La fine sociale delle ferrovie.

Foto: www.silenzio-in-sala.com

Un lutto dignitoso per il disastro ferroviario sulla Bari nord, imporrebbe un piccolo ragionamento storico sulla gestione del sistema ferroviario italiano. Non è vero che “quando c’era lui i treni erano in orario”, in quell’Italia rurale la gran parte delle strutture erano fatiscenti e un po’ come adesso si investiva su grandi opere, come ad esempio la Stazione Termini di Roma che ha distrutto il centro Umbertino della città. Vero che ci fu una vasta, non totale, nazionalizzazione delle compagnie private e un forte investimento in personale, c’era pure la “milizia ferroviaria”. In realtà il periodo d’oro delle ferrovie fu il secondo dopoguerra fino a metà degli anni 70. Le ferrovie furono strumento di unificazione del paese contribuendo a gestire la grande migrazione interna, si ricordi l’arrivo di “Rocco e i suoi Fratelli” alla stazione centrale di Milano.

I convogli cominciarono a migliorare solo negli anni 70 ma i costi dei biglietti erano bassissimi, certamente i tempi di percorrenza, sulle lunghe tratte, erano elevati ma per la massa di persone che si spostavano, milioni soprattutto durante l’estate, accettabili. Ci fu un grande investimento in personale –sia di stazione che rotante – i disastri, in relazione alla tecnologia di allora, furono soprattutto le diverse stragi che non a caso e simbolicamente colpirono Bologna e il sud. Insomma le FS furono un presidio dello stato sociale, un investimento a debito alla maniera keinesiana  ma anche un mezzo (mobilità) per alleviare un fine doloroso (l’emigrazione); le ferrovie ebbero una chiara missione pubblica. Tutto cambia quando si decide, come per altri settori di assistenza sociale, che dai treni bisogna ricavar profitto. Allora cambia l’utenza, gli investimenti ed in definitiva il fine sociale. Una delle scuse, per nascondere il furto e la privatizzazione del bene pubblico, presupposto della svolta privatista, è il fatto che l’Italia più ricca non avesse più bisogno dei treni-tradotta per meridionali, dei Milano-Reggio Calabria. Certo, ma quell’Italia, leggermente più ricca, aveva bisogno di treni per i pendolari, quelli costretti per la mobilità del lavoro e i costi degli immobili a risiedere lontano dalle sedi di lavoro, i soggetti relativamente più colpiti dal delirio speculativo neoliberista. Ovviamente il ciclo “privato-privato” aveva un’altra finalità, e cioè fare i soldi a monte e a valle: grandi opere finanziate dal pubblico (questo si scopre sempre dopo le fanfare della vigilia sulla partecipazione dei privati alle infrastrutture), induzione al consumo dell’alta velocità, aumento dei biglietti, taglio del personale, sacrificio delle linee secondarie, quelle dei pendolari. La corta visione del profitto privato ha generato così la tipica situazione di oneri che debbono essere supportati dal pubblico: l’infrastruttura TAV (Roma-Milano) è stata tutta pubblica ma ora gli incassi sono privati mentre è ovvio che per linee secondarie occorreva reinvestire in perdita e con spirito solidale, magari qualche introito della TAV. Due immagini spiegano meglio:  la tragedia pugliese dove il popolo muore nelle lamiere di una linea “privata” e da contraltare allo sperpero “pubblico”, e la guerra al popolo della valle della TAV di Susa. Il declino sociale delle ferrovie italiane ancor più di altri settori industriali ben rappresenta quella “deindustrializzazione” per come l’ha intesa Luciano Gallino, cioè la fine di una “utilità” sociale della produzione, il trionfo della speculazione.

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