Non
abbiamo mai dubitato dell’imprevedibilità di Donald Trump, ma speravamo che,
una volta in carica, si sarebbe mostrato meno aggressivo del predecessore e che
non avrebbe scatenato guerre. Si trattava non di una certezza, ma di una
scommessa – e salvo ulteriori colpi di scena possiamo serenamente ammettere di
averla persa.
A
gennaio affermai, nel corso di una puntata de il Processo del giovedì,
che nei riguardi della Russia il nuovo Presidente USA avrebbe potuto assumere
tre atteggiamenti alternativi: seguire il modello Biden, cioè demonizzare l’avversario
e rifornire costantemente di armi l’Ucraina senza troppi clamori (tante
minacce, ma di rivendicazioni manco l’ombra); porre fine al conflitto
riconoscendo le ragioni dei russi e patrocinando un compromesso realistico; terza
possibilità, reagire alla (pronosticabile) fermezza di Putin con un “fallo di frustrazione”
e dare il via a una definitiva escalation. Trump è stato all’altezza della sua
fama, perché nel breve volgere di nove mesi è riuscito a percorrere un tratto
della prima strada (conferma iniziale delle decisioni già assunte dai
democratici), poi a imboccare d’impeto la seconda – fino all’incontro in Alaska
– e infine a invertire repentinamente la rotta, annunciando l’invio di missili
a lungo raggio e il sostegno satellitare “per colpire in profondità la Russia”.
La
spiegazione (più) logica dell’ultimo voltafaccia è che, a questo punto, il
tycoon consideri l’uso della forza militare l’unico mezzo idoneo ad imporre
alla Federazione una tregua che altrimenti giammai sarebbe accettata, poiché
per il presunto “aggressore non provocato” essa equivarrebbe a una sconfitta
strategica. Forse egli pensa che la mossa riuscitagli con l’Iran (che a un attacco
aereo spettacolare ma più che altro simbolico non replicò, acconsentendo
tacitamente alla sospensione delle ostilità provocate da Israele) possa essere
ripetuta con successo anche nell’est Europa – fare pace per bombardare,
come cantava il gruppo Lo Stato Sociale. Fosse questa la strategia sarebbe
tanto rischiosa quanto fallimentare: la Repubblica Islamica, pur
proditoriamente aggredita dallo Stato etnico israeliano, cercava comunque una
via d’uscita da un confronto militare non voluto e reputato al momento tutt’altro
che auspicabile. Un cessate il fuoco provvisorio non è invece negli interessi
della Russia, senz’altro disponibile a una pace che tenga però conto delle effettive
responsabilità, delle esigenze più volte manifestate e della situazione
maturata sul campo.
Facciamo
attenzione a un particolare: se all’incursione dei bombardieri stealth
avesse fatto seguito un massiccio contrattacco iraniano quest’ultimo sarebbe
stato pienamente giustificato alla luce del diritto internazionale e persino
(non c’entra, ma c’entra) del disposto dell’articolo 11 della nostra
Costituzione, visto che nel caso citato c’erano davvero “un aggressore e un
aggredito”. Alla stessa stregua dopo il recentissimo proclama trumpiano (Biden,
rammentiamocelo, colpiva in silenzio e poi nascondeva la mano) il lancio di
missili statunitensi contro obiettivi russi sarebbe nella sostanza una
dichiarazione di guerra e – tenuto conto di due fatti noti, vale a dire
dell’attitudine dei tomahawk a trasportare testate nucleari e delle modifiche
apportate dal governo di Mosca alla dottrina militare della Federazione – legittimerebbe
il ricorso all’arma atomica. Medvedev l’ha opportunamente segnalato agli
americani, che hanno risposto con sfottò e contumelie. Siamo realmente sulla
soglia dell’apocalisse.
Trump
o non Trump, perlomeno la posizione americana è comprensibile: sono stati gli
USA a costringere la Russia a scendere in campo in Ucraina, allo scopo di
intrappolare un rivale strategico e possibilmente di annichilirlo (Putin era
conscio del rischio, ma in quelle circostanze non aveva scelta). Malgrado gli
sforzi fatti l’obiettivo non è stato raggiunto, e difficilmente potrà essere
conseguito nel prossimo futuro; d’altra parte gli Stati Uniti non possono
sconfessare se stessi accettando supinamente l’avvento di un multipolarismo che
già adesso minaccia il loro (declinante) predominio sul resto del mondo. La
guerra dunque proseguirà, anche e soprattutto perché l’emergenza bellica ha se
non altro rafforzato e irrigidito il controllo americano sugli Stati vassalli
dell’Europa (non so se questo fosse lo scopo principale della “campagna d’Ucraina”,
come sostiene il professor Orsini, ma di sicuro è un’evoluzione gradita a
Washington).
In
questa cornice sono stati proprio i governi del Vecchio Continente ad assumere
posizioni che, in apparenza prive di ogni logica, contraddicono un passato
prossimo di collaborazione anzitutto economica con la Federazione Russa. In
effetti Francia e Germania tentarono timidamente di scongiurare, a inizio 2022,
lo scoppio delle ostilità, ma poi si adeguarono con prontezza alla nuova realtà
ergendosi a paladini del regime di Kiev e dopo l’elezione di Trump insistettero
d’intesa con la Gran Bretagna a sabotare qualsiasi ipotesi di compromesso. Il
discorso non riguarda i britannici, da sempre ostili alla Russia e avvezzi a
fomentare divisioni tra i continentali: nonostante i postumi sogni di
riaffermazione Londra è un’appendice dell’impero americano – partner junior,
non colonia.
Berlino,
Parigi, Roma ecc. non hanno invece concreti motivi di attrito con la Russia,
che nei loro riguardi ha sempre ostentato benevolenza (interessata, ma
trattandosi di rapporti fra Stati è del tutto normale) e ambiva fino a ieri a
ricucire relazioni basate sul vantaggio reciproco. Come si spiega allora lo
sprezzante rifiuto di instaurare persino un dialogo (le “proposte di pace”
formulate in sede UE sono talmente assurde da essere etichettabili come
provocazioni)?
Il
richiamo all’etica è un espediente
risibile e offensivo per l’intelligenza del pubblico: l’Ucraina, presunta
vittima, è una corruttissima autocrazia in lotta contro propri cittadini fin
dal 2014, e l’indifferenza dimostrata nei confronti dei palestinesi
martirizzati sbugiarda i nostri governanti e smaschera la loro ipocrisia. Non
si tratta neppure di compiacere le opinioni pubbliche nazionali, in larga
misura pacifiste e dubbiose sull’attribuzione di ragioni e torti ad onta di una
propaganda martellante. Quanto alle difficoltà economiche derivanti dalle
(auto)sanzioni, esse sono tangibili e palesi, mentre i piani di riarmo e i
finanziamenti a fondo perduto a Zelenskyj mettono a repentaglio la stabilità
dei bilanci: non c’è proprio nessuna convenienza a inasprire quotidianamente il
confronto con una potenza magari fragile, ma pur sempre in possesso del più
moderno arsenale atomico del pianeta.
Invero
se Macron, Merz e compagnia si fossero adattati all’ultima giravolta di Trump
non ci sarebbe di che stupirsi (clientes
obsequuntur domino…); la stranezza sta nel fatto che costoro l’hanno
invocata e propiziata. Partiamo da un’evidenza fattuale: le élite politiche dei
Paesi europei non rappresentano i rispettivi elettorati, che circuiscono con
slogan e promesse da marinaio, ma vengono selezionate per curare gli interessi
di soggetti terzi, statuali o privati. Acclarato questo, dobbiamo chiederci
perché non abbiano abbracciato il (temporaneo) pacifismo di padron Donald, in
prospettiva benefico per i popoli amministrati. Se l’aristocratico si mostra
benevolo verso i servitori perché mai il maggiordomo dovrebbe angariarli? Non
sarebbe più saggio assecondare l’uno e cattivarsi nel contempo la gratitudine
degli altri?
Le
chiavi interpretative dell’intransigenza riscontrata in questi mesi sono
molteplici, ma quasi tutte insoddisfacenti o parziali. Von der Leyen, Macron,
Meloni e soci potrebbero aver puntato sulla volubilità di Trump – che magari
tra una settimana cambierà nuovamente avviso, com’è tipico dei lunatici – o
piuttosto aver concordato con lui di utilizzare lo schema “poliziotto
buono-poliziotto cattivo” per confondere il nemico (è la tesi non inverosimile
di Nicolai Lilin), ammesso e non concesso che il Presidente USA sia in grado di
elaborare una strategia. Potrebbero anche voler sfruttare l’atmosfera da guerra
imminente per motivare scelte impopolari e liberticide (l’emergenza Covid è
stata un ottimo allenamento), mentre escludo che scorgano nella crisi
l’opportunità, riarmando, di affrancarsi dal predominio americano: “machiavellizzare”
questa banda di guitti significa tributarle un onore immeritato.
Residua un’ipotesi – credo – meno strampalata delle precedenti: che a istruire il leaderismo di servizio sia stato non un tronfio passante di nome Donald Trump, bensì la cupola affaristica che da generazioni signoreggia sull’Occidente e – rinnovandosi continuamente senza cambiare natura – detta alla politica le priorità da perseguire. Si ritiene (ci viene assicurato dai media) che la Russia e persino la Cina siano Paesi capitalisti: può darsi che entro certi limiti ciò sia vero, ma saremmo comunque di fronte a una diversa specie di capitalismo, che prevede un ruolo direttivo e non servente dello Stato nei confronti della (grande) iniziativa economica privata. Se questo modello “eretico” si affermasse assieme ai BRICS, le grandi entità societarie che, dipartendosi dal sedicente mondo libero, estendono i loro tentacoli sino ai confini del globo e decidono a capriccio il destino delle nazioni si troverebbero d’improvviso relegate in un ghetto periferico. L’affermazione del multipolarismo sconvolgerebbe gli equilibri di potere mondiale, ed è verosimile che la mera ipotesi di un siffatto rovesciamento atterrisca coloro che quel potere attualmente detengono. Questa cricca sovranazionale può avvalersi di un’alleanza militare offensiva, la NATO, imperniata sull’inesauribile arsenale degli Stati Uniti, che di essa sono il garante e l’emanazione politico-militare. Trump sarà pure un outsider incline ai colpi di testa, ma riveste un ruolo – e qualcuno ogni tanto deve ricordarglielo, magari uno schiavo “volenteroso” che, con accento tedesco o francese, sussurri al suo orecchio ferito: “Ricordati che sei soltanto un uomo”.
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