Le parole dimenticate della sinistra



Da anni ci interroghiamo sul perché la “sinistra”, perlomeno quella rappresentata dai partiti tradizionali, sia ormai incapace di elaborare una proposta politica che possa attrarre il gran numero di suoi potenziali elettori che non ritengono più di alcuna utilità andare a votare o, addirittura, votano ormai a destra.

Molti hanno analizzato le cause e cercato di proporre soluzioni, alcuni l’hanno fatto in modo che, almeno personalmente, ho trovato molto convincente, ad esempio Sarah Wagenknecht, col suo libro “Contro la sinistra neoliberale”.

A me pare però che, tra le tante cause analizzate, tutte certamente importanti, almeno una sia stata completamente ignorata: oggi alla sinistra mancano le parole. Peggio, la sinistra si vergogna delle sue parole, le ha rinnegate e, così facendo, ha distrutto il suo mondo concettuale di riferiemento, in ultima analisi ha distrutto sé stessa.

Le parole sono fondamentali. Non solo danno forma al pensiero ma, in un senso ancora più profondo, mettono ordine alla realtà, dando un nome alle cose, identificandole e definendole, consentendo così che diventino oggetto di un discorso, di uno scambio di idee che poi può trasformarsi in azione condivisa. Ancor di più, le parole arrivano a creare la realtà, quando danno il nome a cose immateriali, ma assolutamente esistenti una volta che si trovi un accordo sulla loro definizione, come ad esempio statualità, cultura, tradizione, società, giustizia e così via.

La sinistra socialista, comunista o anarchica del novecento conosceva il significato e l’importanza di parole come sfruttamento, alienazione, rappresentanza delle masse, padronato e capitalismo, proletariato, solidarietà, lotta di classe, colonialismo, internazionalismo. Inoltre sapeva usare queste parole e non aveva paura di farlo, anzi, ne “imponeva” l’uso anche ai suoi avversari e, così facendo, “dettava l’agenda” del discorso politico. Allo stesso tempo quelle parole, venendo utilizzate, facevano “esistere” quelle categorie, creando un mondo in cui tanti si riconoscevano e per cui erano disposti ad unirsi e a lottare.

Si sostiene che quelle parole non avrebbero più senso perché non esisterebbero più le categorie che sottendono. Io penso invece che, in larga misura, sia vero il contrario: quelle categorie stanno scomparendo perché si è rinunciato all’uso delle parole che, mentre le definiscono, le rendono concrete e “reali”. Quelle parole avrebbero ancora tutta la forza del loro significato e, ovviamente, ce ne sarebbero anche di nuove da coniare, ma le forze politiche, che oggi vorrebbero rappresentare la sinistra, le ignorano, addirittura arrivano a vergognarsi di utilizzarle, perchè hanno ceduto all’egemonia culturale e al “senso comune” neoliberista e preferiscono utilizzare altre parole, quelle appunto imposte dal pensiero neoliberista, come individualismo, merito, globalismo, concorrenza, deregolamentazione, austerità, in qualche misura perfino una particolare declinazione della parola “democrazia” intesa come somma di libertà individuali e non più come ricerca dell’interesse della maggioranza, pur se contemperato da tutele per le minoranze.

Così facendo, il mondo di riferimento di una possibile sinistra scompare letteralmente, lasciando il campo totalmente in mano ad un mondo neoliberista, dove la sinistra, per lo meno quella che ha rinunciato alle “sue” parole, non ha effettivamente più nulla da dire, diventa muta o, al più, borbotta frasi senza senso con un linguaggio non suo. Ecco, io credo che, per ritrovare la sua gente, la sinistra debba ritrovare anche l’orgoglio delle sue parole.

Fonte foto: da Google

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