Expo, 1 Maggio e antagonismo

Che Expo 2015 – così sbandierata dal sistema – sia la vetrina dell’odierno neoliberismo globalista è cosa palese e sotto gli occhi di tutti quelli che ne hanno capito i meccanismi, e non solo per l’introduzione di contratti semi-schiavisti come il famigerato free jobs (leggi ‘lavoro gratuito’ e/o sottopagato), ma proprio per le numerose prese per i fondelli propagandistiche su una manifestazione il cui tema centrale è “Nutrire il Pianeta, Energia per la Vita”, e che poi ha fra i suoi sponsor multinazionali come McDonald’s, Coca-Cola e Monsanto. Non ci soffermeremo su questo, né sulla speculazione edilizia, né sulla palese presenza della “ndrangheta” nelle gare d’appalto e infine, neppure sui nostri politici d’ambo gli schieramenti che si spartiscono la torta – anche in questo caso, come avviene ormai da tempo, “destra” e “sinistra” si annullano, ovviamente – ma sugli eventi milanesi del 1º maggio, un tempo “Festa dei Lavoratori”, oggi vetrina della crisi.
Inutile dire che condanniamo la violenza gratuita delle cosiddette tute nere o ‘black block, un’area – sempre se non si creda nella sua “spontaneità” – alla semplice ricerca di visibilità mediatica, figlia di quel desiderio di “apparire” in assenza di palchi.
Più interessante piuttosto è soffermarsi sull’ideologia e la metodologia che sorreggono invece quell’antagonismo “serio”, e sicuramente molto più politico – un’ area distinta dalla prima, checché ne dica la propaganda mediatica liberal-liberista – che però molto spesso, anche se inconsapevolmente, finisce con l’essere del tutto innocuo per il sistema stesso.
Ho accennato all’evidente attentato ai diritti dei lavoratori con l’introduzione del free jobs, che numerosi militanti dei comitati No-Expo hanno indicato come possibile variante dei classici contratti a tempo “ufficialmente” abrogati col jobs act renziano (quando la sinistra avalla il capitale!), ma non vedo – venuto meno un polo ideologico politico che si faceva difensore di un’ideologia, il marxismo-leninismo – da parte dei giovani manifestanti – anche i numerosi che non hanno commesso atti di violenza – il tentativo di animare battaglie sociali che vadano oltre la semplice “contestazione”. Il che è grave. Il ragazzino intervistato da Tgcom 24 è l’esempio di questa grave mancanza che non è casuale, ma frutto di una crisi culturale, frutto della fine di un’egemonia culturale. Vedendo quel giovane antagonista intervistato ho provato un’immensa pena, ho visto solo una rabbia nihilista fine a se stessa, l’incazzatura generazionale antisistemica – legittima, quando non si ha più futuro – che non è però politicamente indirizzata verso i veri nemici, una sorta di rabbia “facebookiana” (simile al qualunquismo di tanti quarantenni/cinquantenni), che però non si limitano più a dire ‘Piove governo ladro!’, ma arrivano a spaccare tutto…
Non credo alle masse che individualmente e individualisticamente si scagliano contro un nemico, che non è la filiale di una banca di per sé, ma ben altro.
Da sempre è l’organizzazione e la presenza di una progettualità a dar spessore a un movimento, altrimenti facilmente manovrabile o, peggio, ricattabile. Senza progettualità – e non vuole essere un’apologia del glorioso partito comunista di leninista memoria, strutturato in quadri e militanti – qualsiasi movimento non vive, ma semplicemente sopravvive, vegeta. L’assenza di ideologia – se non un semplice rifiuto della struttura politica – non è a-ideologia ma il graduale trionfo di un’idea di politica sprovvista di Weltanschauung, di ideali, che col tempo si è trasformata in un semplice elenco programmatico pieno di punti per amministrare l’esistente, per gestire “al meglio” (o alla meno peggio…) lo stato facendolo uscire dalla corruzione; insomma, il governo dei tecnici ma “onesti”. Non è forse vero che la politica dall’89 in avanti è un graduale connubio di dissolvimento dei confini nazionali (motivo della ripresa prima del federalismo e poi di soluzioni sovranazionali, funzionali al libero mercato) e della presenza di cosiddetti contenitori partitici caratterizzati dall’assenza di ideologia, se non quella del mercato? Nelle dichiarazioni del ragazzino intervistato la crisi culturale si sente tutta, al cento per cento. Riporto l’analisi del prof. Giannuli, che condivido al cento per cento:

«Ascoltate con attenzione l’intervista ad un giovanissimo manifestante data Tgcom 24: un misto di pulsioni ormonali adolescenziali ( “più che altro ero esaltato e volevo qualcosa in mano per spaccare qualcosa.. però è stata una bella esperienza”) un malessere acuto e, soprattutto un bisogno di autoaffermazione: “dobbiamo far sentire la nostra voce”. Peccato che, salvo un accenno genericissimo ai “politici che rubano” e alla “banca che è l’emblema della ricchezza” la “voce” non dicesse nulla. Certo l’Expo è stata la grande occasione del nostro ceto politico di ladri, ma la denuncia di queste ruberie era nell’azione del corteo my day, per le tute nere era solo un pretesto per sfasciare tutto, dando sfogo ad un nichilismo anarcoide (leggete bene: non ho scritto anarchico, ho scritto anarcoide). A loro interessa solo dire “ci siamo” ed il fine del loro movimento è puramente autoaffermativo e identitario. Il che si combina perfettamente con la ricerca di occasioni di spettacolarizzazione. Ne consegue il rifiuto di ogni proposta e della stessa dimensione politica: questo è un movimento dell’antipolitica. Ma anche antisociale: se è una protesta è giusto spaccare tutto, anche la macchina di un povero diavolo che sta ancora pagando il mutuo e non è per niente un uomo di potere, però ha il torto di “non stare con noi a protestare”. Da cui discende il carattere fondamentalista del movimento, che non cerca interlocuzioni, confronti, mediazioni ma solo l’affermazione della propria identità e la delegittimazione di ogni altra. Da questo punto di vista, questo fondamentalismo è il rovescio della medaglia di quello neo liberista, anche questo è una forma di “pensiero unico” non interessato al confronto».

Domandiamoci: perchè questi giovani non assaltano i veri simboli del potere, quali prefetture, caserme, sedi istituzionali ecc.? Perchè attaccano obiettivi “sovrastrutturali”, come negozi, automobili, bancomat, ecc. e, ad esempio, non organizzano cortei contro le basi Nato o i vari centri nevralgici economico-finanziari che stanno animando l’unipolarismo globale? L’azione violenta fine a se stessa – mi spiace, ma la vedo così – specie senza alcuna ideologia e senza il supporto di masse pronte a sorreggerti (cosa che negli anni ’70 in parte avveniva: all’azione spesso corrispondeva l’appoggio dei lavoratori, all’epoca politicizzati e vicini a partiti ideologizzati che proiettavano Visioni del Mondo, e non un semplice “quieto vivere aziendalista”) serve solo a rafforzare il blocco politico-sociale che sorregge il sistema vigente, che criminalizzando la violenza gratuita che “spacca tutto”, parteggia per il celerino, per la guardia, per il carabiniere, ergo, per il braccio armato del sistema capitalista americanocentrico.
Altra pecca è che il culto della violenza fine a se stessa come se fosse di per sè purificatrice, che ha un non so che di soreliano (ovviamente non voglio assomigliare ad Amendola, che diede ai ragazzi del ‘movimento del ’77’ dei “diciannovisti” ), in questo caso non è mai supportata da un’azione politica, quella che oggi più manca, e neanche da quella sindacale. Abbiamo appurato che oggi i precari e i disoccupati non sono garantiti da nessuno. I centri sociali spesso hanno organizzato enti come lo sportello San Precario e altre iniziative, che però alla lunga si sono ridotte a poco, e non per mancanza di volontà. Ridurli a luoghi dove circola droga lo lasciamo fare ai benpensanti che votano per il duo “renzusconiano” o ai fascio-leghisti desiderosi di portare “legge e ordine” come a Genova nel 2001 ecc., ma è però evidente che in quei contesti manca l’atto propositivo mentre vi è solo quello contestativo, di per sè legittimo. In una fase storica caratterizzata dall’assenza di egemonia culturale da parte della Sinistra, una porcata immane come l’Expo, laboratorio della speculazione e della precarietà perenne, non va contestata devastando tutto, compresa la macchina del povero cristo che non avrà i soldi per ricomprasela. Sono altre le cose da fare, come quella ad esempio di cercare di far assumere propri militanti nei padiglioni per permettere un’azione sindacale dal basso, magari per avvicinare tutti quei lavoratori depoliticizzati facendogli notare le palesi contraddizioni del lavorare in quel luogo, sottopagati e sfruttati. La qual cosa potrebbe poi creare situazioni come scioperi più o meno spontanei o, conclusa la manifestazione fra sei mesi, far sì che tali idee “sovversive” proseguano a diffondersi, si propaghino al di fuori, nel mondo del lavoro ormai dominato da un jobs act che, secondo alcuni, vorrebbe depotenzializzare il sindacato a scapito del salariato… Ma per farlo bisogna avere progettualità, idee, e il desiderio di animare un soggetto “nuovo”, ideologicamente antagonista al sistema vigente, insomma, una vera “nuova Sinistra” (non quella dei soli diritti civili ), oggi pressoché assente. Insomma, ben venga, per quanto mi riguarda, l’analisi del prof. Giannuli («vi è piaciuto – prosegue – eliminare o ridurre ai margini i canali di trasmissione della domanda politica (partiti, sindacati ecc)? Vi è piaciuto produrre la spoliticizzazione di massa, promuovere la cultura dell’iper individualismo? Bene: il risultato è la jacquerie urbana»), ma il lavoro da fare è lunghissimo, e non deve solo essere politico, ma anche “meta politico”: riguadagnare un’egemonia perduta dopo che si è gettata alle ortiche la propria cultura non è un mero guadare indietro, ma un proiettarsi in avanti, ben ancorati alla propria identità. È sulla ricerca di un’egemonia culturale che la sinistra deve riflettere, per non perdere la battaglia sociale che caratterizzerà lo scontro della prima metà del XXI secolo.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Dichiaro di essere al corrente che i commenti agli articoli della testata devono rispettare il principio di continenza verbale, ovvero l'assenza di espressioni offensive o lesive dell'altrui dignità, e di assumermi la piena responsabilità di ciò che scrivo.