Il linguaggio politico e il marxismo

Nei maggiori esponenti del movimento operaio rivoluzionario il linguaggio politico è particolarmente curato ed è perfettamente adeguato alle diverse situazioni storiche o contingenti. Non stiamo parlando di critica letteraria, che lasciamo agli esperti del settore, ma di scritti teorici, di propaganda o di agitazione. In un’intervista del 18 dicembre 1878, il giornalista lesse a Marx un brano piuttosto grossolano che il prete Cook gli attribuiva, e gli chiese se aveva scritto quelle parole. “Neanche una –rispose – non scrivo mai simili sciocchezze melodrammatiche. Rifletto bene a ciò che scrivo. Quel brano apparve sul “Figaro” con la mia firma. Lettere simili furono diffuse allora a centinaia. Scrissi al “Times” di Londra denunciando il falso. Ma se dovessi rispondere a tutto ciò che è stato detto e scritto sul mio conto, dovrei avere a mia disposizione venti segretari.”(1) Ciò prova che già allora la maggior parte dei giornali erano strumenti dei regimi, ma anche la cura con cui Marx evitava formulazioni inadeguate. L’espressione deve essere perfettamente aderente alle esigenze della fase storica. E’ interessante il confronto tra il “Manifesto” e l’Indirizzo Inaugurale dell’Associazione Internazionale degli operai. Il Manifesto fu scritto quando la rivoluzione era alle porte, l’Indirizzo in un momento in cui occorreva unire tutti gli elementi combattivi proletari in un solo movimento. “Occorrerà tempo – scriveva Marx ad Engels – prima che il movimento ridestato consenta l’antica audacia di parola. Necessario fortiter in re, suaviter in modo”(2) Il linguaggio è più moderato di quello del Manifesto, eppure secondo Beesly, uno studioso benemerito della causa proletaria, l’Indirizzo “era probabilmente l’esposizione più potente e precisa della causa operaia contro la classe media che fosse mai stata scritta, concentrata in una dozzina di paginette” “La genialità incomparabile dell’Indirizzo e degli Statuti stava appunto nel fatto che essi si ricollegavano interamente allo stato presente delle cose e nello stesso tempo, come una volta disse giustamente Liebknecht, contenevano fino alle ultime conseguenze i principi del comunismo, non meno del Manifesto Comunista”(3) Quando occorreva, Marx sapeva essere durissimo. Marcel Herwegh (figlio del poeta Georg) scriveva: “Il sarcasmo con cui perseguitava spietatamente i suoi avversari non era quello tipico del borghese; era freddo e tagliente come la scure del boia” (4) Marx poteva scrivere decine e decine di pagine su un argomento, quando si trattava di aggirare la censura tedesca, che colpiva soprattutto gli scritti brevi ed era assai più tollerante con quelli lunghi; ma poteva anche essere estremamente sintetico, come nei considérants del Programma del Parti Ouvrier del 1880, che dettò direttamente, e dei quali Engels scrisse: “…un capolavoro di argomentazione stringente, che in poche frasi chiarisce le cose alle masse, in un modo come raramente mi è capitato di vedere e che, anche in una versione così concisa, mi ha lasciato stupefatto ” (5) Quanto ad Engels, gli inglesi che lo frequentarono e i giornalisti che intervistarono lui e Marx erano concordi nel ritenere il suo linguaggio particolarmente corretto. Anche dopo i settanta anni – allora era considerata un’età avanzata, e tornerà nuovamente ad esserlo, perché le condizioni di vita delle masse in continuo peggioramento hanno cominciato a ridurre la speranza di vita in molti paesi – seppe seguire l’evoluzione del lingua, e i suoi scritti erano perfettamente comprensibili anche per i più giovani. Sia lui che Marx evitavano i luoghi comuni del movimento operaio, le frasi tipiche dei lassalliani, dei proudhoniani e dei tradunionisti. Lenin cercava di evitare le espressioni difficili –“…tenere sempre presente il lettore operaio”, ma questo non voleva dire annacquare il discorso. La chiara distinzione tra propaganda e agitazione, presente nel “Che fare”, ci permette di evitare molti errori. Nella propaganda, si tratta di collegare organicamente una molteplicità di idee e di fatti; per esempio, il rapporto tra fattori generali, come la crisi, e le conseguenze politiche e sociali, devono essere facilmente comprensibili per chi legge. A monte c’è uno studio, una ricerca a volte poderosa di chi scrive, ma questo sforzo non deve apparire, allo stesso modo che, nel movimento sicuro dell’atleta non appaiono i sacrifici del costante allenamento. E’ importante abituare il lettore a non considerare i fatti e i problemi nel loro isolamento –cosa che rende impossibile la comprensione – ma a cercare i nessi reali. La propaganda mira alla formazione politica, e raggiunge un grande risultato ogni volta che un giovane lettore arriva a orientarsi da solo. Nella propaganda, un linguaggio eccessivamente emotivo o inutilmente violento sarebbe di disturbo. Nell’agitazione, invece, si tratta di partire da un fatto, per suscitare l’indignazione e favorire la lotta. Qui, il linguaggio può esser più colorito. Il fatto scelto deve essere veramente rilevante e ben documentato, tenendo conto che oggi è abituale, per gli avversari di classe, invece di discutere sull’interpretazione del fatto, negarlo, con completo spregio dell’evidenza. Mentre la propaganda si rivolge a persone che hanno una certa abitudine alla critica, quindi è abbastanza agevole confutare le falsificazioni, nell’agitazione, che si rivolge a un pubblico vasto, il vantaggio degli avversari è forte. Oggi, ci sono intere squadre di stipendiati impegnati nella disinformazione. Se, per esempio, si denuncia una grave colpa del governo o di un uomo politico su Internet, e subito dopo appare un file che la dichiara una bufala, la maggior parte dei lettori non si mette certo a indagare chi ha ragione. L’agitazione, oggi, è più difficile rispetto ai tempi di Lenin, anche se le possibilità di diffusione sono molto maggiori. Allora era prevalentemente orale, ed era facile rendersi conto immediatamente dell’effetto che faceva, e, all’occorrenza, correggere il tiro. Oggi, è in gran parte mediata dal web, e sono molte le insidie. Occorre più scaltrezza e un maggiore controllo del contenuto e del linguaggio, per non offrire spunti agli avversari. Perciò dobbiamo liberarci del linguaggio, ancora in uso in molti settori dell’estrema sinistra, derivato dal reducismo sessantottino. Ciò che poteva avere un senso mezzo secolo fa, ne ha oggi un altro o nessuno. La fedeltà alla lotta di classe e al comunismo non si esprime con la ripetizione di vecchie formule, che rischiano di trasformarsi in gusci vuoti. Bisogna, invece, favorire la creatività nei lavoratori e nei comunisti, che è proprio il contrario di ciò che spesso accade in Internet, dove articoli seri e meditati vengono sommersi da commenti estemporanei. Molti credono di essere particolarmente incisivi se usano espressioni volgari, ma la parolaccia, è una reazione puramente passiva a una situazione di oppressione e di malessere, e non certo segno di una sviluppata coscienza politica. “Il linguaggio sguaiato e le imprecazioni sono l’eredità della schiavitù, dell’umiliazione e del disprezzo per la dignità umana – la propria e quella degli altri.”, scrive Trotsky ne “La battaglia per un linguaggio colto”. Un fattore di diseducazione è dato da molti dibattiti TV, dove si dà spazio ai politicanti più grossolani, che interrompono continuamente gli avversari. Potremmo dire che l’oratoria – ci si perdoni il neologismo- è stata sostituita dall‘”interruttoria”. L’importante è capire che la difesa del linguaggio corretto ed efficace non è un’esigenza puramente estetica, ma è una necessità politica. La disgregazione del linguaggio, che la borghesia ci impone, fa parte del tentativo di trasformare il proletariato in una massa amorfa, in cui regna la confusione cronica, senza direttive politiche, eccetto quelle suggerite dalla borghesia, di governo o di pseudo opposizione.
Note 1) Colloqui con Marx ed Engels. Testimonianze sulla vita di Marx ed Engels raccolte da Hans Magnus Enzensberger, pag, 388 e ss.
2) Marx a Engels, 4 novembre 1864.
3) Franz Mehring, “Vita di Marx”, Cap. XI, “Gli inizi dell’Internazionale, Indirizzo inaugurale e statuti.
4) Colloqui, op. cit., pag. 19.
5) Engels a Eduard Bernstein, 25 ottobre 1881.

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