Periodicamente, intorno al dibattito sui diritti civili affiora la categoria di Medioevo. Viene generalmente utilizzata contro i più arcigni negatori dei diritti civili, per additarli come retrivi. Il Medioevo viene, per la verità, soltanto evocato, la sua apparizione è del tutto marginale e fugace. Non si troverà traccia di approfondimento del concetto. Tipicamente comparirà in espressioni come “Non siamo più nel Medioevo”, “Il Medioevo è finito da un pezzo” e simili, frequentissime attestazioni. Si tratta, insomma, del classico uso stereotipato negativo, che, progressivamente superato dalla storiografia del Novecento, continua a resistere nel senso comune. Tutti gli storici,di qualunque orientamento, medievisti e non solo, guardano al Medioevo in modo complesso, come una lunga epoca della storia umana che ha avuto luci e ombre, nonché importanti differenziazioni interne. Quanto all’immagine del Medioevo come età di barbarie, oscurantismo e superstizione, è noto, o dovrebbe esserlo, che essa è stata costruita dagli umanisti e completata dall’Illuminismo. Si tratta di una immagine riduttiva, che, proiettando sul Medioevo connotazioni esclusivamente di segno negativo – in larga parte per logiche di contrapposizione delle due epoche che lo hanno, rispettivamente, inventato (l’Umanesimo) e integralmente condannato (l’Illuminismo) – contiene inevitabilmente una lunga serie di approssimazioni e distorsioni.
Se quella immagine negativa del Medioevo è stata nettamente corretta dalla storiografia del Novecento, perché è così resistente nel senso comune? A cosa si deve la persistente sfasatura tra il giudizio degli storici e l’uso della categoria di Medioevo nel discorso pubblico? Di sicuro si spiega, almeno in parte, con la facilità con la quale è possibile disporre di un concetto che conferma, con un approccio deduttivo, le proprie convinzioni e le proprie posizioni. Permette di additare qualunque punto di vista che si opponga al proprio come arcaico, brutale, retrogrado; e, quindi, con implicazione certa e immediata, il proprio come giusto, liberatore, emancipatore. Consente di sedersi facilmente dalla parte giusta, addirittura di accomodarsi sul piedistallo del culmine della Storia, dopo aver diviso lo spettro delle posizioni possibili e il mondo in due soli blocchi contrapposti, formati da chi sposa il progresso e da chi lo osteggia.
I “progressisti” che chiamano in causa il Medioevo solo perché hanno bisogno di un sinonimo spicciolo di arretratezza dimostrano sia di non conoscere la storia, sia di averne una visione brutalmente lineare e scioccamente progressiva. Ignorano, per esempio, che la morale sessuale repressiva è un prodotto non del Medioevo ma della Controriforma. Fu l’intransigente reazione della Chiesa cattolica nei confronti della Riforma e della diffusione delle confessioni protestanti, che ebbe nel concilio di Trento (1545-1563) il suo luogo di elaborazione, a prendere la via del “disciplinamento sociale”, ossia dell’imposizione alla società dei valori e della pedagogia della Chiesa cattolica controriformistica. Non è un caso che la lussuria venisse innalzata proprio dalla Chiesa tridentina a vizio capitale più grave degli altri. Il Medioevo fu, da questo punto di vista, certamente più tollerante.
Quest’uso estremamente inaccurato, stereotipato e riduttivo, e in una parola, volendo, crassamente incolto, si ritrova nei campioni dell’odierno liberal-progressismo laico e arcobaleno. Ma questo progressismo è la stampella dell’ideologia mercantilistica, iper-mercatista e globalista che oggi traduce, forse, nemmeno più l’egemonia del “neoliberismo”, ma di una sua specializzazione, ossia il neocapitalismo digitale; e che, comunque, presuppone la liquidazione della cultura del conflitto, della questione sociale, dei diritti sociali.
Che una componente della destra italiana sia, sul tema dei diritti civili e non solo, arcaica, è un dato di fatto; ma che la parte evoluta del Paese possa essere riconosciuta in chi guarda ancora al Medioevo come due secoli e mezzo fa, o almeno in un modo che si poteva scusare prima dei decisivi contributi della storiografia del primo e del secondo Novecento, è quanto meno lecito metterlo in dubbio. Si dirà “che sarà mai!”, ma chi confonde il Medioevo con l’età della Controriforma, chi proprio non intende farsi carico della complessità può permettersi altezzosamente di dare dell’ignorante a qualcun altro?
Il costante “svarione” sul Medioevo non è causale. Il modo di guardare al passato non è mai indifferente alla rappresentazione del presente. Appare, dunque, più probabile che l’uso stereotipato negativo del Medioevo sia un sintomo rivelatore; che sia al suo posto nella cornice di pensiero che proietta tutto il senso della lotta per l’emancipazione e il “progresso” sociale sui soli diritti individuali neoliberali, ossia sui diritti individuali comportamentali e completamente esteriorizzati, che per altro sono molto meno dei diritti civili seriamente intesi, giacché questi, in tal caso, hanno sempre anche importanti ricadute sociali (si pensi alle grandi battaglie per il divorzio e per l’aborto). Per l’odierno progressismo questa versione sgonfia dei diritti civili deve rappresentare la linea del fronte, l’aut-aut radicale di una crociata, la madre di tutte le battaglie che deve rendere impossibile pensare le altre, le lotte sociali. La madre di tutte le battaglia da condurre fianco a fianco con Amazon, con Google, con l’establishment, con l’informazione mainstream. L’uso stolidamente neo-illuminista della categoria di Medioevo non è affatto casuale, ma l’ovvio sintomo di una visione della storia e del conflitto (o meglio della sua pretesa assenza e della sua volontaria negazione) di marca progressista, al cuore di una ideologia che va avversata tanto quanto quella della destra più retriva e reazionaria.