Il mondo nuovissimo (romanzo distopico)

In questo breve romanzo, uscito a inizio settembre e che pubblichiamo a puntate a partire da oggi, l’autore, Norberto Fragiacomo, prende il via da un presente ingarbugliato e angosciante per inoltrarsi ben presto in un possibile (ma poco auspicabile) futuro neanche troppo remoto. Nel “mondo nuovissimo” cui allude il titolo è ambientata gran parte della vicenda, che si dipana in una manciata di giorni – l’incipit è però dedicato all’attualità, visto che l’anno 202X potrebbe facilmente coincidere con quello in corso. I personaggi sono di fantasia (non poteva mancare la presenza, quasi un cameo, del commissario Libero Sassinovich, protagonista di numerose novelle scritte in passato da Fragiacomo, alcune delle quali sono disponibili in rete), ma lo sfondo è purtroppo realistico: oggi quello di una guerra gradita soprattutto ai centri di potere anglosassone e dall’esito imprevedibile, domani una società di sopravvissuti ai “quattro cavalieri dell’apocalisse” che potrebbe essere il prodotto dell’evoluzione in atto in quello che i media di regime si ostinano a definire l’Occidente libero e democratico.

Buona lettura!

(Fabrizio Marchi)

 

UN POMERIGGIO DI FINE ESTATE DEL 202X

Le ore pomeridiane erano trascorse rapidamente, e adesso il sole settembrino puntava dritto verso le cime dei colli, indorando un mondo accaldato e sonnacchioso. Tirava un po’ di brezza e nel cortile dell’osteria si udiva sommesso il frinire delle cicale proveniente dalle chiome degli alberi che crescevano attorno e dalle vigne.

A un tavolo appartato erano seduti due uomini in là con gli anni, i cui gesti ed espressioni tradivano un’antica familiarità: esistono, per quanto rare, amicizie che durano una vita intera. Negli sguardi complici si coglievano però note di stanchezza e disillusione.

«Allora Libero, che si prova a essere finalmente in pensione?» domandò Ciano, versandosi un bicchiere di vino rosso dalle cupe tonalità violacee.

L’altro vuotò il suo ottavo, fissando sovrappensiero l’orizzonte aranciato, poi rispose quasi di malavoglia smozzicando le parole: «Dovresti dirmelo tu, visto che ho ancora una settimana di lavoro davanti: ultimi sette giorni da commissario capo – sbadigliò, poi cambiò argomento – Ti ricordi o no che abbiamo festeggiato qui la mia nomina, un secolo fa? Tu, io e Apollo, pace all’anima sua… vinaza a fiumi e ‘na bona gnocada. Altri tempi, squasi bei…» Gli occhi chiari del commissario si illanguidirono, incassandosi fra le rughe che solcavano il volto carnoso e sudaticcio. Tacque, accendendosi l’ennesima sigaretta d’oltreconfine.

«Eh sì, ierimogiovini, audaci e fighi quela volta, nel novezento» scherzò senza troppa allegria il compagno, addentando l’ultimo pezzetto di formaggio rimasto nel vassoio.

«Zovini e basta – tagliò corto Libero, richiamando l’attenzione dell’oste – Pepi, la ne porta ancora mezo de malva[1] e un giardineto[2]? grazie», poi parve ripiombare nelle sue fantasie. Aveva un’aria afflitta, preoccupata, ma forse era soltanto colpa dell’alcol, chissà.

«Commissario capo in extremis – l’ex ispettore Zanetti scosse teatralmente la testa – dovevi finire almeno questore, con tutti i casi che hai risolto! Questo Paese è… irredimibile, proprio».

«A quali casi ti riferisci, amico mio? – un sorriso amaro increspò le labbra del commissario Sassinovich – a quelli risolti ufficialmente o agli altri? E dell’insubordinazione di un remoto settembre ti sei già scordato? La reazione ci ha graziati, ma se la sono legata al dito gli occupanti… a essere sincero manco me l’aspettavo questa promozione, che comunque sa di presa in giro. Presto le nostre pensioni saranno carta straccia, anzi: carta de cul, spero tu te ne renda conto e ti stia preparando».

«Sarà quel che sarà – gemette l’altro, riempiendosi di nuovo il bicchiere – Certo mai avrei immaginato di invecchiare in tempo di guerra! Prosit!» Brindarono all’astro calante, alla luna che s’ingrandiva in cielo, alle poche osmize sopravvissute a crisi e modernità. Nessuno dei due era pago dell’esistenza toccatagli in sorte, che pian piano andava accorciandosi come i pomeriggi a dicembre.

«El nostro lo ga’mo fato, anca se xe sta poca roba – sentenziò infine Libero – semovissudi, come dir?, in periferia, senza né soldi né babe[3]… né vere passioni. Ma per chi che vien ‘desso sarà pezo, ‘ssaipezo che per noi. Prima la pestilenza, poi la guerra che va avanti, non vuole saperne di concludersi… adesso la carestia in arrivo e la prospettiva di una nuova ondata epidemica, che non sarà certo l’ultima. Stiamo assistendo a cambiamenti drammatici e fulminei: niente sarà più come prima, vedrai».

L’ossuto e grigio Zanetti rabbrividì, benché il venticello che annunciava la sera fosse piacevole e per nulla pungente. «Pensi che dobbiamo temere qualcosa in particolare, oltre a qualche missile lanciato per sbaglio? Voglio dire… che questa schifosa situazione… questo susseguirsi di situazioni… possa far comodo a qualcuno dei nostri??»

Libero appallottolò una fetta di prosciutto arrosto intinta nel hren[4] e prima di portarla alle labbra la fissò a lungo, come fosse sorpreso o si aspettasse un qualche suggerimento. «Il problema è che io non so chi siano “i nostri” – bofonchiò a bocca piena, giocherellando con un pezzo di mollica – e neppure se ci siano. Le massime cariche sono appaltate a banchieri e procuratori, i partiti sono fotocopie l’uno dell’altro, a tirare i fili sono gli Stranamore d’oltreoceano, che soffiano sul fuoco del conflitto… molta gente non capisce, e quella che capisce resta inascoltata, la politica va per conto suo e i media le tengono bordone senza ritegno né vergogna, silenziando qualsiasi voce critica… e questo schifo hanno il coraggio di chiamarlo democrazia e di volerlo imporre ai Paesi recalcitranti, oltre che a noialtri. Mi sa che dobbiamo attenderci un… grande repulisti, con i passeggeri di prima classe che, dopo aver piazzato neanche troppo di nascosto le cariche esplosive nella stiva, stanno già saltando sulle scialuppe. Patapùm! Noi di terza classe affonderemo in un attimo assieme allo scafo…»

«Sei sempre stato una Cassandra, ma raramente hai avuto torto… purtroppo – concesse Ciano Zanetti, avvilito – d’altra parte non possiamo arrestare il corso degli eventi. Sta ‘ndando tuto a fuc’[5], xe vero: l’erba è gialla e rinsecchita, le foglie si accartocciano nonostante la calura: manco una goccia di pioggia in un mese… e i telegiornali non parlano d’altro che di siccità e razionamento… anche di guerra e di peste, d’accordo». Bevve un altro sorso di terrano, scacciando con la mano il fantasma di un mussato[6].

Libero annuì: «C’è una regia, voglio dire: è come se stessero recitando un copione… stanno portando la gente all’esasperazione, un’esasperazione spaventata e rabbiosa. La settimana scorsa… avrai sentito, no, dell’omicidio di via Belpoggio? Una vicenda a suo modo banale, ma sinistra e premonitrice…»

«Tutti ne hanno sentito parlare, accidenti! – fece Zanetti – un’insulsa lite fra condomini finita in tragedia, un povero vedovo inoffensivo ammazzato a martellate dal vicino di casa, anzianotto pure lui e incensurato. Il caso l’hai risolto in un batter d’occhio, fra l’altro».

«Proprio un rebus difficile da risolvere! – commentò sarcastico il commissario – la vittima innaffiava ogni mattina con la pompa… un po’ maniacalmente… le piante del giardino condominiale, il Bernetti… un tipo di solito tranquillo, ci è stato detto, un che stava su le sue, ma con pochi soldi in tasca… lo aveva ripetutamente accusato di sprecare acqua… ‘namatina prestoi taca a zigarse[7], fin che un dei due gheciapaelfuter[8] e copa quel altro. Il colpevole ha subito confessato, e quando l’abbiamo portato in questura si è preso la testa fra le mani e ha cominciato a piangere e urlare: cossa go fato, madona mia? Mi dirai, caro Ciano, che i delitti per futili motivi sono vecchi come il mondo… concordo in pieno, però stanno aumentando ovunque, perché la gente è tesa, impaurita, sotto stress… e sempre più sola, povera e sfiduciata. Sei al corrente, no, che è cresciuto a dismisura il numero dei taccheggi nei supermarket e nei despar? Miseria e disperazione dilagano, e anziché contrastarle il governo degli ottimi sembra quasi compiacersene… non so come andrà a finire, anzi lo so benissimo: mi chiedo soltanto quanto a lungo possa ancora reggere questo sistema bacato… un anno, un mese, una settimana? Bah, beviamoci sopra, no ne resta altro…»

«Podessimo parlar de robe un poco meno serie, un ninìn[9] più legere – suggerì l’ispettore in pensione, che di quei discorsi tetri ne aveva abbastanza – de balòn[10], magari

«I disi che anca soto ‘l fassismo se parlava de balòninveze che de politica – gli strizzò l’occhio Libero – ma almeno quela volta l’Unione iera in serie A, ‘desso invezedovemocontentarse de un zero a zero in casa contro undisepelegrini. Corsi e ricorsi storici!» Sbuffata quell’ultima frase il commissario tornò a perdersi nei suoi pensieri, finché lo sguardo vagante fu attratto dalle effusioni che due ragazzi – una ventina d’anni lui, uno o due in meno lei – si stavano scambiando all’ombra di un melo. Dovevano essere arrivati da poco: sul tavolaccio di legno l’oste aveva appena posato un piattino di affettati, una brocca colma d’acqua frizzante e un quarto di vino. Libero non era affatto un guardone, e usualmente quegli spettacoli lo infastidivano («’Ndè casa vostra a far sporchezi[11], maleducati» soleva borbottare fra sé, voltandosi imbronciato dall’altra parte), ma stavolta provò un misto di simpatia e compassione per quella coppia adolescente bramosa di estraniarsi dal mondo. Si rivolse a Ciano parlando a bassa voce: «Vedi, amico mio, noi abbiamo più di sessant’anni, abbiamo vissuto epoche diverse, tutte migliori o meno peggiori di questa… e perciò siamo in grado di fare un confronto, abbiamo… voglio dire… gli anticorpi, e a quello che ci raccontano facciamo la tara. Loro invece… hanno pochi anni e poca esperienza alle spalle, sono tabula rasa, perciò sono programmabili a piacimento, il sistema può fargli credere ciò che desidera. Tra un po’, ci scommetto, smetteranno di sbaciucchiarsi e si riattaccheranno agli smartphone, restando di nuovo soli con le loro foto, i loro stupidi video… e domani? Se non sono di famiglia agiata troveranno lavori saltuari e malpagati… e non protesteranno nemmeno, poiché non conoscono altro modello che questo», concluse in tono malinconico.

Il pronostico si avverò in parte: la biondina si sciolse a un tratto dall’abbraccio del suo spasimante ed estrasse effettivamente dalla borsetta simil Prada un cellulare di ultima generazione, ma il ragazzo si avventò come un falco sugli affettati misti, non prima di essersi servito un generoso bicchiere di rosso; terminato di mangiare (la compagna, attenta alla linea, si era limitata a piluccare qualche oliva) si accese soddisfatto una sigaretta. «Mulo sgaio[12]!» osservò Libero, compiaciuto.

Il sole era ormai tramontato, lasciando in eredità al giorno morente una veste multicolore da indossare prima che fosse sera: era tempo di tornarsene a casa. Sassinovich chiamò il conto, che giudicò piuttosto salato. «Pepi ladròn no se smentissi», sospirò.

«Con la mia pensione da sottufficiale presto potrò permettermi a stento pane e acqua!» protestò contrariato Ciano, ma Libero aveva già messo mano al portafoglio: «Per oggi sei salvo, offro io… come quella volta, tanti e tanti anni orsono. La trapa però se la bevemo al banco». Mentre fiaccamente si incamminavano Zanetti buttò là, alzando gli occhi al cielo: «Par una ciolta in giro che la tua prima indagine… disemouficiosa… gabiriguardado dei russi sovietici, e ‘desso, quaranta ani dopo, xerèpete[13], ga’mo de novo de far con lori».

Sassinovich si adombrò: «Sarìa sta meo se quela… trapola i se la fussiportada a Mosca, come che i voleva, e i fussirivadi a farla funzionar. Forsiogi no fussimo in ‘ste condizioni disperade: fra i due contendentigavemogodù tuti, co xerestài solo i… boni xe ‘ndà tuto in malora. Me auguro che ‘sto mona gabi almeno un poco de brinjevec[14]»

 

ANNO XLII DELL’ERA DELLA RINASCITA

Si gela nell’immenso salone al terzo piano dell’ex ospedale di C.: chini sulle tastiere dei loro vecchi computer, centinaia di impiegati trattengono a stento tremori e starnuti mentre il fiato, uscendo da bocche e nasi arrossati, condensa all’istante. Nell’ambiente adibito a open space la temperatura si aggira sui tredici gradi Celsius: d’altro canto è il ventiquattresimo giorno del dodicesimo mese dell’anno, e violente raffiche di bora sferzano un paesaggio invernale visibile, attraverso l’ampia vetrata, solamente a coloro che occupano le prime file. Sotto il grande stemma dorato della Clint Corporation un antiquato orologio meccanico segna rumoroso e imperturbabile il trascorrere dei minuti, ma la fine del turno quotidiano di dieci ore è ancora lontana: molto prima che termini la giornata di lavoro discenderà la sera e in alto si accenderanno, occultati alla vista, i lumini di stelle e pianeti.

Un giovane sulla trentina, magro, castano e un po’ scialbo (ma gli occhi acquistano a tratti un’insospettata vivacità e il pallore è accentuato dal contrasto con la carnagione olivastra o decisamente scura dei vicini, in grande maggioranza sanguemisti), sta inserendo nella macchina gli ultimi dati pervenutigli sulla produzione cerealicola del Madagascar. Come d’abitudine ci mette impegno: le informazioni vanno vagliate, rapportate ai parametri di riferimento, infine raccolte in complicate tabelle. È facile commettere errori, ma lui è attento e non ne fa quasi mai: per questo occupa la quattordicesima postazione dell’ambita seconda fila e porta all’indice sinistro un anello color rame. Per colleghi e superiori lui è semplicemente due-quattordici, ma in realtà si chiama Marco, cioè Marco 2039 (le prime due cifre corrispondono al giorno della nascita, la terza al mese, la quarta all’anno) – non che tenga granché al proprio nome, che d’altra parte gli è stato assegnato da un calcolatore poco dopo la sua venuta al mondo. Al pari degli altri indossa una specie di divisa beige con il collo alla coreana: il tessuto sintetico non lo protegge di certo dai rigori della stagione, ma all’uscita ritroverà il suo cappotto che, benché in acrilico, un minimo di riparo lo offre.

Improvvisamente Marco viene distratto da uno scalpiccio alle sue spalle: contravvenendo al regolamento interno si volta, e incrocia lo sguardo duro di un anziano collega. È otto-tredici (o quindici), uno delle ultime file, con cui non ha mai scambiato una parola in vita sua. Passa per un tipo taciturno, scontroso: ha i capelli bianchi e la faccia slavata – l’unico segno particolare è una piccola voglia sbiadita sul lato sinistro del collo. Otto-tredici (o quindici, forse sedici) lo sta squadrando ostilmente; no, si rende conto Marco, l’ostilità è rivolta allo schermo acceso del suo computer. L’uomo si allontana, lasciando cadere un bigliettino, poi percorre a passi nervosi la corsia che separa la seconda dalla terza fila di banchi. È una grave violazione delle norme vigenti: è consentito abbandonare il proprio posto soltanto per l’espletamento di bisogni fisiologici, non certo per una passeggiata. Otto eccetera dissemina altri foglietti, poi rompe finalmente il silenzio e si schiarisce la voce: su di lui si appuntano sguardi allucinati. Che avverrà ora?

«Ascoltatemi! – esordisce il vecchio con voce stentorea (le palpebre sono scosse però da un percettibile tremolio) – davvero non vi siete accorti che vi stanno ingannando dal giorno della vostra nascita? Lavorate sessanta ore a settimana, come faccio anch’io, e a che scopo? Neppure quello di arricchire i vostri padroni, perché ciò che vi danno da fare non serve a nulla! I dati che state inserendo… dicono ad esempio che la produzione di cereali del Madagascar è il doppio di quella della regione del Mar Nero… avete mai visto un documentario sul Madagascar? È una grande isola africana spopolata da decenni: vi si produce ancora un po’ di riso, una volta c’erano piantagioni di caffè… non l’hanno mai vista una spiga di grano i suoi pochi abitanti! E’ tutto finto, mi capite?, finto! Vi tengono qui dentro, in gabbia, indorando la pillola con bei racconti… ma Mustafà Mond e i suoi, gli architetti del mondo nuovissimo, ebbene… vi rubano la vita e vi controllano a piacimento, siete i loro pupazzi… in scadenza! – il discorso si ingarbuglia, il ribelle si sforza di essere chiaro senza riuscirci; in un impeto di collera, che forse è un’intuizione, getta lontano l’anello di stagno – Toglietevelo anche voi, abbiate il coraggio di vedere! – intima agli astanti, sbalestrati – il mondo è tutto diverso da come ve lo descrivono, o almeno lo era, vi hanno accecato e ridotto in schiavitù, cancellando persino… il Natale, domani!» assume un tono supplice, spalancando le braccia, ma proprio in quel momento fanno il loro ingresso, da una porta laterale, due automi-guardiani. Avanzano con andatura cadenzata, sicuri e silenziosi: il vecchio cerca di fuggire, ma inesorabilmente lo raggiungono – lui si sbraccia, grida, resiste, ma basta un getto di spray per fargli perdere i sensi. Lo portano fuori, accompagnati dall’applauso sommesso e timoroso di molti lavoranti. Marco invece è rimasto scosso dalla scena, oltre che da quelle frasi convulse, incomprensibili: prova pena per otto qualcosa, senza lasciare la postazione si china per raccogliere il biglietto e se lo ficca in tasca, tossendo.

 

(fine prima parte)

[1]Malva=abbrev. di malvasia, vino bianco istriano.

[2]Giardineto=piatto di affettati e sottaceti.

[3]Baba=donna, ragazza.

[4]Hren=rafano.

[5]Andar a fuc’=guastarsi, andare in malora.

[6]Mussato=zanzara.

[7]Zigàr=gridare.

[8]Futer=collera, rabbia improvvisa.

[9]Un ninìn=un po’.

[10]Balòn=calcio.

[11]Sporchezi=porcherie.

[12]Mulo sgaio=ragazzo in gamba.

[13]Rèpete=di nuovo.

[14]Brinjevec=distillato di bacche di ginepro.

Nessuna descrizione disponibile. 

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