul nascere le richieste politiche di giustizia. Un saper essere che accresce reputazione. Il proposito di sottofondo è neutralizzare definitivamente la democrazia. L’avvento dell’Intelligenza Artificiale con la gestione dei dati in Rete rende allarmante il timore.

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