Un nuovo racconto maschile (e di classe)

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Un paio di giorni fa stavo discutendo con una signora su facebook sul tema della (presunta) disparità salariale fra uomini e donne. Le stavo rispondendo e poi, come spesso mi succede, nè è scaturito un vero e proprio (e lungo) articolo. Quello che leggete di seguito. Mi scuso per la lunghezza:

“Gentile Signora, le rispondo, come le avevo già preannunciato, solo su due questioni, quelle che ritengo più importanti e che stavamo affrontando, e cioè il tema della (presunta) disparità salariale fra uomini e donne e dei morti (in esclusiva maschili) sul lavoro. Sulle altre da lei sollevate non entro per evidenti ragioni di tempo e spazio. In ogni modo, sui siti che le ho già segnalato, potrà leggere e documentarsi quanto vorrà su tutto lo scibile.

Partiamo dal primo punto, cioè la presunta disparità salariale fra uomini e donne che, secondo la narrazione femminista (di tutti i femminismi) sarebbe il risultato di una discriminazione sessista nei confronti delle donne.

Come già le dicevo, non esiste nessun contratto di lavoro che reciti che a parità di qualifica e mansione una donna percepirebbe un minor salario. Se così fosse sarei il primo a scendere in piazza contro una intollerabile e inaccettabile discriminazione sessista. Ma il punto non è di natura formale ma sostanziale. E cioè, nessuna donna, nella realtà concreta intendo (al di là dell’aspetto formale), viene retribuita meno di un uomo, a qualsiasi livello. La sfido a trovarmi una donna, in qualsiasi ambito, privato o pubblico, che a parità di qualifica e mansione, percepisca un salario inferiore a quello di un suo collega pari grado di sesso maschile.

Dove sta quindi il busillis? Si giunge a questa conclusione attraverso un procedimento fasullo e ipocrita. E cioè si cumula il monte salari complessivo percepito dalle donne e lo si compara con quello degli uomini, si fa la differenza e si scopre che le donne guadagnano complessivamente meno degli uomini.  Chi dice nella misura del 10 o 11%, come ad esempio riporta II Sole 24 ore, chi del 16% come dice invece la Repubblica, una delle corazzate del neo femminismo mediatico/politico italiano e via discorrendo (i riferimenti può trovarli da sola su Google o dovunque vuole).

Ma è ovvio che questo modo di procedere è maldestro e privo di ogni logica. E’ un po’ come quando, altrettanto maldestramente e ipocritamente, si calcola il reddito medio pro capite in un dato paese e si dice che è ad esempio di 20.000 dollari l’anno, ben sapendo che in quello stesso paese c’è chi ne guadagna milioni e chi non ne guadagna neanche uno…

L’Università Bocconi, altro bastione ideologico/accademico del sistema dominante – che certamente si guarda bene dal sostenere le tesi di un gruppo di “brutti, sporchi e cattivi” e soprattutto “maschilisti” come siamo tacciati di essere – per una volta in controtendenza rispetto all’orchestra mediatica che normalmente suona all’unisono lo stesso spartito, ci dice che la differenza salariale fra uomini e donne

non supererebbe in realtà il 2%:  https://l.facebook.com/l.php?u=https%3A%2F%2Fdrive.google.com%2Ffile%2Fd%2F0B6gpS9zR7YIETlJtV1RCM1dDak0%2Fview%3Fusp%3Dsharing&h=NAQH2dLCF&s=1

In virtù di questa premessa, il monte salari complessivamente cumulato dalle donne è inferiore a quello degli uomini, NON perché retribuite, formalmente e sostanzialmente, meno degli uomini, bensì per le seguenti ragioni. Le elenco in ordine decrescente di importanza:

  • Le donne optano molto di più, rispetto agli uomini, per il lavoro part time, e svolgono molte meno ore di lavoro straordinario. Questo perché ancora molte preferiscono (comprensibilmente) dedicarsi alla famiglia e alla cura e alla crescita dei figli, e lasciano che sia il proprio marito o compagno a lavorare a tempo pieno. Nonostante i tempi siano radicalmente cambiati ci sono ancora molte donne (più numerose di quanto si crede…) che optano addirittura per non lavorare – potendolo fare – e lasciare questa “incombenza” ai mariti (tanto poi se anche si separano a pagare gli alimenti, a essere buttati fuori di casa e male che va a finire alla Caritas non solo loro ma i rispettivi mariti, e non credo di inventarmi nulla…)

 

  • Per ragioni oggettive ma anche sociali e culturali (approfondirò il concetto nel paragrafo successivo), gli uomini, in misura molto maggiore rispetto alle donne – anche in questo caso sia per ragioni oggettive (ad esempio fisiche), che socio-culturali (l’obbligo morale di lavorare e di essere socialmente accettati, soprattutto dalle donne…) accettano qualsiasi tipo di orario, turnazione, mole e condizione di lavoro, ecc. E’ ovvio quindi che un lavoro gravoso, rischioso, svolto magari di notte e che contempla un maggior numero di ore di straordinari, sarà complessivamente più retribuito rispetto a quello di una segretaria, di un insegnante o di un impiegata;

 

 

  • Il tasso di occupazione maschile è tuttora superiore a quello femminile per ovvie ragioni, e cioè perché l’ingresso massiccio e sistematico delle donne nel mondo del lavoro è iniziato solo relativamente di recente, in seguito alla rivoluzione tecnica e tecnologica, che ha in larga parte (ma non del tutto, tant’è che a crepare sul lavoro continuano ad essere solo gli uomini che continuano a svolgere i mestieri più pesanti, rischiosi, inquinanti e mortali) consentito a tutti/e, uomini e donne, di poter svolgere le medesime mansioni. Prima di tale rivoluzione, e cioè per millenni, la grandissima parte del lavoro era svolto e poteva essere svolto – per ragioni fisiche, biologiche e ambientali OGGETTIVE e non certo per discriminazione (magari ad essere “discriminati”, se ciò significa evitare la lenta agonia in una miniera, in una fonderia o imbarcati a forza su un vascello per morire di frustate, denutrizione o scorbuto…) – soltanto dagli uomini.

Ma è normale che ogni processo, anche il più rapido, necessita dei suoi tempi. E quindi è ovvio che tuttora il tasso di occupazione femminile sia minore rispetto a quello maschile. Ed è quindi altrettanto ovvio che questo minor tasso di occupazione incida sul calcolo (ipocrita) del salario e della ricchezza complessiva percepita dalle donne.

Naturalmente ora bisognerebbe aprire un lungo e complesso discorso di natura storica, sociale, culturale e psicologica. Mi limito solo ad alcuni cenni.

Le donne hanno rivendicato il loro diritto all’indipendenza (e quindi al lavoro) da una settantina di anni a questa parte, da quando cioè il lavoro, in virtù della rivoluzione tecnologica-industriale di cui sopra, ha reso possibile l’inserimento massiccio delle donne nel mondo del lavoro. Prima di tale rivoluzione le donne che lavoravano, come operaie tessili, mondine, braccianti, non lo facevano per una libera scelta di autodeterminazione nè tanto meno di “realizzazione personale” (aspirazione, lusso o vezzo di cui la stragrande maggioranza degli uomini non ha mai goduto…) ma – esattamente come quasi tutti gli uomini con l’esclusione di una esigua minoranza di appartenenti alle elite sociali dominanti, delle quali facevano parte anche alcune donne – per una dolorosa necessità, quella cioè di sopravvivere. Una necessità alla quale, se avessero potuto, avrebbe volentieri rinunciato, e ne avrebbero avuto ben donde. Nessuna donna, infatti, ha mai rivendicato il diritto di lavorare in una miniera, in un cantiere edile, in una acciaieria, su un peschereccio, a riparare fogne o su un traliccio dell’alta tensione (e infatti le quote rosa vengono richieste solo per i consigli di amministrazione e per i parlamenti…). Questa rivendicazione di indipendenza economica (attraverso il lavoro) è stata avanzata dalle donne, come ripeto, quando le condizioni OGGETTIVE lo rendevano possibile e anche – diciamocela tutta – desiderabile.

A tutt’oggi, e soprattutto oggi, le donne costituiscono infatti la maggioranza e talvolta la grande maggioranza della forza lavoro in settori quali la pubblica amministrazione, la scuola, la comunicazione, la magistratura, il terziario più o meno avanzato, privato o pubblico, e naturalmente i lavori di cura alla persona (dove comunque non si rischia di morire o di perdere una mano…). Mentre gli uomini, nonostante la rivoluzione tecnologica, costituiscono tuttora la grande maggioranza della forza lavoro nell’industria pesante, edile, siderurgica, estrattiva, marittima, della sicurezza e via discorrendo, dove invece non solo si rischia ma molto spesso si muore per davvero…

A ciò si deve aggiungere un altro fondamentale elemento, sempre di natura culturale/psicologica. E cioè che per le donne, al contrario degli uomini, il lavoro non ha mai rappresentato un obbligo sociale e/o morale. Erano infatti gli uomini che incappavano e tuttora incappano nella scomunica e nella riprovazione sociale qualora non fossero stati e non siano in grado di mantenersi con le proprie forze e soprattutto non fossero stati e non siano in grado di mantenere la propria famiglia.  Un obbligo che le donne non hanno mai avuto. Non è un caso che a tutt’oggi, a togliersi la vita per ragioni legate alla perdita del posto di lavoro o al non riuscire a trovarlo, sono quasi esclusivamente uomini in ragione del 98 o del 99%. Per una donna perdere il lavoro o non trovarlo, non comporta nessuna conseguenza dal punto di vista della sua considerazione sociale né tanto meno per la sua condizione psicologica (comunque non nelle forme drammatiche che assume in un uomo). Viceversa, un uomo senza lavoro è considerato un fallito, un invisibile, un buono a nulla. Vero o falso che sia (il più delle volte, falso) come tale si percepisce, a differenza di una donna che potrebbe anche percepirsi tale ma di certo non è gravata dalla pressione sociale e dal pubblico giudizio da cui è gravato un uomo con il suo stesso problema. Una donna senza lavoro è desiderabile e appetibile né più e né meno di una donna che lavora, perché sono di altra natura le “specificità” che la rendono desiderabile (e anche sposabile). Un uomo senza lavoro, cioè privo di reddito, semplicemente non è desiderabile (o forse solo per lo svago di una notte o due…) e sicuramente non appetibile (tanto meno come marito-padre). Piaccia o meno, care amiche, con l’esclusione dei più giovani e belli, buoni per lo svago ma non certo per un “investimento” di altra natura, vale il detto: “Homo sine pecunia, imago castitatis”…

Qual è la risposta a tutto ciò da parte della narrazione femminista? E’ la più scontata delle scontate, quella che conosciamo benissimo. E cioè (questa la favola rassicurante e deresponsabilizzante…): “Se tanti uomini soffrono è per colpa di altri uomini, o meglio del sistema maschilista e patriarcale che premia alcuni e ne frustra altri.  Perché dovete sapere che il sistema maschilista e patriarcale non è cattivo e oppressivo solo con le donne ma anche con gli uomini, quindi gli uomini che soffrono perché non riescono ad essere adeguati ai parametri che il sistema maschilista gli impone se la devono prendere con altri uomini”.

Ergo, secondo tale logica, il femminismo non libera solo le donne ma anche gli uomini; non è una narrazione parziale, come abbiamo sempre ignorantemente pensato, ma universale. E quindi “Se gli uomini che soffrono vogliono liberarsi e affrancarsi dalla loro condizione di oppressi (e comunque sempre privilegiati nei confronti delle donne…) debbono aderire in toto alla narrazione femminista”.

Fin qui la favola. Buona forse per far addormentare i bambini la sera. Quello che il femminismo naturalmente non ci dice – e non può dire, altrimenti si squaglierebbe come neve al sole – è che il modello maschile dominante è innanzitutto la proiezione di un archetipo da sempre radicato nella psiche femminile (al quale il maschile si adegua…), che è appunto quello del maschio dominante, oggi (e da molto tempo ormai) rappresentato dall’uomo socialmente affermato. Da quando in qua, infatti, un operaio, un bracciante, un precario o un disoccupato, hanno costituito e costituiscono l’oggetto del desiderio dell’universo femminile?

Ergo, se il femminismo fosse in buona fede, invece di colpevolizzare il genere maschile a senso unico, dovrebbe rivolgersi innanzitutto alle donne per invitarle a fare quella rivoluzione culturale che NON hanno MAI fatto, per lo meno fino ad ora, e che consiste in due cose fondamentali: distruggere quegli archetipi di cui sopra (che appartengono a loro e soltanto a loro e che nessun maschio gli ha inculcato o imposto…) una volta e per sempre, e smettere di utilizzare la loro sessualità come strumento finalizzato per un verso alla realizzazione di quegli archetipi e per l’altro per mantenere gli uomini in una condizione di dipendenza e di subordinazione psicologica e sessuale (tema, quest’ultimo, che fa drizzare i capelli alle femministe, ma tant’è, la realtà è il più delle volte amara e la verità non è MAI o quasi mai rassicurante…).

Ma se si facesse questo sforzo, come dicevo, il femminismo si squaglierebbe, perché ammettere questo significherebbe ammettere che le donne (siano esse madri, mogli o compagne) sono in realtà in grado di esercitare un potere molto grande, di natura psicologica, sugli uomini. Ma è evidente che chi è in grado di controllare e di condizionare la psiche di una persona è in grado di controllare e condizionare la persona nella sua totalità. Naturalmente il discorso si farebbe ora estremamente più ampio e complesso e mi fermo, per ovvie ragioni.

 

  • Sostenere che le donne siano nella sostanza, se non nella forma, retribuite meno degli uomini, è del tutto illogico. Viviamo in una società ipercapitalista, dove l’unica stella polare, se non siamo ipocriti, è rappresentata dal profitto. Se veramente fosse possibile assumere le donne pagandole meno degli uomini, sostanzialmente se non formalmente, è ovvio che già da molto tempo avremmo un tasso di occupazione femminile infinitamente superiore a quello maschile, per ovvie ragioni che è superfluo spiegare. Quale imprenditore o imprenditrice (il profitto non ha sesso…) infatti opterebbe per assumere uomini nel momento in cui si ha l’opportunità di assumere donne pagandole di meno? Ovviamente nessuno/a.

 

In conclusione, alla luce di queste riflessioni, non possiamo che concludere che la tesi in base alla quale le donne (anche sull’utilizzo generico di questo termine ci sarebbe da approfondire: le donne sono forse una categoria sociale omogenea? La Lagarde o Veronica Lario, la Merkel o la Bellucci fanno parte, solo per il fatto di essere di sesso femminile, della stessa categoria sociale della famosa “casalinga di Voghera”, o dell’operaia o di un’ addetta alle pulizie?…) sarebbero pagate di meno in quanto vittime di una discriminazione sessista ai loro danni, è una manipolazione della realtà. In parole ancora più esplicite: una menzogna.

 

 

Veniamo ora, molto brevemente, alla questione dei morti (tutti o quasi maschili) sul lavoro.

Ho già di fatto risposto all’obiezione della signora che in altro spazio attribuiva la carneficina maschile sul lavoro (che avviene da sempre…) al fatto che le donne sarebbero state “relegate” ai lavori domestici e di cura. Come ripeto, se essere relegate (o discriminate) significa accudire un bambino piuttosto che lavorare in una miniera o su una piattaforma petrolifera, ben venga la discriminazione…

Se è vero, come è vero, che la storia dell’umanità è stata caratterizzata dalla divisione sessuale (oltre che sociale) del lavoro, non possiamo che dedurne che questa divisione ha senz’altro favorito e messo al riparo le donne rispetto alla stragrande maggioranza degli uomini. Non potremmo che dedurne che alla fin fine, anche la struttura patriarcale (si dovrebbe qui aprire una lunga riflessione sul matriarcato, che non apro…) ha sicuramente e di gran lunga penalizzato molto di più gli uomini rispetto alle donne.

Anche nelle società che si reggevano sulla schiavitù, durate purtroppo millenni, la condizione degli schiavi maschi era di gran lunga peggiore di quella delle schiave femmine. Nessuna schiava femmina è mai stata incatenata al remo di una galera, destinata al lavoro forzato nelle miniere o nelle cave in condizioni che definire disumane è un eufemismo, oppure obbligata a scannarsi con altre schiave in un’arena per il diletto del pubblico pagante. Anche allora le schiave femmine erano adibite al lavoro domestico o tutt’al più a sollazzare gli appetiti sessuali dei patrizi e degli aristocratici (attività “ludiche” che vedevano coinvolti anche gli schiavi maschi…).

Ergo, quando si dice che la divisione sessuale del lavoro avrebbe privilegiato gli uomini e discriminato le donne (ripeto: parlare di uomini e di donne in termini generici, dal mio punto di vista, che è un punto di vista di classe, significa parlare di categorie che NON hanno alcun senso, a meno di non parlare sotto il profilo rigorosamente dell’appartenenza sessuale) si sta facendo una gigantesca manipolazione della storia, e quindi si sta producendo falsa coscienza.

Questo, sia chiaro, non significa che le donne (o meglio, alcune donne…) non abbiano vissuto discriminazioni o forme di oppressione di diverso tipo (così come alcuni uomini…) nel corso della storia. Nessuno ha intenzione di negarlo (e poi perché?…). Del resto, qualsiasi narrazione ideologica contiene anche delle verità altrimenti non sarebbe credibile, e ovviamente vale anche per il femminismo.

Ciò che si sostiene è che la narrazione femminista è necessariamente parziale (e tutt’altro che universale) e deformante della storia e della realtà. Si potrebbe obiettare che ciò vale per ogni narrazione ideologica, e anche in questo c’è un fondamento di verità.  E allora oggi più che mai è necessario un nuovo racconto, una narrazione alternativa a quella femminista, scritta dagli uomini e per gli uomini. Due racconti parziali, sia pure in una relazione conflittuale, possono dar vita ad una interessante, vivace e ricca dialettica. Un solo racconto parziale, specie quando è l’unico ufficialmente ammesso, non può che trasformarsi in un Dogma, in una Verità A Priori alla quale è necessario conformarsi”.

P.S. per chi non fosse sazio e volesse eventualmente approfondire, sviluppo e approfondisco ulteriormente gli argomenti trattati in questo articolo: http://www.uominibeta.org/articoli/nuovo-racconto-maschile/

 

 

 

14 commenti per “Un nuovo racconto maschile (e di classe)

  1. renato
    14 gennaio 2017 at 20:59

    Propio “poco fa” mi sono imbattuto nel post moderno di Lyotard inteso come fine delle grandi narrazioni. Mi pare invece che la grande narrazione (mistificante) dei nostri giorni c’è ed è il femminismo.
    Almeno Lyotard di grandi narrazioni della modernità ne individuava tre in scontro/incontro tra loro, il nazifem pensiero è unico e indiscutibile.

  2. Amedeo
    14 gennaio 2017 at 21:43

    Un articolo davvero esemplare: per chiarezza, argomentazioni e propedeutico ad una coscienza, una identità maschile; identità virile, oggi vacillante, sotto la pressione ideologica femminista, del mercato, dell’avidità, del profitto.
    L’uomo vorrebbe avere il suo posto, in questo proseguo della specie, riconosciuto e valorizzato, rispettato e stimato, dall’altro cielo.

  3. Nicola morgantini
    15 gennaio 2017 at 10:39

    Cose note, ma che è opportuno ripetere. Soprattutto perché viviamo nell’epoca della compiuta idiozia. Bravo Fabrizio.

  4. Rino DV
    15 gennaio 2017 at 11:23

    Ottimo. Un nuova sintesi, chiarissima e completa sul piano concettuale, che inchioda ogni obiettore.
    Solo occhi resi ciechi dal risentimento possono non vedere, solo menti oscurate dal rancore possono non capire.
    .
    Aggiungo, riprendendo quanto all’articolo.
    1- I maschi hanno da sempre sposato donne disoccupate. Il contrario non è mai accaduto. Ne deduco che un reddito è, per un uomo, condicio sine qua non per la relazione con l’altro sesso, per la riproduzione e per quasi ogni relazione sociale. Il problema simmetrico non esiste.
    Ergo: la verità incontrovertibile è dunque quella; homo sine pecunia imago castitatis. Appunto.
    .
    2-Se anche fosse vero che gli UU guadagnano più delle DD è anche verissimo che il loro reddito è sempre stato diviso a metà ed è tuttora – ope legis – da dividere a metà con una D. L’inverso è eccezione assoluta.
    Ergo: anche se quella menzogna fosse vera sarebbe ancora una volta falsa.
    Menzogna al quadrato.
    .
    Domandine ingenue:
    – a cosa servono le menzogne?
    – che queste due siano le sole?
    – da dove vengono e dove portano?

    .

  5. Fabrizio Marchi
    16 gennaio 2017 at 12:30

    Una mia lunga risposta, trasformatasi di fatto in un vero e proprio articolo, ad una signora che criticava il mio articolo su facebook:

    “Puntualmente e soprattutto sistematicamente, ogniqualvolta si affrontano i temi che riguardano la relazione fra i sessi da un punto di vista critico nei confronti della narrazione ideologica femminista, ormai data per scontata e considerata una Verità a Priori, scatta da parte di molte/i una sorta di difesa d’ufficio che va ben oltre l’argomento trattato (a mio parere un modo per evitare un confronto logico-dialettico sul tema specifico); nel caso specifico di cui all’articolo https://www.linterferenza.info/attpol/un-racconto-maschile-classe/ la presunta disparità salariale fra uomini e donne dovuta ad una altrettanto presunta discriminazione sessista nei confronti delle donne.
    A riprova di ciò, nell’ambito di una discussione sviluppatisi su un gruppo di FB, una signora, che chiamerò Rosalba, fra le altre cose, scrive testualmente, in risposta al mio articolo: “Onestamente, sono d’accordo con Anna. Se poi dobbiamo riscrivere la storia …”.
    Ella si esprime, come è evidente, come se la versione femminista della relazione fra i sessi fosse “la Storia” e chi la critica vada contro la Storia, cioè contro il fatto OGGETTIVO. E per fatto oggettivo si intende ovviamente la narrazione ideologica femminista, la sua rivisitazione della storia, considerata appunto non come una INTERPRETAZIONE ma come un FATTO OGGETTIVO che, come tale, NON può essere messo in discussione. Chi lo fa diventa immediatamente un negazionista, considerato alla stessa stregua dei negazionisti dell’Olocausto o della schiavitù.
    E’ dunque evidente come una INTERPRETAZIONE della storia venga trasformata in una VERITA’ storica OGGETTIVA. La qual cosa, oltre ad essere fuorviante sotto ogni punto di vista – in primis proprio la possibilità di una ricerca storica laica e razionale (e non ideologica) – impedisce a priori l’apertura di ogni pur minimo dibattito in tema. Per la semplice ragione che, dati i presupposti, chi lo apre non può essere che un negazionista, e quindi un maschilista, reazionario e nel peggiore dei casi un mezzo fascista se non del tutto fascista.
    Mi viene alla mente (e certamente chi scrive non è oggettivamente tacciabile di anticomunismo…) una commedia di Dario Fo (mi pare si chiamsse “Le tigri”, ma non ne sono sicuro, ero un ragazzo quando lo vidi e ricordo che mi piacque moltissimo…) in cui si criticava la degenerazione burocratica degli stati-partiti comunisti dove il paradigma era, in estrema sintesi: ”Il popolo è al potere e governa attraverso il partito e lo stato che sono i suoi strumenti e rappresentanti, e quindi il partito-stato e il popolo sono la stessa cosa. Di conseguenza se uno critica il partito o lo stato, critica anche il popolo, ergo, è un nemico del popolo” (e naturalmente va represso…).
    A quel punto, dopo una serie di gag molto efficaci che mettevano in risalto quella contraddizione arrivavano le tigri (metafora della rivoluzione culturale da poco esauritasi in Cina…) che spazzavano via i burocrati del partito-stato (la nuova borghesia che si era riorganizzata sotto altre spoglie, secondo la concezione di Mao, che condivido da questo punto di vista in toto…) e smascheravano la truffa ideologica…
    In forme diverse, ci troviamo più o meno nella stessa situazione, soltanto che qui le “tigri” non ci sono. Da qualche tempo hanno però fatto la loro comparsa sulla scena alcuni “tigrotti” (che saremmo noi), passatemi la metafora, che hanno cominciato a criticare quella narrazione, da TUTTI gli altri accettata come VERITA’ Inconfutabile, Incriticabile e Assodata.
    Per me e per molti miei amici e compagni invece NON lo è. Per noi il Femminismo (in tutte le sue correnti) NON è né una VERITA’ né tanto meno una SCIENZA ma una INTERPRETAZIONE della storia e della realtà. Legittima, in quanto tale, ma appunto per questo (cioè per l’essere una interpretazione) confutabile e contestabile, più o meno radicalmente, esattamente come lo sono TUTTE, e sottolineo TUTTE, le interpretazioni della storia.
    La contraddizione evidente è che siamo nell’era – così si dice – della fine di tutte le grandi narrazioni ideologiche (in realtà ci si riferisce al Comunismo, ma ora sarebbe troppo lungo entrare nel merito…), e però quella femminista non solo non si considera defunta al pari delle altre ma addirittura è stata elevata, come scrivevo, a VERITA’ ASSOLUTA, e quindi di fatto a SCIENZA.
    Ora, tornando a noi, il tema dell’articolo NON era la violenza subita dalle donne o il delitto d’onore (oppure la condizione delle donne in Afghanistan), temi tirati in ballo da Rosalba, bensì quello della disparità salariale o meglio la tesi in base alla quale le donne, secondo la vulgata mediatica/ideologica dominante, a parità di qualifica e mansione, percepirebbero un salario inferiore a quello degli uomini.
    La qual cosa è palesemente falsa e mi sembra di averlo dimostrato in modo logico-dialettico nell’articolo sopra linkato. Qualora qualcuna/o non fosse d’accordo – molto probabilmente la grande maggioranza sia delle donne che degli uomini – invece di dirottare la discussione su altre questioni (rispetto alle quali NON mi sottraggo affatto ma ovviamente necessitano di una trattazione ad hoc…), dovrebbe confutare in modo altrettanto logico-dialettico le mie argomentazioni. Cosa che NON avviene MAI. Siccome però la speranza è l’ultima morire, resto in attesa.
    Dal mio punto di vista, la domanda che sarebbe invece il caso di porsi è: perché una simile clamorosa manipolazione della realtà viene sostenuta da tutti i media, da sinistra a destra, senza nessuna esclusione? Personalmente la risposta ce l’ho già ma lascio che ciascuno, socraticamente, se la dia…
    Tornando a noi. Scrive Rosalba, commentando il mio articolo:” Secondo me quando viene scritto che i problemi legati al sesso femminile sono ‘presunti ‘significa invitare le donne a ‘stare al proprio posto ‘senza lamentarsi e polemizzare”.
    Questa, cara Rosalba, è una sua illazione, una sua personalissima interpretazione che io NON ho MAI pensato, detto o scritto. Il “presunto” è legato appunto alla disparità salariale a parità di mansione e qualifica, che è appunto presunta, perché la realtà ci dice che le cose non stanno così. NON ho MAI pensato che le donne (così come gli uomini) “debbano stare al loro posto senza lamentarsi e polemizzare”. Anzi, io credo e sostengo esattamente il contrario, e cioè che in questo mondo che io NON condivido e che sottopongo a critica radicale, sia le donne che gli uomini NON dovrebbero affatto stare al posto che è stato loro assegnato. Al contrario debbano criticarlo e trasformalo radicalmente, ma senza inventarsi balle.
    Continua Rosalba:” Qua pare che gli uomini in realtà siano stati sempre discriminati nei secoli dei secoli, mentre le donne godevano di infiniti privilegi? Mi sono persa qualcosa forse?”
    Più che persa qualcosa, oserei dire che la signora NON ha capito quello che volevo dire o forse ha letto troppo distrattamente. Io non sono un femminista rovesciato come un guanto nel suo esatto contrario, e di conseguenza non penso affatto che la storia dell’umanità sia stata caratterizzata dal privilegio tout court femminile ai danni di quello maschile. Però NON penso neanche il contrario e penso invece che le cose siano estremamente più complesse di come le ha poste e continua a porle il femminismo. E dal mio punto di vista, sostenere che gli uomini, in quanto tali sono sempre stati e continuano ad essere in una condizione di privilegio e di dominio nei confronti delle donne, è una concezione SESSISTA e INTERCLASSISTA (oltre che fondata su presupposti FALSI), una clamorosa MANIPOLAZIONE della storia del tutto FUNZIONALE all’attuale sistema capitalista che vede come il fumo negli occhi il conflitto di classe ma è ben contento di alimentare il conflitto fra i sessi (dove naturalmente uno viene individuato come dominante e l’altro come dominato).
    Dopo di che la signora Rosalba prosegue postando le immagini di alcune donne che lavorano come operaie o braccianti, come se il sottoscritto avesse sostenuto che le donne non abbiano mai lavorato nel corso della storia. Cosa ovviamente del tutto fasulla che mi guardo bene dal sostenere. Anche in questo caso si tratta di una lettura superficiale del mio articolo o di una sua maldestra interpretazione. Riporto testualmente uno stralcio del mio articolo, quello a cui probabilmente la signora Rosalba si riferisce:” Le donne hanno rivendicato il loro diritto all’indipendenza (e quindi al lavoro) da una settantina di anni a questa parte, da quando cioè il lavoro, in virtù della rivoluzione tecnologica-industriale di cui sopra, ha reso possibile l’inserimento massiccio delle donne nel mondo del lavoro. Prima di tale rivoluzione le donne che lavoravano, come operaie tessili, mondine, braccianti (o altro), non lo facevano per una libera scelta di autodeterminazione nè tanto meno di “realizzazione personale” (aspirazione, lusso o vezzo di cui la stragrande maggioranza degli uomini non ha mai goduto…) ma – esattamente come quasi tutti gli uomini con l’esclusione di una esigua minoranza di appartenenti alle elite sociali dominanti, delle quali facevano parte anche alcune donne – per una dolorosa necessità, quella cioè di sopravvivere. Una necessità alla quale, se avessero potuto, avrebbe volentieri rinunciato, e ne avrebbero avuto ben donde. Nessuna donna, infatti, ha mai rivendicato il diritto di lavorare in una miniera, in un cantiere edile, in una acciaieria, su un peschereccio, a riparare fogne o su un traliccio dell’alta tensione (e infatti le quote rosa vengono richieste solo per i consigli di amministrazione e per i parlamenti…). Questa rivendicazione di indipendenza economica (attraverso il lavoro) è stata avanzata dalle donne, come ripeto, quando le condizioni OGGETTIVE lo rendevano possibile e anche – diciamocela tutta – desiderabile”.
    Il senso delle mie parole non è, come si evince, quello di dire che le donne non hanno mai lavorato, la qual cosa è una evidente sciocchezza, ma soltanto che la rivendicazione del diritto all’autonomia e indipendenza economica è stata avanzata quando le condizioni oggettive – fisiche, ambientali e soprattutto tecnologiche – lo hanno consentito. Sempre ammesso che assumersi l’onere di lavorare ed essere bestialmente sfruttati in una miniera o in una fonderia per mantenere a stento la propria famiglia, significhi godere dell’indipendenza economica (ho sempre sostenuto, obtorto collo, che preferirei di gran lunga essere “discriminato” e “relegato” ai lavori domestici piuttosto che avere il “privilegio” di passare la mia vita in una fabbrica o in una miniera…).
    Naturalmente, onde evitare la solita ridicola obiezione, ciò che mi anima non è la altrettanto ridicola volontà di alimentare una guerra fra i sessi ma, al contrario, oppormi a chi quella guerra sessista (anche se camuffata da guerra di “liberazione”) la porta avanti da decenni, e di svelare quella che secondo me è una menzogna, una sostanziale manipolazione della storia e della realtà, in base alla quale tutti gli uomini, in quanto tali, avrebbero goduto di una condizione di privilegio loro garantita da una contesto maschilista e patriarcale.
    Vorrei tanto, dunque, che qualcuna/o confutasse logicamente e dialetticamente quanto spiegato da me in quell’articolo. Chissà, non è escluso che anche il sottoscritto sia in errore (non sono mica l’oracolo della Verità…), però vorrei che lo facesse non a colpi di slogan o di ideologia ma di logica e di dialettica. Potrei anche arrivare a ricredermi, perché no. Però con i fatti e dimostrando logicamente che quanto ho scritto non ha nessun fondamento.
    Resto in attesa”.
    Fabrizio Marchi

    • Mario
      26 luglio 2017 at 23:21

      Buonasera Dott. Marchi. Le donne non hanno avuto svantaggi o vantaggi, come d’altronde gli uomini. Nella società passata, i ruoli erano ben definiti e nessuno(donne comprese), li ha mai messi in discussione. Come da Lei egregiamente espresso ed evidenziato, non credo, che le donne dell’epoca, avessero intenzioni di svolgere mansioni diverse, da quelle “imposte” dal costrutto sociale,ovvero la cura dei figli e della casa. Oggi le cose stanno in maniera diversa e se lo vogliono possono lavorare ovunque anche nei settori più logoranti e rischiosi il punto è lo vogliono davvero? Un distinto saluto e a ben rileggerla.

      Mario.

  6. armando
    16 gennaio 2017 at 19:00

    >L’articolo di Fabrizio non può che essere condiviso, per il semplice motivo che racconta la realt, al contrario delle bugie che ogni giorno ci vengono ammannite dai media mainstream, ossia tutti. Quì, a conferma del concetto espresso da Fabrizio, ossia che la pressione sociale subita dai maschi è incomparabilmente superiore a quella subita dalle femmine, voglio raccontare un recentissimo episodio assolutamente vero. Qualche tempo addietro ho avuto modo di conoscere un uomo, di poco ultraquarannne, sposato con prole, che fa il mio stesso lavoro seppure da altra parte. Una ventina di giorni orsono si è saputo che aveva compiuto alcuni ammanchi. In poche parole riscuoteva dalla clientela e si intascava i soldi facendo rivevute false. Nulla di trascendentale in termini assoluti, 25/30000 euro in due/tre anni, ossia somme da ladri di polli, ma lo stesso assai grave sotto l’aspetto etico e morale, ed anche sintomo di poca lucidità, perchè apisodi simili sonoi frequenti e sistematicamente scoperti. Puoi farla franca per un po’ , ma poi ti scoprono. Ebbene, richiesto del perchè lo aveva fatto, la sua risposta è stata “Per cercare di farmi stimare dai miei suoceri, che mi hanno sempre considerato un uomo di scarso valore”. Eppure anche la moglie non è che abbia un lavoro fisso e ben retribuito. Anche lei si arrangia con lavori precari o a tempo determinato, come tanti, troppi, in un mondo che non esito a definire di merda. Ma lo stigma cade invariabilmente sul maschio, è lui che deve dimostrare di “valere” (in senso economico ovviamente, perchè se sei ricco, anche se malfattore, i bravi suoceri ti portano in palmo di mano comunque.). La pressione sociale e familiare (in questo caso non la moglie) non giustifica certo l’accaduto, ma certamente lo spiega. In un mondo in cui sei stimato per quanti guadagni, cioè “vali”, in cui ognuno è spinto a considerare se stesso come un capitale da valorizzare, in cui se non vendi e ti vendi sei schifato, è facile cedere alla tentazione. Certo, non tutti lo fanno e questo fa la differenza, ma rimane il fatto che la pressione ambientale sugli uomini è fortissima, incomparabilmente superiore a quella sulle donne, che nessuno stigmatizza se vivacchiano guadagnando poco. Altro che le stronzate del femminismo sulle false discrimanazioni salariali e via bugiando, come ben spiega quella ricerca dell’Università Bocconi, ricerca diretta, giova ricordarlo al fine di prevenire obiezioni che già odo, da una donna. Forse qualcuno è in grado di smentirlo? Si faccia avanti, prego.

  7. Annalaura
    29 gennaio 2017 at 20:12

    Eccomi! Finalmente una donna a rispondervi, ci voleva..a mio avviso, il problema, come alcuni di voi affermano, è complesso ma voglio sottolineare che le pressioni sociali legate al lavoro e al reddito, come ci sono state per gli uomimi ci sono state parimenti per le donne, ma nelle donne al contrario! Che vuol dire? Che la cultura è stata fortemente improntata sulla divisione netta dei ruoli: mia nonna, classe 1899 (!) nei primi del novecento lavorava guadagnando come interprete, quasi il doppio di mio nonno, ma con la nascita del primo figlio era normale che lasciasse il lavoro altamente remunerativo e che le piaceva per dedicarsi alla famiglia, era normale. Ora grazie anche alle lotte femministe tutto ciò probabilmente non avverrebbe. Insomma, fino a 30- 40 anni fa (e spesso ancora) dinanzi alla nascita dei figli o a qualsiasi problema familiare ( malattie famliari o trasferimento lavorativo del marito) a dover lasciare il lavoro era la donna e gli uomini, in tutto questo non hanno mai mosso un dito per sostenerle, ritirandosi nel migliore dei casi nell’angoletto, dinanzi alle rivendicazioni femministe dell’epoca, reagendo con violenza nei casi peggiori. Riguardo ai lavori pesanti relegati agli uomini, la questione di base, oltre ad essere anch’essa culturale, mi sembra che sia di ordine fisico. Siete o non siete dotati di una muscolatura maggiormente sviluppata geneticamente? E allora di cosa parliamo? I lavori pesanti è normale che spettino a voi uomini! E’ la vostra potenziale “vocazione” naturale, come per una donna è una potenziale “vocazione” naturale portare avanti una gravidanza per nove mesi, partorire e allattare e purtroppo morire anche di parto, tutt’ora accade….siamo diversi e nessuna femminista ha mai affermato il contrario. Quante donne sono state costrette in passato a fare 8 – 10 figli, se non di più e contemporaneamente lavorare come braccianti agricola, se non in miniera, nei campi anche fino al nono mese di gravidanza? Parliamo di una manciata di decenni non di secoli!! Potrei continuare a fare un elenco fino alla noia…ma un elemento che forse mi infastidisce più di tutti è l’incapacità di moltissimi uomini di saper gestire la violenza, di fare squadra contro la cultura della violenza maschile. Cosa avete paura di perdere? E’ questo l’elemento principe che vi rende agli occhi di molte donne incapaci di mettervi in discussione cercando, ancora una volta, giustificazioni per non perdere un ruolo, un ruolo oramai cambiato grazie alla lotta delle donne.

    • Alessandro
      31 gennaio 2017 at 14:07

      In verità non hai risposto alle due questioni che magistralmente vengono trattate nell’articolo: il gender gap è, hit et nunc, una bufala sì o no ? La narrazione femminista della storia è o non è una visione deformante del passato?

    • Alex
      18 febbraio 2017 at 2:50

      Annalaura

      in realtà quella dei lavori pesanti destinati agli uomini è un’ipocrisia di fondo, in quanto la differenza muscolare tra maschi e femmine è minima. I muscoli si fanno proprio lavorando, quello che hai in partenza di forza fisica conta poco, ma per saperlo bisogna prima aver lavorato “da uomo”. Al limite si dovrebbe parlare di corporatura, maschi e femmine con corporatura gracile devono sapere che a loro certi lavori non sono consigliabili.
      Si è pasati nell’arc di rbevisismo tempo da una economia che consentiva alle donne di rimanre a casa ad una situazione di crisi che obbliga anche le donne a trovare lavoro e quindi di conseguenza, forse per una fatto più istintivo/archetipico che fisico, di riservare alle donne i lavori meno rischiosi e brutti. In futuro, visto che i posti di lavoro diminuiscono semrpe di più per tutti e non ci saranno più abbastanza seggiole in ufficio per tutte, vedremo donne in posti brutti e aumenteranno gli incidenti sul lavoro femminili, già in parte sta succedendo….il femminismo farà finta che la colpa sia per l’ennesima volta di quel fantasma chiamato “sessismo” (ha già iniziato), già è stata mandata in onda in televisione uno speciale della giornata delle donne vittime del lavoro (le prime 3 morte sul lavoro), come se fosse una specie di attentato organizzato contro le donne o fosse una cosa inedita rimanere amputati o morire sul lavoro

      • Mario
        26 luglio 2017 at 23:34

        Buonasera Alex. Si infatti la differenza fra uomo-donna in termini di massa magra intesa come muscolo/scheletrica è di circa il 20% in media.

  8. Alex
    18 febbraio 2017 at 3:17

    x Annalaura2

    Il secondo tema, quello della non partecipazione degli uomini, non so il caso generale, ma ti dico quello che penso io, cioè perchè io ho scelto, consapevolemente e con scrupolo, di non partecipare.
    Il mio ragionamento: le donne , è vero, hanno dei problemi reali da risolvere. C’è un movimento femminista che dice di occuparsene e in virtù di questo ha ricevuto un grosso megafono regalatogli dai media (cosa che agli uomini non è mai stato consentito).
    Come ha usato questo megafono? Dei problemi reali delle donne, che riconosco, non ne ho mai sentito parlare oppure non ne ho mai sentito parlare in maniera sobria e costruttiva.
    Per maniera sobria intendo affrontare un tema in modo terra-terra, basandosi su razionalità, logica, intelligenza e dati reali.
    Invece ho sempre e solo sentito discutere di temi che rappresentavano solo in parte e in amneira falsata il problema reale, questo nella migliore delle ipotesi, cioè non quando il tema di discusssione ra totalemnte inventato e non aveva nessuno legame con la concretezza della realtà.
    La mancanza di costruttività del femminsmo sta nel fato che non si può discutere die vari temi femminili in guisa di una lagna infinita a cui seguono accuse, prima o poi si deve mettere da parte tutto ciò e iniziare a proporre delle vere soluzioni.

    Da tutto ciò mi è parso evidente che se si affronta un tema esclusivamente “di pancia”, facendo leva sull’ingenerare sentimenti e reazioni emotive a scapito della razionalità e della capacità di analisi, l’intento non è quello di risolverli questi problemi, ma di tenerseli più a lungo possibile ed usarli per altri scopic he non hanno ache fare con el questioni di genere.
    In tutto ciò c’è un aparte di ingenuità e anche un aparte di malafede. La parte di ingenuità sta nel fatto che il potere, da sempre, usa la “pancia” della persone per oscurarne l’intelletto e il femminismo atualmente risponde perfettamente a questo bisogno del potere.
    Trovo che le mie coetanee che hanno ricevuto questa cultura “di genere” attuale, anche tramite la scuola e università per esempio, siano state parzialmente private della loro razionalità e la capacità di capire cosa è reale/concreto e cosa invece è suggestione collettiva, in mezzo a tutto questo marasma di sentimentalismi feroci e allarmismi sociali.

    Per questi motivi ho scelto – per responsabilità – di non partecipare: ritengo che in questo momento storico il femminismo sia un soggetto disgregativo, peggiorativo della società, distruttivo per le relazioni sociali, e anche utilizzato come strumento di separazione sociale e dominio dal potere.
    Infine penso anche che stia giocando un brutto scherzo proprio alle donne delle nuove generazioni e che vada a discapito prima di tutto a loro in quanto sta modificando nei ragazzi la percezione della figura femminile caricandola di negatività inedite che prima non c’erano.
    In pratica, per citare non mi ricordo chi, ma il senso era che il femminismo pretenderebbe di risolvere un problema creandone altri 10

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